la sentenza
I pm De Pasquale e Spadaro condannati per aver nascosto prove agli imputati al processo Eni-Nigeria
Il tribunale di Brescia ha condannato i due magistrati a otto mesi per non aver depositato prove favorevoli alle difese nel processo Eni-Nigeria: dovevano svelare l’esistenza della più grande tangente della storia, invece sono diventati protagonisti di uno dei più gravi scandali della storia della magistratura italiana
Imputati assolti, pubblici ministeri condannati. L’incredibile parabola del processo Eni-Nigeria si è consumata oggi: il tribunale di Brescia ha infatti condannato a otto mesi di reclusione (pena sospesa) i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio, per non aver depositato prove favorevoli alle difese nel processo Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti e 15 gli imputati. Secondo la procura meneghina, l’inchiesta avrebbe dovuto svelare l’esistenza della più grande tangente della storia, quella da 1,3 miliardi di dollari che i vertici di Eni e Shell avrebbero pagato ai politici nigeriani per aggiudicarsi i diritti di esplorazione sul blocco petrolifero Opl-245. La vicenda giudiziaria, invece, si è trasformata in uno dei più gravi scandali della storia della magistratura italiana.
Il processo contro Eni e Shell è crollato nel 2021 con l’assoluzione da parte del tribunale di Milano di tutti gli imputati (tra cui l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore Paolo Scaroni), sentenza poi diventata definitiva l’anno successivo in virtù della mancata impugnazione da parte della procura generale. E i pubblici ministeri, da accusatori, si sono ritrovati a vestire i panni di imputati, accusati a Brescia di non aver depositato prove a favore degli imputati del processo Eni, come prevede la legge, per dimostrare l’inattendibilità del principale testimone valorizzato dagli inquirenti, l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, grande accusatore della compagnia petrolifera.
I pm, ad esempio, decisero di non mettere a disposizione delle parti una videoregistrazione risalente al 2014 in cui Armanna, prima della denuncia di corruzione nei confronti di Eni, esprimeva propositi ritorsivi nei confronti dell’azienda, minacciando di far cadere “una valanga di merda” e “avvisi di garanzia”. De Pasquale e Spadaro, inoltre, non depositarono neanche le chat in cui Armanna concordava il versamento di 50 mila dollari a due testimoni, prove di falsificazione di altre conversazioni e messaggi in cui Armanna indottrinava un testimone in vista del processo. Dal processo bresciano è emerso che i due pm fossero a conoscenza dell’esistenza del video di Armanna già nel 2017. Gli altri elementi, come le chat falsificate, vennero invece inviati ai pm dal collega milanese Paolo Storari, che stava indagando su Armanna in un altro procedimento, ma furono ritenuti dai pm “ciarpame” inutilizzabile e addirittura “una polpetta avvelenata” (parole di De Pasquale), e così mai depositati.
Il processo bresciano era partito dopo che i giudici di Milano, nella sentenza di assoluzione su Eni-Nigeria, definirono “incomprensibile” la scelta della procura di non depositare il video di Armanna, che “recava straordinari elementi in favore degli imputati”.
In altre parole, De Pasquale e Spadaro non solo hanno portato avanti per otto anni un’inchiesta senza prove (mai è stata trovata traccia della presunta tangente) e basata su false testimonianze, ma hanno omesso di depositare le uniche prove che nel frattempo erano emerse, cioè quelle favorevoli agli imputati.
Come se ciò non bastasse, i due magistrati cercarono di far saltare il collegio giudicante, valorizzando le illazioni di Piero Amara su un presunto avvicinamento dei legali di Eni al presidente del collegio, Marco Tremolada. De Pasquale e Spadaro chiesero infatti, senza successo, di ascoltare in aula Amara, mentre l’allora procuratore di Milano Francesco Greco trasmise gli atti ai colleghi di Brescia, che aprirono un’inchiesta, poi archiviata per l’inattendibilità di Amara.
Insomma, il processo Eni-Nigeria, su cui la procura milanese aveva puntato gran parte delle sue energie, non solo si è rivelato un disastro sul piano penale, economico e reputazionale. Secondo quanto stabilito dai giudici di Brescia, dietro il processo si sono persino celati reati da parte dei pubblici ministeri.
Il collegio bresciano, presieduto da Roberto Spanò, pur accogliendo la richiesta di condanna dei due magistrati ha però respinto la proposta di non concedere la sospensione della pena per il pericolo di reiterazione del reato. De Pasquale e Spadaro (ora in servizio alla procura europea) potranno quindi continuare a svolgere il loro lavoro nonostante la condanna. Una situazione paradossale, soprattutto se si considera anche che nel frattempo il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di non confermare De Pasquale nella funzione di procuratore aggiunto, a causa della sua “assenza di imparzialità ed equilibrio”. Continua a lavorare come semplice sostituto procuratore.