Foto ANSA

L'editoriale del direttore

Da De Pasquale a Davigo, la nemesi dei pm di Mani pulite costretti a fare i conti con l'oscenità di una repubblica fondata sull'impunità dei magistrati

Claudio Cerasa

Gli ex protagonisti di Tangentopoli mettono insieme un mosaico sciagurato, incastrati negli ingranaggi giustizialisti che loro stessi hanno contribuito a costruire

E’ più di una nemesi. E’ più di una lezione. E’ più di un cortocircuito. E’ un formidabile squarcio su una realtà vera, profonda, drammatica, una realtà giudiziaria reale che per anni in pochi hanno voluto vedere e che ora, oplà, è qui magicamente di fronte a noi. La condanna in primo grado ricevuta ieri a Brescia dal procuratore aggiunto uscente di Milano, Fabio De Pasquale, condanna a otto mesi per rifiuto d’atti di ufficio, per non aver cioè voluto depositare nel febbraio del 2021, a ridosso della sentenza del processo milanese per corruzione internazionale Eni-Nigeria, prove rilevanti che avrebbero potuto permettere di dimostrare prima del tempo l’innocenza degli indagati, in quello che il circolo dei mozzorecchi definì “il processo del secolo”, è l’ultimo tassello di un mosaico interessante e sciagurato che riguarda numerosi magistrati che hanno fatto parte del famoso mondo di Mani pulite.

 

                  

 

De Pasquale non è il primo a finire nei guai, tra i membri di quel team, e pochi mesi prima di lui la stessa sorte era toccata a un altro totem del giustizialismo chiodato: Piercamillo Davigo, per il quale, a marzo, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la condanna a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per la vicenda dei verbali di Piero Amara nell’ambito della famosa e affumata inchiesta riguardante la famigerata “Loggia Ungheria”. I più pigri potrebbero dire che la storia di Davigo e De Pasquale rientra perfettamente all’interno della famosa nemesi del purismo: gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura. Eppure i due tasselli vanno esaminati cambiando inquadratura e concentrandosi su quello che è diventato il destino inesorabile degli ex pm di Mani Pulite: diventare protagonisti di un processo speciale, ancora agli albori, finalizzato a mettere a nudo l’oscenità di una repubblica fondata sull’impunità dei magistrati.

De Pasquale in fondo è stato condannato in primo grado per questo: per aver pensato di poter fare prevalere, senza pagarne le conseguenze, la logica del teorema sulla dottrina dei fatti. Davigo in fondo è stato condannato per questo: per aver pensato di poter violare il segreto istruttorio, senza pagarne le conseguenze, per raggiungere un fine considerato più importante del rispetto delle regole. In questo senso, i processi contro Davigo e De Pasquale sono processi al centro dei quali vi è la denuncia di quelli che sono alcuni ingranaggi che permettono alla repubblica fondata sulla gogna, sulla cultura del sospetto e sul trasferimento ai pm di pieni poteri di proliferare allegramente nel nostro paese.

Ma accanto a questi casi ce ne sono altri non meno significativi che arrivano ancora dal vecchio mondo di Mani Pulite e che sono a loro modo utili a rafforzare lo stesso fenomeno: reagire contro una repubblica fondata sull’impunità dalla nostra magistratura. Succede così di ritrovare un Antonio Di Pietro, che nella sua nuova vita si è travestito da avvocato garantista, pronto a tuonare contro gli abusi di una magistratura che fa quello che un tempo faceva il suo pool: abusare della carcerazione preventiva. E invece oggi ecco Di Pietro che, sul caso Toti, mesi fa, arrivava a dire che “la motivazione per cui non può essere ridata la libertà a Toti perché potrebbe commettere reati dello stesso tipo è insostenibile”. Stessa storia anche per Gherardo Colombo,  che dopo aver chiuso gli occhi per anni sul modo in cui il suo pool utilizzò il carcere in modo discrezionale, da anni sostiene che con il carcere non si deve abusare, “perché non è che il timore del carcere comporti necessariamente l’astensione dal commettere reati”. Una vecchia frase attribuita a Piercamillo Davigo sosteneva una famosa tesi che forse oggi neppure Davigo si sentirebbe di difendere: “Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”. Oggi quell’espressione, osservando la parabola del pool di Mani pulite, potrebbe essere riadattata così: non esistono innocenti, esistono solo giustizialisti che non hanno ancora scoperto i danni prodotti da una magistratura decisa a difendere con i denti la propria impunità.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.