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L'analisi

La vergogna Ilva. Rileggere le motivazioni della sentenza che ha smontato un processo e capire i vizi dell'Italia

Jacopo Giliberto

È stata depositata la motivazione della sentenza d’appello che qualche giorno fa ha smontato, annullato e riaperto a Potenza il processo di Taranto contro l'Ilva. Tra le righe emergono lezioni utili per capire i difetti di una Repubblica fondata sull’egemonia delle procure

Prima di tutto, la sostanza: nel processo di primo grado era mancato il “giusto giudizio”. Secondo: è inutile proclamare ricorsi e annunciare appelli, non ci saranno né potranno esserci. Terzo tema: chi pagherà i danni di un processo finito male? La storia la conoscete, ma vale la pena insistere. È stata depositata la motivazione della sentenza d’appello che qualche giorno fa ha smontato, annullato e riaperto a Potenza il processo di Taranto contro l’Ilva, processo che nel maggio 2021 fa aveva portato a una sentenza di condanna. Il documento della corte di assise di appello di Taranto è un plico di 243 sbadiglievoli pagine. Le prime 214 facciate sono cataloghi di capi d’accusa, elenchi di imputazioni, inventari di parti civili, enumerazioni di generalità di centinaia di persone. Ma tra le righe della sentenza ci sono lezioni utili per capire i vizi di una repubblica fondata sull’egemonia delle procure.
 


Il primo tema, quello del “giusto giudizio”, è il motivo dell’annullamento del primo processo, quello concluso nel 2021. Dicono i magistrati d’appello: il giudice deve essere indipendente e terzo, e invece nel processo di tre anni fa tra le parti civili che chiedevano condanne e risarcimenti c’erano anche giudici. Non c’entra il fatto che i giudici di tre anni fa (togati o popolari) fossero tarantini, e perciò non avrebbe avuto serenità nel sentenziare un giudice che pensi di essere stato per anni avvelenato dagli imputati. Invece no. La sentenza della corte d’assise d’appello nega in modo espresso questa ipotesi e dice un’altra cosa. Il caso è legato a tre giudici ben precisi, due giudici di pace e un magistrato del Tribunale Agrario, due dei quali non più in attività, compresi nell’elenco delle parti civili che avevano chiesto condanne e risarcimenti. Uno dei tre aveva anche ottenuto un risarcimento “e anche la liquidazione di una somma di denaro a titolo di provvisionale”. Non erano giudici coinvolti dal processo, ma il processo deve “garantire, nella massima misura possibile, l’apparenza di terzietà e imparzialità dell’ufficio giudiziario chiamato a giudicare i fatti che coinvolgono un collega, che, per particolari rapporti lavorativi intrattenuti con lo stesso, potrebbe sfruttare una rendita di posizione all’interno dell’ufficio giudicante”. C’è dentro tutto, dai trattati di diritto scritti un secolo e mezzo fa da Giuseppe Chiovenda fino alle norme sul “giusto processo” dell’articolo 11 del codice di procedura penale. In breve: i giudici devono assicurare terzietà e indipendenza; se un imputato o una parte lesa sono magistrati, si cambia giudice.
 

Il secondo aspetto importante della sentenza. La settimana scorsa in molti hanno tuonato: faremo ricorso. Non accadrà. Nell’ultima riga della sentenza d’appello, sotto le firme e i timbri, è aggiunto: “La presente sentenza è irrevocabile”. La decisione è definitiva e non appellabile perché è una sentenza di natura ordinatoria, è l'applicazione pedissequa in una norma di legge contenuta nell'articolo 11 del codice di procedura penale. L'unica forma di ricorso (improbabile) potrebbe venire dalla procura generale di Potenza, dove la corte d’assise d’appello ha mandato l’incartamento, la quale potrebbe rivolgersi alla Cassazione per chiedere se la competenza è di Potenza o di Taranto.
 

Terzo aspetto. Ci sono i costi di un processo sbagliato fin dall’inizio (“l’incompetenza ex art. 11 c.p.p. avrebbe dovuto rilevarsi sin dalla fase di celebrazione dell’udienza preliminare”, dice la sentenza d’appello). Sono state tenute oltre duecento udienze; sono state mosse coorti e legioni di testimoni, esperti, consulenti. Chi paga i danni erariali? Ecco un parere tecnico di una delle parti, l’avvocato amministrativista Francesco Perli, accusato per l’intercettazione farlocca di una telefonata con un imputato. “È una sentenza ineccepibile dal punto di vista giuridico che doveva essere presa già nel 2014 e che è irrevocabile perché applicativa di norma ordinatoria sulla terzietà del processo. L’errore madornale dei giudici di primo grado è stato quello di voler giudicare loro a tutti i costi”. Conclude Perli che fra l’altro “le telefonate tra avvocato e proprio assistito non possono essere utilizzate in giudizio come già al tempo vigeva e più fortemente è stato sancito dalla legge n. 114 del 25 agosto 2024 voluta dal ministro Nordio e dall’onorevole Zanettin. Mi fa piacere che il mio caso personale abbia contribuito a indurre il legislatore a rafforzare tale principio di garanzia”.

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