assurdità

Nove giorni in carcere per un reato commesso 18 anni fa. Un caso di pazza giustizia italiana

Ermes Antonucci

Un uomo è stato sbattuto in carcere nove giorni per espiare una pena per fatti risalenti a diciotto anni fa, quando era appena 22enne. Da allora si è trasferito in un'altra regione, ha trovato lavoro, si è fatto una famiglia e non ha più avuto problemi con la giustizia. "E' questa la funzione della pena in Italia?", si chiede il suo avvocato

E’ stato sbattuto in carcere nove giorni per espiare una pena per fatti risalenti a diciotto anni fa, quando era appena 22enne. Un caso di pazza giustizia italiana: rispetto a diciotto anni fa infatti il giovane, di origini calabresi, indagato e condannato per aver spacciato hashish e marijuana, in altre parole per aver venduto “spinelli”, ha completamente cambiato vita. E’ diventato uomo, si è trasferito in Veneto, dove è riuscito a trovare un lavoro prima part-time e poi a tempo indeterminato, si è sposato con una ragazza, ha avuto due figli, svolge attività di volontariato e soprattutto non ha più avuto problemi con la giustizia. Che però si è ricordata di lui diciotto anni dopo. 

 

Nel 2006 il 22enne viene arrestato a Reggio Calabria per aver spacciato insieme a un gruppo di amici sostanze stupefacenti: hashish e marijuana. Un reato da punire, certamente, anche se non si è di fronte a Pablo Escobar. Il giovane trascorre un anno e 21 giorni in custodia cautelare: nove mesi in carcere e il resto ai domiciliari. Il procedimento penale si sdoppia in due tronconi, uno incentrato sull’attività di spaccio, l’altro sull’accusa di partecipazione a un’associazione finalizzata al traffico di droga: i ragazzi, infatti, raccoglievano prima i soldi tra di loro e poi si spartivano le sostanze da vendere. Ne è risultata una vicenda giudiziaria lunghissima. 

 

La sentenza definitiva per lo spaccio di  stupefacenti arriva nel 2017, cioè a undici anni di distanza dai fatti. L’uomo viene condannato a tre anni e sei mesi, ma considerato l’effetto dell’indulto del 2006 e la carcerazione preventiva già subìta non torna in carcere. 
Il secondo processo arriva a sentenza definitiva nel dicembre 2023, quando ormai sono trascorsi 17 anni. L’uomo viene condannato anche per l’accusa di associazione. Calcolando l’indulto e la misura cautelare già sofferta, la pena residua finale risulta essere di nove giorni di reclusione.

 

L’avvocato Gianpaolo Catanzariti, legale dell’uomo, scrive al pubblico ministero competente dell’esecuzione della pena, sottolineando che anche quei miseri nove giorni sarebbero in realtà coperti dai tre mesi di libertà anticipata maturati durante la carcerazione preventiva. Il pm, però, non sente ragioni. L’associazione finalizzata al traffico di droga, infatti, rientra fra i reati ostativi, cioè quelli per i quali è impossibile applicare i benefici penitenziari. La mattina del primo giugno 2024, così, l’uomo, operaio metalmeccanico, viene prelevato dai Carabinieri e portato in carcere, dove rimane fino al nove giugno. 

 

“La vicenda dimostra tutta l’ottusità del sistema giudiziario italiano”, dice al Foglio l’avvocato Catanzariti. “Una condanna che si materializza a diciotto anni di distanza dei fatti, e che consiste in nove giorni di carcere, la dice lunga sul senso della funzione della pena che si ha in questo paese – aggiunge – L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma il mio assistito si era perfettamente reintegrato nella società, a cosa serviva sbatterlo in carcere, per nove giorni poi? Non avrebbe avuto senso piuttosto sostituire il carcere con un lavoro di pubblica utilità? Ma il sistema delle ostatività lo impedisce a priori”, nota Catanzariti. 

 

“Il ritorno in carcere, invece, seppur per pochi giorni, è stato un trauma per l’uomo”, afferma il legale. La carcerazione ha infatti rischiato di distruggere la vita che nel frattempo l’uomo si era ricostruito. 

 

Per fortuna l’azienda per cui lavorava è stata comprensiva. “Il giorno dopo l’arresto, con la speranza di non fargli perdere il posto di lavoro, ho chiamato l’azienda in cui lavora, spiegando cosa era successo”, racconta l’avvocato Catanzariti. “La responsabile delle risorse umane mi ha risposto con queste parole: ‘Non si preoccupi, sappiamo bene come funziona la giustizia in questo paese’. Poche ore dopo mi comunicavano via pec che la vicenda non avrebbe avuto alcun impatto sul mio assistito, al quale sarebbe stata garantita la massima privacy”. 

 

Ai figli, invece, l’uomo ha raccontato di essere stato ricoverato in ospedale per dei controlli. Una piccola bugia per coprire un’enorme follia giudiziaria. 

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  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]