Il dolore nella rete dei colloqui carcerari ci ricorda il meccanismo osceno delle intercettazioni
Nel caso Turetta, l'intercettazione di quel colloquio carcerario tra un padre e un figlio nella gabbia della colpa diventa uno scempio pubblico. Uno sfregio della dimensione intima che trasforma la giustizia in una crudele pesca a strascico
La paternità non si può intercettare, non solo non lo si deve e meno che mai è lecito farne scempio pubblico di dubbie interpretazioni e falsa pietà. Sarebbe o è come intercettare le lacrime di Priamo alla morte di Ettore, è una intrusione in una dimensione mitica e irriducibilmente intima, cose che la letteratura ha cantato e che le intercettazioni sfigurano, sfregiano in modo ignobile. Le lacrime scorrono così come viene, a flusso, e sono casomai le parole a sgocciolare sconclusionate, arrese di fronte al sentimento della cosa inesprimibile. Un padre di fronte al mistero del male, di un delitto orrendo, fosco, incomprensibile o fin troppo motivato, di un figlio assassino tremante, non è responsabile delle sue opinioni, e quelle non sono opinioni, non tutto è opinione. Gli equivoci della comunicazione personale intima e del dolore espressi nella gabbia della colpa tra un padre e un figlio sono prigionieri nudi che nessun meticoloso ludibrio psicologico o sociologico può restituire a un briciolo di dignità e di amore.
Sono ovvietà che imbarazza e duole dover commentare. Dietro alle quali sta la trasformazione in opinione di tutto quello che lo strazio dell’umanità e la stupidità delle procedure mette in rete. C’è chi ha capito il senso recondito e simbolico, astratto e nullista, della messa in rete universale nella forma dell’opinione, del fatto travestito da opinione o viceversa. Per esempio lo scrittore inglese Julian Barnes nel suo saggio narrativo e biografico su Gustave Flaubert, scrive questo. “Una rete può essere definita in due modi diversi a seconda del punto di vista. Di norma, si direbbe che è uno strumento a maglie progettato per catturare pesci. Ma, senza recare troppa offesa al senso logico, si potrebbe anche rovesciare l’immagine e utilizzare quella proposta da uno spiritoso lessicografo che la definì una collezione di buchi tenuti insieme da uno spago”. Noi che giudichiamo, opinioniamo spudoratamente sulle opinioni intramate in rete, intercettate, siamo i pesci, siamo catturati in una logica da cui non c’è scampo. E a guardare meglio le cose dovremmo accorgerci che siamo buchi, cioè vuoti, tenuti insieme da uno spago che ci definisce e limita. In queste condizioni, che sono precisamente le condizioni di trasmissione della pseudoconoscenza giudiziaria nella nostra epoca, non ha alcun senso, se non una crudele e autolesionistica esibizione del sé, inserirsi nel colloquio carcerario, il primo, tra un padre che scopre la condizione febbrile di assassino incarcerato di suo figlio.
Destituire di senso, dunque di valore e pietà, ciò che è detto in una condizione di indicibilità è un piccolo e gretto crimine superiore a qualunque riconoscimento di un grande e osceno delitto e delle sue conseguenze. Certe parole, sempre seguendo Barnes biografo, non possono essere “issate a bordo, selezionate, rigettate in mare, stoccate, filettate e vendute” come materiale ittico. Nel gioco dell’opinione origliatrice patriarcato e paternità si confondono oscuramente, si dicono opinioni che coprono e avviliscono altre cose, tremebonde e importanti, e questo è tipico del meccanismo antiguridico e immorale, apertamente immorale, delle intercettazioni che fanno del mondo giudicante una pesca a strascico di follie comunicative, un insieme di buchi che neanche lo spago della vera o falsa pietà può tenere insieme.