l'accordo

Toti chiede di patteggiare per chiudere un processo da incubo

Ermes Antonucci

Pur sapendo che avrebbe potuto dimostrare la sua innocenza, l’ex governatore ligure si è reso conto che da un’accusa evanescente può derivare un giudizio evanescente. E giocare alla lotteria, quando c’è in ballo la propria libertà, non è il massimo

Fin dal giorno dell’arresto di Giovanni Toti, avvenuto il 7 maggio, su queste pagine evidenziammo come l’indagine nei suoi confronti appariva muoversi su un crinale molto sottile: quello che divide l’attività politica, svolta per venire incontro ai legittimi interessi di coloro che regolarmente finanziano l’attività governativa, dalla corruzione. Nonostante un’indagine di tre anni condotta dalla procura di Genova, con costanti intercettazioni, l’ambiguità della contestazione nei confronti di Toti è rimasta: è possibile accusare di corruzione un politico per aver svolto un atto lecito, come un permesso o una concessione dovuta e nell’interesse dei cittadini, soltanto perché in precedenza il suo partito è stato finanziato da chi poi ha tratto beneficio da quell’atto? Il terreno è rimasto così scivoloso che alla fine Toti ha chiesto di patteggiare e ha ricevuto il parere favorevole della procura: una pena di due anni e un mese, sostituita con 1.500 ore di lavori socialmente utili, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e la confisca di 84 mila euro. I reati patteggiati sono corruzione impropria e finanziamento illecito (l’accordo dovrà ora essere accolto dal gup).

 

Un modo per entrambe le parti di evitare scivoloni al processo: da una parte i pm, privi di pistole fumanti contro il “governatore corrotto”, dall’altra Toti, impotente di fronte a una contestazione su molti aspetti sfuggente. Pur sapendo che avrebbe potuto dimostrare la sua innocenza, l’ex governatore ligure si è reso conto che da un’accusa evanescente può derivare un giudizio evanescente. E giocare alla lotteria, quando c’è in ballo la propria libertà, non è il massimo. Anche perché l’accordo raggiunto fra Toti e la procura non cancella la barbarie, indegna di uno stato di diritto, alla quale nel frattempo si è assistito con il suo arresto.

 

Con l’accordo di patteggiamento, la procura riconosce che gli atti prodotti dalla pubblica amministrazione (in primis dall’autorità portuale di Genova) erano pienamente legittimi, così come i versamenti sotto forma di contributi all’attività politica. Inoltre, la procura riconosce che Toti non ha mai usufruito personalmente delle somme raccolte dal suo comitato politico, utilizzate solo per le attività politiche. Un deciso ridimensionamento da parte dei pm della montagna di accuse rivolte all’ex governatore della Liguria. 

 

Ma per comprendere a pieno la decisione di Toti di patteggiare occorre fare un piccolo passo indietro e ricordare quanto avvenuto durante la sua sottoposizione alla misura degli arresti domiciliari. Toti venne posto ai domiciliari il 7 maggio soprattutto per il rischio di reiterazione del reato. Per la gip, cioè, Toti da libero poteva chiedere altri finanziamenti illeciti a imprenditori in vista delle elezioni europee. Una mera congettura, slegata da un pericolo concreto, come richiederebbe il codice. A ogni modo, passarono le europee e i legali di Toti chiesero di nuovo la revoca dei domiciliari. La gip di Genova (la stessa, Paola Faggioni) rigettò di nuovo la richiesta: Toti poteva reiterare le condotte contestategli in vista delle elezioni regionali del 2025, anche perché continuava “a rivestire le medesime funzioni e le cariche pubblicistiche”.

 

Divenne così chiaro il ricatto della magistratura: Toti non poteva tornare in libertà fino a quando non si sarebbe dimesso. Il governatore resistette due mesi e mezzo. Poi si dimise e il giudice gli restituì la libertà. Il sistema democratico venne sovvertito dalle toghe. 

 

Chi immaginava che Toti, con questa magistratura qui, avrebbe affrontato il processo con la massima tranquillità in effetti peccava forse di ottimismo. Toti chiede di patteggiare per sfuggire alle grinfie di una giustizia pazza, che vede ogni finanziamento alla politica come una tangente. Il tutto col sostegno di un circo mediatico che trasforma gli indagati in colpevoli già accertati. 

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  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]