L'editoriale dell'elefantino
Per una spinta garantista ci voleva Netflix con la serie su Yara Gambirasio
Evviva la piattaforma che si mette a servizio di una grande causa: l’innalzamento del principio trascurato della condanna al di là di ogni ragionevole dubbio
Per una spinta garantista ci voleva Netflix, e non si tratta di O. J. Simpson ma del signor nessuno Bossetti nel caso di Yara Gambirasio. Eccezionale. Ti ritrovi con una pubblicità civica a pagamento firmata e pagata dal colosso streaming delle serie. “Articolo 533 – Codice di procedura penale. D.P.R. 22 settembre 1988, n. 477- ‘1. Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio (sottolineato). Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza.’ Finora eravamo in pochi, e nemmeno tanto buoni, e relativamente squattrinati, e per altrettanti pochi, a richiamare la principale riforma berlusconiana (contributo Marcello Pera) introdotta in Costituzione e nel Codice di procedura penale col giusto processo. Ora arriva addirittura Netflix, un attacco diretto alla malapratica della malagiustizia, una rivendicazione di civiltà originata dal bisogno commerciale di pubblicizzare un prodotto seriale di mercato. Con tanti eventi inutili, ecco un accadimento utile e giusto.
Gli Stati Uniti sono certo un paese di cui si può diffidare per violenza e scemenza del suo dibattito politico, almeno talvolta, diciamo, ma quasi trent’anni fa lanciarono dalla California un servizio streaming e di distribuzione di contenuti che ha cambiato la faccia dell’immaginazione collettiva, dell’intrattenimento e dell’informazione. Con modalità stringenti, ipermercatiste, irritanti per gli snob alla Moretti che ne hanno fatto deliziose caricature, alla fine approdando alla richiesta di una riforma morale e civile di cui si sente imperiosa la necessità. Addirittura un manifesto per l’articolo 533 del Codice di procedura penale, che fissa i limiti della possibilità di condannare e incarcerare. Un po’ come era successo con il celebre best seller di Scott Turow, un geniale scrittore ebreo di Chicago che mescolò nel suo thriller legale, “Presunto innocente”, erotismo mistero amicizia conflitti vari e sapienza della legge in uno stato di diritto. I nostri scrittori e registi tinellisti dovrebbero riflettere su questa possibilità di fare arte, vendere arte, fare soldi, costruire un mercato, invadere l’immaginario cosiddetto, anche con argomenti seri e, se non impegnati, che non si porta più, impegnativi e civili. Nelle carceri italiane sovraffollate orrendamente, dove procede un’impressionante ondata di suicidi e atti di rivolta autolesionista, dove mancano aria e civiltà del diritto, dove sono in pochi quelli condannati al di là di ogni ragionevole dubbio, la curiosità intellettuale e letteraria dovrebbe farsi largo (Daria Bignardi a parte, che ci ha pensato da sola) prima che ci arrivino Netflix, AppleTv e la Disney.
Comunque, per stare al mercato, mai investiti meglio i nostri soldi che nell’abbonamento a Netflix, visto il suo approdo garantista. Non è poi così sorprendente il servizio reso, contro pagamento in valuta pregiata e successo di mercato, da una piattaforma streaming alla collettività, e l’innalzamento del principio trascurato della condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, diversa dal “libero convincimento del giudice”, retaggio dell’autonomia corporativa di una casta. Sorprendente è il ritardo civile dei nostri perenni ribelli del tinello di casa, del malumore personale, dell’amore prodigioso, nel capire che un mondo di presunti innocenti in attesa di giudizio e di carcerati presunti animali in gabbia non è “un altro mondo possibile” ma il mondo reale che bisognerebbe distruggere. Forza Nordio, forza Netflix.