un momento della cerimonia di commemorazione per le vittime di Rigopiano 

LA PREVALENZA DELLA VITTIMA

Come si è passati  dal “populismo penale” al “perbenismo punitivo”

Vittorio Manes

Un credito morale, una nuova identità “politica”. Una giustizia che mette al centro della scena la vittima vede profondamente alterati i propri equilibri. Un’indagine

La “vittima” è diventata l’eroe contemporaneo, e ha ormai acquisito un ruolo di assoluto protagonismo sul proscenio della giustizia penale, dentro e fuori dalle aule giudiziarie.
Al cospetto di un tema tanto alto e dolente, e così carico di aspettative urgenti e domande inevase, vi è tutta la consapevolezza di toccare un nervo scoperto, un aspetto cruciale dell’idea di giustizia, un problema vertiginoso e irrisolto che vede nella pena una risposta sempre parziale, tardiva e insoddisfacente; e un tema che oscilla oggi più che mai sul crinale del “politicamente scorretto”, esponendo chi si azzarda a parlarne pur solo in prospettiva problematica alla lettera scarlatta dell’impopolarità. Nel “tempo delle vittime”, è molto difficile, del resto, non stare dalla parte delle vittime. 

Eppure, neanche gli avvocati hanno mai rivendicato questa scomoda posizione, né accettato una simile, assurda contrapposizione, pur consapevoli del “destino di distanziamento” che nel corso del processo separerà imputato e persona offesa: essendo quasi scontato – anche agli occhi del difensore dell’imputato – che la vittima aspiri del tutto comprensibilmente a trovare ristoro, a soddisfare l’urgenza di accertare fatti e responsabilità, e ad appagare la sua impellente e sacrosanta aspettativa di giustizia.

Tuttavia, si avverte – ormai da tempo – l’esigenza di segnalare come il sistema della giustizia penale, raccoltosi negli ultimi due secoli attorno all’idea-forza della “magna Charta del reo”, appare sempre più curvato in senso vittimocentrico e sempre più assoggettato all’autoproclamazione della vittima prima e fuori del processo; e vada così perdendo il proprio equilibrio, degenerando progressivamente in una sorta di “profezia che si autoavvera” – fatalmente e inesorabilmente – durante il corso del processo,  e colorandosi di aspetti che modificano i princìpi di fondo che guidano – e devono guidare – l’accertamento penale.

La deriva si avverte già scrutando l’orizzonte recente delle politiche criminali, e certo non solo nell’esperienza italiana. Nel contesto attuale, un po’ ovunque la vittima ha ormai sublimato i vecchi argomenti dell’“ordine pubblico” e della “difesa sociale” per giustificare, con la sua carica ansiogena ed emotigena, ogni opzione incriminatrice, e catalizzare le più disparate istanze punitive, i più variegati prototipi penali con cui si replica – quasi con un riflesso pavloviano – a ogni irritazione sociale.

La vittima, con la sua drammaturgia compassionevole, ha anche una valenza empatica, e stimola nella collettività una naturale spinta alla solidarizzazione, anche perché taluni reati – per la loro dimensione ubiquitaria – implicano una naturale e immediata identificazione con la “vittima potenziale”, quasi un flashforward che avvicina l’osservatore alla “vittima reale”: prendere le sue difese diventa dunque scontato, se non doveroso, e comunque “giusto”, anche perché in quel doloroso ruolo si potrebbe trovare chiunque.

Si è così passati dal “populismo penale” al “perbenismo punitivo”: ed è così che ogni giorno vengono forgiate nuove vittime, e queste sono straordinari fattori propulsivi per l’espansione ormai senza limiti dell’intervento punitivo dello stato. 

Il fenomeno #MeToo, la violenza di genere e il codice rosso – un cantiere perennemente in progress – ne sono la testimonianza forse più tangibile: ma l’opificio vittimocentrico ha ormai prodotto e continua a forgiare prototipi ben più numerosi e variegati.

Del resto, è pienamente comprensibile la corsa ad “accaparrarsi” il ruolo di vittima: lo status di vittima conferisce una straordinaria “autorevolezza morale” a chi lo veste, e un ruolo valevole, da solo, a garantire non solo un’aura speciale di soggettività giuridica, ma una vera e propria identità “politica”.
 

Doleo ergo sum.

Questo credito morale è immediatamente percepibile, se solo si ripercorrono gli orientamenti giurisprudenziali sul valore probatorio delle dichiarazioni della persona offesa: quello che dovrebbe sempre essere un testis imperfectus, giacché non disinteressato all’esito, appare, in non pochi casi, un testimone inconfutabile, atteso che “la parola della vittima si corrobora da sé”, e certo non solo nei contesti di violenza di genere.

Ma sono molti altri gli “effetti di trascinamento” del protagonismo della vittima sul piano processuale: da una posizione di opportuno interpello, meramente “consultivo”, si passa a una interlocuzione vincolante, e di qui a un vero e proprio “diritto di veto”, riconosciuto alla persona offesa nelle diverse fasi e sequenze del processo punitivo, da quella cautelare sino all’esecuzione; dalla titolarità del diritto di querela si passa alla irrevocabilità della stessa, perché dal ruolo di vittima non si torna indietro (basti pensare ai reati in materia sessuale o ancora allo stalking); in definitiva, i binari processuali e le alternative procedimentali si irrigidiscono e sclerotizzano, al cospetto della vittima, in ogni frangente.
Ma il primo e più eclatante di questi effetti distorsivi è ben noto: il processo “orientato alla vittima” (victim oriented) ed ormai sempre più “trainato dalla vittima” (victim driven) perde il proprio baricentro, segnato da quella garanzia primordiale che è la presunzione di innocenza: perché riconoscere il ruolo di persona offesa sin dagli esordi delle indagini – e sin dalla più embrionale formulazione dell’accusa – anticipa de facto una valutazione che dovrebbe essere il risultato della ricostruzione processuale, non la sua premessa. Ma questa anticipazione di credito concessa alla (presunta) persona offesa ed alla sua legittimazione, viene erogata iscrivendo, al contempo, una gravosa ipoteca in capo all’imputato, perché se c’è una vittima deve esserci, in qualche modo, anche un colpevole.

Il vero salto qualitativo si avverte, però, sul proscenio del processo mediatico, dove la vittima vede autenticamente “sacralizzato” il proprio ruolo, sin da subito e sempre, ovviamente, in assenza di un processo e di una sentenza definitiva.

La “sacralizzazione mediatica” della vittima ha evidenti ripercussioni – avvertite o subliminali – sul processo reale, alterando ancor più la microfisica degli equilibri tra le parti, e soprattutto modificando l’angolatura prospettica del giudicante. 

Si viene a creare un orizzonte di attesa proiettato a veder riconosciute le ragioni della presunta vittima, tanto forte che il giudice non sarà più libero di decidere, in posizione di imparzialità tra le parti, ma nel decidere dovrà, inevitabilmente, “dire da che parte sta”: se sta dalla parte della presunta vittima, ormai celebrata dai media e dall’opinione pubblica che è naturalmente protesa a solidarizzare con la stessa, o dalla parte di un imputato che la vox populi considera già colpevole.

In questa deriva, la condanna diventa un esito scontato, e l’assoluzione un autentico atto di coraggio del giudice sempre rimproverabile come denegata giustizia, come ricorda dolorosamente, tra le tante, la vicenda di Rigopiano.

Sappiamo bene, del resto, quanta ragione avesse Hobbes nel sostenere che la condanna assomiglia alla giustizia ben più che l’assoluzione; e siamo altrettanto avvertiti del fatto che le parti civili non chiedono giustizia, ma chiedono condanna.

Il processo mediatico, nella gran parte dei casi, rappresenta una sorta di liturgia di socializzazione con la vittima, e quello reale tende a rifletterlo, venendo a perdere così la sua neutralità: è così che l’accertamento delle responsabilità e l’identificazione di un colpevole da “obbligazione di mezzi” si trasforma in “obbligazione di risultato”, il cui inadempimento implica di per sé – al giudizio della pubblica opinione – una lacerante, imperdonabile sconfitta.

E’ questo un piano inclinato e pericoloso che oggi si vorrebbe persino ratificare iscrivendo nella Costituzione un esplicito riconoscimento alla tutela della vittima (inserendo nell’art 111 Cost. l’inciso secondo il quale “La Repubblica tutela le vittime e le persone danneggiate dal reato”): una previsione superflua, da un lato, essendo tale istanza di tutela implicita nella stessa potestà punitiva dello stato; e una previsione ambigua, d’altro lato, che può rappresentare il primo, scivoloso passo verso un generalizzato “diritto di ottenere la punizione del colpevole” che andrebbe garantito, appunto, alla vittima. Un definitivo congedo dal modello reocentrico a favore del modello vittimocentrico, e dallo stesso modello liberale del diritto penale, che – come ha messo in luce un recente saggio di Gabriele Fornasari – non riconosce nella pena l’unica risposta al reato, né nella punizione l’unica forma di compensazione delle vittime.

La formicolante fucina innescata dal “paradigma vittimario”, inesauribile sul piano delle incriminazioni, e così densa di ricadute sul piano processuale, non è meno prolifica quando si scenda al piano dell’interpretazione dei reati, dove il protagonismo crescente della vittima rappresenta uno straordinario forcipe per letture a estendere il perimetro delle incriminazioni.

Alcune sono più visibili e ormai consolidate, come testimonia il passaggio – certo non indolore né esente da criticità – dalla “violenza” al “consenso”, nella lettura dei reati sessuali: non si richiede più la violenza, ma essa è sempre implicita nella mancanza di consenso, pur essendo quest’ultima circostanza tutt’altro che facile da accertare.

Altre letture espansive sono forse più paludate, ma non meno cariche di effetti stranianti, pur di garantire, coûte que coûte, maggior impatto alle esigenze di tutela alla vittima: i delitti contro la persona o contro la famiglia offrono innumerevoli esempi di interpretazioni “compassionevoli” volte a estendere analogicamente il reato per offrire maggior protezione alla vittima, alla quale deve dunque inchinarsi anche il principio di legalità dei reati e delle pene.

In questa cornice, peraltro, anche la commisurazione della pena – e prima e più in alto, la sua legittimazione – subisce conseguenze di rilievo: la vittima accentua infatti i fondamenti meno razionali del punire. 

Anzitutto, ne risulta enfatizzata la funzione di prevenzione generale, che spinge verso la previsione di pene “esemplari”: una deriva immediatamente percepibile nella consueta, irrazionale “impennata” delle pene edittali, che rispecchiano sul piano politico-legislativo l’importanza “politica” volta a volta acquisita dalla vittima, ben esemplificata, tra i molti possibili esempi, dalla pena eccezionale e draconiana prevista per  l’omicidio stradale.

In secondo luogo, l’ascesa della vittima fomenta la riemersione di impulsi squisitamente retributivi, che anelano alla cieca simmetria della “legge del taglione”, riducendo la distanza concettuale tra pena e vendetta, e persino la superano: la pena “giusta”, vista con gli occhi della vittima, non può essere più la pena proporzionata, men che meno quella orientata a rieducazione, bensì la pena commisurata al dolore della vittima. 

Ma il dolore della vittima, come si sa, è sempre incommensurabile. E come tale non lascia spazio a nessuna forma di pietas, neppure quella genitoriale, come tristemente ha dimostrato la vicenda del colloquio tra il padre di Turetta e il figlio detenuto per l’atroce “femminicidio” commesso.

Del resto, neppure la riparazione del danno – che nel paradigma vittimario risulta ormai componente indefettibile della pena – può mai essere tale da compensare e “risarcire” il dolore. Ed è da questa angolatura che si può forse comprendere – pur  con tutte le sfide e le criticità che essa implica – la necessaria ricerca e apertura, specie in taluni casi, verso forme di giustizia riparativa: a evitare che il conflitto risulti insanabile, e a evitare soprattutto l’ulteriore degenerazione verso paradigmi vittimari più esasperati, vendicativi e ottusi.

Su tutto questo crediamo che sia urgente riflettere: perché se appare scontato – anche a noi – che la vittima sia al centro della domanda di giustizia, una giustizia che mette al centro della scena e del processo la vittima vede profondamente alterati i propri equilibri: rischia di declinarsi sempre più secondo statuti preferenziali di tutela (sul modello del c.d. codice rosso), di riempirsi di istanze irrazionali ed emotive e così di legittimare pene che fuoriescono dai cardini della proporzione, di irrigidirsi e soprattutto di dispiegarsi secondo una inerzia a senso unico, che corre spedita verso la condanna. 

Un esito obbligato, insomma, dove il “diritto alla giustizia” possa finalmente manifestare la propria effettività riconvertendosi nel “diritto alla punizione”, e dove quella che era una presunta vittima potrà, con una sorta di agnizione postuma ma ampiamente presagita, finalmente essere riconosciuta tale.

L’autore di questo articolo è professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna e direttore della rivista Diritto di difesa – Unione delle Camere penali