Giovanni Toti - foto Ansa

L'editoriale dell'elefantino

Quello di Toti, chiamatelo pure arresto di scambio

Giuliano Ferrara

Mettere in nome del popolo le certezze non dimostrate di un'accusa al di sopra della sovranità democratica. Non si era mai vista una didascalia così nitida di un ricatto giudiziario. Cosa ci dice il caso Toti, dimissioni comprese

Non c’era mai stata una così esauriente e precisa didascalia, in materia di giustizia politica, come avviene nel caso del presidente della Liguria Giovanni Toti. All’epoca delle inchieste milanesi sulla corruzione, il nostro peccato originale antigarantista, si facevano “retate” di politici, ma l’apparenza era salva, almeno per chi crede alle apparenze. Solo molti anni dopo, dopo i casi di evidente politicizzazione della storia personale e della vita di gruppo dei membri del pool, il giudice che emetteva i mandati di cattura per conto dei crusading prosecutors, Italo Ghitti, ammise di aver sempre agito in automatico. Non c’erano le condizioni per una entità giurisdizionale di controllo e verifica delle accuse dei sostituti procuratori, bisognava arrestare a prescindere, senza giudicare come da dettato di legge sulla sussistenza di indizi gravi e convergenti o di prove della corruzione.
 

La parola “retate” è greve e polemica, politicizzata anch’essa, ma era la soluzione, la definizione giusta. Solo che la didascalia è stata scritta dopo, almeno per chi non voleva leggere altro che i soffietti della magistratura d’assalto. Ora la parola è “sequestro” nell’ambito di un perseguito ed esplicito condizionamento politico, affermato in parole piuttosto chiare dall’accusa: stia consegnato ai domiciliari, l’uomo eletto dai liguri per dirigere l’amministrazione, oppure se voglia uscire da questa condizione avvilente ha la strada delle dimissioni dalla carica. Qui non si discute la liceità di una indagine di quattro anni, non si discutono le intercettazioni, i fenomeni di contorno, il colore mediatico e pettegolo della giustizia che mette alla gogna prima ancora che sotto processo un ceto dirigente. Solo un giusto processo potrà decidere. Ma tutti hanno capito che si è operato nella zona grigia tra amministrazione dell’interesse pubblico, evidentemente da negoziare con gli interessi privati e di mercato intorno a opere importanti di una città industriale e portuale, e ipotesi senza riscontro probatorio immediato di corruzione in atti d’ufficio.
 

La custodia cautelare, per di più esplicitamente motivata con l’incompatibilità tra lo status di indagato in libertà e quello di presidente di regione, è stata la soluzione. E ogni obiezione, anche da parte di giuristi insigni, non solo sul piano giornalistico e osservazionale, è stata respinta. Vattene, nonostante tu stia lì per una scelta elettorale, dunque popolare, perché noi in nome del popolo italiano mettiamo le certezze non dimostrate di un’accusa al di sopra della sovranità democratica, l’ordine giudiziario che è funzione di un concorso pubblico deve prevalere con le sue scelte embrionali, ancora non ratificate da alcun vero passaggio processuale, sul potere amministrativo originato dal voto.
 

Toti alla fine ha ceduto al condizionamento, e si può capire il suo stato d’animo, era ai domiciliari dal 7 di maggio, bloccato in ogni sua possibile attività, consegnato al pubblico scandalo e ludibrio nella forma peggiore, assediato dalla ordinaria ripresa della contesa politica da cui era uscito vincitore nel confronto delle urne e che ora si ripiegava sul suo cadavere giudiziario, con il sovrappiù di manifestazioni pubbliche del tutto incuranti dell’autonomia della politica democratica dalla giustizia castale. Sconfitto lui, battuta e avvilita la nozione stessa di giustizia, sepolta un’idea accettabile di divisione dei poteri e di autonomia della democrazia. La didascalia, l’esplicita e cinica rivendicazione di una scelta politica da parte di un ceto giudiziario, sta lì al posto della pistola fumante che avrebbe dovuto inchiodare Toti e processarlo, ovviamente a piede libero in attesa di una sentenza.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.