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L'analisi

La notte nera della legge

Andrea Venanzoni

È inutile pensare di snellire, razionalizzare, semplificare e consolidare il sistema normativo se per farlo si producono altre otto leggi: il punto è prima di tutto antropologico-politico e parte dalla decisione politica prima e da quella amministrativa dopo. Una riflessione

Uno degli argomenti ricorrenti nel dibattito pubblico, e sovente nella polemica politica e mediatica, è la sovrabbondanza di norme, leggi, leggine, regolamenti, circolari amministrative che punteggiano la nostra esistenza e ci guidano, letteralmente, dalla culla alla tomba. Anche l’attuale governo non si sottrae a questo trend e si sta dedicando alacremente a ingolfare il sistema di nuove, spesso fantasiose, norme.
 

Diciamo subito che l’eccesso di regolazione in Italia è in certa misura figlio del “carattere nazionale”. Da decenni sentiamo ripetere il comodo e inerte mantra sulla bulimia di produzione normativa, di rango primario certo, ma anche di matrice regolamentare/amministrativa visto che anche le amministrazioni producono norme, e sulla necessità di intervenire, di tagliare, di razionalizzare. In realtà gran parte degli interventi in tema si sono rivelati episodici, sloganistici o irrazionali: vero è che il nostro corpus normativo è ormai un oceano dentro cui navigare senza bussola, alla deriva e poco contano scene coreografiche con accette e lanciafiamme, come pure venne fatto.
 

In “La trappola delle leggi”, Bernardo Giorgio Mattarella si interrogava su due eccessi che tra loro cospiranti producono un labirinto inestricabile: eccesso di stock, abbiamo cioè troppe leggi e troppe norme a livello ordinamentale, ed eccesso di flusso, ovvero si continua imperterriti a produrre norme, come se niente fosse. Dal primo punto di vista, i tentativi di disboscare il pacchetto complessivo di norme, le stagioni della delegificazione, la fuga dal codice, per riprendere il Natalino Irti de “L’età della decodificazione” e l’adozione di soft law, le semplificazioni amministrative per tentare anche di evitare che le amministrazioni per via di circolari producano nuovo diritto, hanno dato scarsi risultati.
 

Dal secondo punto di vista, la continua, vorace produzione di norme ha un valore politico-segnaletico quasi tribale: per molti politici è una testimonianza di esistenza in vita e un modo per godere di abbronzatura mondana a poco prezzo. Nonostante un prezzo, occulto ma tangibile, ci sia: immettere nell’ordinamento un nuovo tassello del caos. In alcuni casi, poi, come quando si legiferano nuove norme penali, questo processo si incista nel fianco di altre derive, come quelle del populismo penale/giudiziario, come insegna Giovanni Fiandaca o, per riprendere la felice intuizione di Filippo Sgubbi, del “diritto penale totale”.
 

Perché, si diceva, questo caos è figlio del “carattere nazionale”? Perché l’eccesso di norme rappresenta, al tempo stesso, una forma di paternalismo e una modalità palese di de-responsabilizzazione. Paternalismo perché hai un soggetto a te estraneo, l’ordinamento, che ti impone o ti vieta di comportarti in un certo modo in maniera capillare, normando spesso aspetti della vita che potrebbero e dovrebbero essere rimessi al senso di responsabilità individuale, de-responsabilizzazione perché le decisioni di ultima istanza sono sempre “guidate” e mai rimesse alla responsabilità individuale, unico sprone questa alla crescita individuale.
 

La norma è, lo insegna sempre Irti, una forma di sicurezza, anche psicologica e l’età dei grandi codici, modo di coagulazione e di razionalizzazione di norme settoriali sovente disperse, è stata età di sicurezza. Ma questo concetto oggi è stato rovesciato; non più quindi sicurezza nella prospettiva della chiara comprensione dei comandi imposti dalle norme, di una ragion pratica giuridica tradotta in certezza del diritto, bensì quale modalità difensiva e inerziale di chi dietro l’opacità lessicale e dietro il caos si nasconde.
 

Ma questo caos normativo è pure, del pari, come ricorda Michele Ainis ne ‘La legge oscura’, oscurità. Scarsa possibilità di comprensione di quali siano davvero le norme, sciatteria redazionale, figlia anche del passaggio della produzione normativa dal Parlamento alle burocrazie ministeriali e di Palazzo Chigi con un silenzioso slittamento della forma di governo, lo ricordava Sabino Cassese a proposito della “lingua delle norme”, contraddizioni e difetti, scarso coordinamento sistematico, tecniche redazionali come quella del rinvio che rendono le norme una cabala di numeretti incastrati tra di loro.
 

È inutile pensare di snellire, razionalizzare, semplificare e consolidare se per fare questo produci poi ogni singola volta altre otto leggi: il punto è prima di tutto antropologico-politico e parte dalla decisione politica, e, più in basso, da quella amministrativa. Nella tragica epoca della fuga dalla decisione e dello schermarsi dietro la burocrazia difensiva, su cui già Flaiano in “Diario notturno” aveva scritto una gustosa pagina, è impossibile reclamare un miglioramento della situazione.
 

La sciatteria delle norme è figlia della sciatteria della politica e della amministrazione, della pavidità, del comodo e strumentale rifugiarsi da parte dei cittadini dietro la falsa sicurezza rappresentata dalla incertezza normativa e dalle sue mille ambiguità. O si modifica almeno in parte questo approccio oppure il tutto continuerà a essere un mero circo di parole e di buone intenzioni destinate a rimanere orpello decorativo.

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