(foto Ansa)

accuse a tempo prolungato

Con Natoli e Pignatone si sta rimpiazzando il mito della Trattativa?

Giovanni Fiandaca

La procura di Caltanissetta che indaga i due magistrati oramai in pensione, sospettati di aver favorito la mafia trent’anni fa. Presunti infedeli i pm, al posto degli ufficiali del Ros?

La sorprendente e clamorosa iniziativa della procura di Caltanissetta di indagare i due noti e stimati magistrati ormai in pensione Natoli e Pignatone, accusati nientemeno di avere un trentennio fa favorito Cosa nostra insabbiando – nei rispettivi ruoli di esecutore e istigatore – una indagine sui rapporti tra sospetti mafiosi e manager del gruppo imprenditoriale Ferruzzi, suscita interrogativi in diverse direzioni (cfr. anche il precedente intervento su queste colonne di E. Antonucci in data 1 agosto). E’ legittimo in punto di diritto avviare indagini, anche complesse e di possibile lunga durata, su un’ipotesi di reato che – come in questo caso – sarebbe comunque già ampiamente prescritta? E’ realisticamente presumibile che, a decenni di distanza, si sia in grado di acquisire gli elementi di conoscenza e le prove necessarie per poter riscontrare l’effettiva esistenza della presunta condotta favoritrice? E rimane non ultimo da chiedersi: considerate la oggettiva difficoltà e incertezza della verifica giudiziale, e tenendo conto della poca credibilità intrinseca di un’accusa così infamante riferita a due valorosi magistrati, celebri invece per il costante impegno antimafia, non vi è il rischio che quest’indagine nissena abbia comunque come perversa conseguenza di gettare su entrambi ombre del tutto immeritate?

 

Si potrebbe, per altro verso, obiettare che interrogativi come questi sottovalutano un’esigenza di fondo scaturente da fondamentali istanze di giustizia sostanziale, di ordine morale prima che giuridico: com’è intuibile, si tratta della persistente aspirazione – di cui i pm nisseni si farebbero carico – a fare maggiore chiarezza sulle cause e sulle dinamiche delle stragi ai danni di Falcone e Borsellino. E ciò non solo per esaudire sacrosante aspettative dei familiari delle vittime, ma anche per soddisfare l’interesse pubblico ad attingere una più completa comprensione di vicende stragistiche che hanno profondamente turbato la coscienza collettiva e scosso la tenuta del nostro sistema democratico. E’ fuori discussione che questo bisogno di fare maggiore chiarezza sussista, e sia diffusamente avvertito. Ma i valori connessi a questa esigenza conoscitiva possono assumere una posizione “tirannica”, possono aprioristicamente prevalere – senza se e senza ma – su altri importanti valori ed esigenze concorrenti?


E’ legittimo in punto di diritto avviare indagini su un’ipotesi di reato che sarebbe comunque già ampiamente prescritta?


Sono invero intuibili gli effetti distorsivi che una pretesa di verità e giustizia a ogni costo può provocare sullo stesso processo penale. Una prima tentazione può essere quella di percepire psicologicamente qualsiasi reato come “imprescrittibile”, a dispetto della prescrittibilità legislativamente prevista invece per la maggior parte dei reati (da questo punto di vista, appare sintomatico ad esempio che un giornale come Repubblica, nel manifestare apprezzamento e nel fornire implicito sostegno all’indagine nissena, abbia finora evitato di mettere in evidenza ii problema della prescrizione). E’ anche vero, peraltro, che non esiste nel nostro ordinamento un divieto legislative esplicito di compiere indagini su ipotesi di reato non concretamente perseguibili perché ormai prescritte. Ci troviamo in proposito in un territorio privo di regolamentazione processuale precisa e vincolante, per cui ampio è di fatto il potere discrezionale e ampia è la libertà di movimento del pubblico ministero. Ma, tanto più in mancanza di vincoli normativi stretti, è ragionevole attendersi scelte di azione attente e ben ponderate, rispettose di tutti i valori e di tutte le esigenze costituzionalmente rilevanti che vengono in gioco. Da questo punto di vista, può darsi in partenza per scontato che la procura di Caltanissetta abbia con la massima perizia tecnica vagliato gli ardui problemi emergenti in punto di fatto e di diritto, e col massimo scrupolo calcolato i potenziali riflessi negativi a largo raggio derivanti dalla prospettazione di un’accusa di favoreggiamento alla mafia talmente pesante e discreditante, da poter apparire arrischiata e poco verosimile in considerazione della storia e del profilo professionale dei due magistrati indagati?


La persistente aspirazione  a fare maggiore chiarezza sulle cause e le dinamiche delle stragi ai danni di Falcone e Borsellino


E’ presumibile che Natoli e Pignatone abbiano maggiore interesse, piuttosto che a giovarsi della prescrizione, a eventualmente rinunciarvi per dimostrare l’infondatezza della tesi accusatoria a salvaguardia della loro onorabilità professionale e personale. D’altra parte i punti problematici dell’accusa, ai miei occhi di studioso di diritto penale di lungo corso, affiorano con immediata evidenza. Un primo errore metodologico incombente consiste nell’adottare il cosiddetto “senno di poi”: cioè nel valutare come superficiali od omissive scelte processuali di allora sulla base di conoscenze più certe giudiziariamente acquisite in epoca successiva. Un secondo errore, anch’esso incombente, può indurre a tenere poco conto della intrinseca opinabilità frequentemente insita nella valutazione giudiziaria della rilevanza degli elementi desumibili dalle intercettazioni. Opinabilità che risente anche dell’orientamento culturale e tecnico dei singoli magistrati di volta in volta impegnati nell’ascolto: uno di inclinazione garantista può in buona fede giudicare irrilevanti elementi che un altro di orientamento contrario tenderebbe invece a considerare senz’altro rilevanti (per quanto non solo a chi scrive risulta, sia Pignatone che Natoli sono stati nella loro lunga carriera tutt’altro che indifferenti ai princìpi di garanzia !). Se è così, la verifica di un vero dolo favoritistico addirittura nei confronti della mafia non può accontentarsi di sospetti o supposti indizi tratti anche dalla riesumazione di contrasti di vedute e rapporti conflittuali che connotarono la procura palermitana guidata da Giammanco, ma presuppone una prova rafforzata: vale a dire, basata su corposi elementi certi e univoci, così esenti da ragionevoli dubbi da far apparire improponibile ogni spiegazione alternativa. Allo stato delle conoscenze, e grazie a conoscenze ulteriori che potrebbero anche acquisirsi, è realisticamente prevedibile la possibilità di pervenire a una affermazione di responsabilità certa e univoca? Si tenga presente che l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato, specie nell’ambito di vicende complesse e scivolose come quella di cui discutiamo, equivale quasi sempre a una probatio diabolica.
Ammesso (e non concesso) che i pm nisseni vedano giusto nel rivalutare adesso come rilevanti intercettazioni che trent’anni fa condussero invece a scelte archiviatorie, sembra molto più plausibile escludere che tali scelte derivassero da una precisa e mirata volontà di coprire sospetti mafiosi in combutta con imprenditori e politici. E’ più realistico e ragionevole pensare che si sia trattato di un differente approccio valutativo ancorato a criteri di giudizio propri della procura palermitana di allora; o in alternativa – perché no? – di una sottovalutazione dovuta semmai a insufficiente attenzione e superficialità di analisi. Una eventuale manchevolezza, quest’ultima, abissalmente lontana da quel dolo di favoreggiamento, che avrebbe poco verosimilmente accomunato Giammanco e Pignatone come perversi co-registi dell’insabbiamento e Natoli come ingenuo esecutore! Con una ulteriore notazione, tutt’altro che irrilevante.


Un primo errore metodologico incombente consiste nell’adottare il cosiddetto “senno di poi”


A sostegno dell’infondatezza dell’ipotesi accusatoria, depone infatti a nostro avviso anche il seguente dato: di un altro filone della questione mafia-appalti (in particolare del filone siciliano di cui alla nota e controversa indagine condotta dai carabinieri del Ros) si erano occupati, nello stesso periodo, altri pm come Scarpinato e Lo Forte, i quali avevano analogamente finito col formulare una richiesta di archiviazione accolta dal giudice competente. Orbene, dovremmo sospettare anche in Scarpinato e Lo Forte atteggiamenti favoritistici in concorso col capo Giammanco, o considerarli inconsapevoli strumenti in mano al predetto, oppure giudicare oggi anche loro magistrati poco competenti o superficiali? Personalmente, tenderei a interpretare questa più generale scelta di archiviare come sintomatica di una condivisa convinzione tecnica circa la mancata maturazione in quella fase temporale dei presupposti giustificativi di un approfondimento delle indagini, piuttosto che di un disegno criminoso ordito da Giammanco ed eseguito da colleghi complici o succubi. Ma anche se non fosse da escludere che, riconsiderata oggi, quella convinzione di allora possa apparire sotto alcuni aspetti affrettata o professionalmente poco accorta, questo mutato giudizio giustificherebbe un tentativo di pesante criminalizzazione postuma che elegge i soli Natoli e Pignatone a capri espiatori di scelte giudiziarie collettive ritenute a posteriori – a torto o a ragione – per qualche ragione censurabili?

 

Comunque, l’ipotesi accusatoria della procura nissena è talmente scioccante, e al tempo stesso intrigante da suscitare il rischio che il circo mediatico-giudiziario, divenuto orfano del processo-trattativa, assecondi la tentazione di rimpiazzarlo col nuovo mito alternativo dell’indagine su mafia e appalti come movente delle stragi del ’92, criminalizzando ora, al posto di presunti infedeli ufficiali del Ros, presunti infedeli pubblici ministeri. Se questo rischio si avverasse, ci troveremmo però di fronte a una pregiudiziale contrapposizione di astratte verità che, oltre a non giovare alla possibilità di fare maggiore chiarezza sulle tragiche vicende di trent’anni fa, provocherebbe un ulteriore grave vulnus alla credibilità dell’azione giudiziaria contra la mafia.


Non più la trattativa stato- mafia, ma il nuovo mito  della indagine su mafia e appalti come movente delle stragi del ’92?


Come vecchio studioso, sono in ogni caso diventato sempre più scettico rispetto alla possibilità che, una volta trascorsi più decenni, la sede giudiziaria risulti la più adatta a far conseguire maggiori conoscenze su oscuri e drammatici eventi del passato. Non ultimo perché la giustizia penale, per potere attivarsi, ha appunto la necessità di ipotizzare reati e quindi di rileggere la storia secondo un’ottica unilateralmente (o prevalentemente) criminalizzatrice, che induce a distinguere con inevitabili distorsioni o forzature tra buoni e cattivi, colpevoli e innocenti. Mentre le vicende complesse di solito non ammettono la distinzione semplicistica tra bianco e nero a causa della compresenza di zone chiaroscurali, che indossando i guanti di legno del diritto penale non si è in grado di cogliere e ben interpretare. E proprio l’elevata complessità delle vicende esige, da parte dei giudici, capacità analitico-ricostruttive sul piano preliminare dell’ermeneutica dei fatti, che possono risultare molto più impegnative delle prestazioni tecniche richieste dall’interpretazione e applicazione delle norme di legge.
Sarebbe, dunque, forse più opportuno affidare il compito di cercare di fare maggiore verità sulle stragi del ’92 alle commissioni parlamentari e agli storici di professione, pur essendo consapevoli che neppure le vie e gli strumenti delle indagini extraprocessuali possono risultare idonei a raggiungere gli obiettivi conoscitivi sperati.

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