L'editoriale del direttore
Il guaio di un paese che non vuole vedere le esondazioni dei magistrati quando si parla di immigrazione
Si può non condividere il metodo scelto da un governo sulle politiche migratorie, ma c'è un interrogativo di fondo a cui bisogna trovare una risposta: chi decide quali sono i paesi sicuri dove possono essere rimandati i migranti che arrivano in Italia senza averne il diritto?
Il modello albanese su cui l’Italia ha scelto di scommettere per provare a ridurre il numero di migranti irregolari che arrivano sulle nostre coste contiene tutti gli elementi per animare ancora a lungo discussioni e divisioni profonde all’interno del mondo della politica. Il modello può essere legittimamente considerato come un esempio da studiare per capire se l’esternalizzazione della gestione dell’immigrazione può produrre efficienza o quantomeno un effetto deterrente (la Commissione europea è su questa prima strada) e può essere altrettanto legittimamente considerato come uno spreco di denaro pubblico perché quello che si cerca di fare in Albania non si capisce per quale ragione non possa essere fatto rafforzando i centri di accoglienza che si trovano in Italia (l’opposizione a Meloni è invece su questa seconda strada).
Su un punto però chi considera il modello positivo e chi lo considera negativo dovrebbero trovarsi. E quel punto coincide con una necessità che dovrebbe essere scontata e che invece purtroppo non lo è: non considerare il migliore dei mondi possibili quello in cui l’opposizione delega alla magistratura la definizione di ciò che è giusto e cosa è sbagliato quando si parla di politiche migratorie. Nel caso in questione non stiamo parlando del processo palermitano a Salvini, un processo che fa parte di un altro secolo, un secolo in cui i ministri dell’Interno sceglievano esplicitamente e sfacciatamente di violare il diritto del mare. Stiamo parlando di un altro caso, più fresco, che è quello affiorato oggi a Roma, dove i giudici della sezione immigrazione del tribunale della Capitale hanno deciso di non convalidare il trattenimento di dodici richiedenti asilo provenienti da Egitto e Bangladesh soccorsi nella notte del 13 ottobre in acque internazionali dalla Guardia di Finanza, trasferiti a bordo di una nave della Marina militare e condotti due giorni fa in Albania al centro di trattenimento di Gjader.
I giudici hanno scelto di non convalidare il trattenimento, si legge nel comunicato stampa diffuso dalla presidente di sezione del tribunale di Roma, a causa dell’“impossibilità di riconoscere come paesi sicuri gli stati di provenienza delle persone trattenute”. La questione riguarda il caso dell’Albania, naturalmente, nei cui centri creati dall’Italia possono essere condotti solo migranti salvati in acque internazionali e solo ed esclusivamente maschi, adulti, non vulnerabili, provenienti da paesi inseriti nella lista dei cosiddetti paesi sicuri. Ma in verità il caso riguarda un tema più generale, e ancora più importante, al centro del quale vi è un problema, se così lo vogliamo definire con un eufemismo, che è il cuore dello scontro che vive ormai da mesi, a intensità variabile, tra un pezzo della magistratura e il governo di centrodestra. A livello di diritto, il problema è semplice: chi decide quali sono i paesi sicuri dove possono essere rimandati i migranti che arrivano in Italia senza averne il diritto?
I magistrati, evocando una sentenza della Corte di giustizia europea che impone all’autorità giudiziaria di valutare caso per caso le limitazioni di libertà dei migranti in virtù della possibilità che vi siano alcuni paesi considerati sicuri che in verità non sono sicuri per tutti o che comunque non sono sicuri nella loro interezza (vedi il caso della Transnistria, in Moldavia, vedi il caso di paesi enormi come la Nigeria, dove non tutti i distretti possono considerarsi sicuri), hanno scelto una strada negli ultimi mesi. Questa: smantellare la lista dei paesi sicuri costruita negli anni dal potere esecutivo andando a considerare paesi non sicuri tutti i paesi in grado di non garantire al cento per cento la libertà di un migrante (secondo questi criteri anche gli Stati Uniti, dove vige la pena di morte in alcuni stati, potrebbero essere considerati non sicuri). A livello politico, il problema è se possibile ancora più complesso e la questione è in fondo semplice da capire: la politica ha ancora il diritto di considerare irregolare un migrante che arriva in Italia, senza averne il permesso, senza avere il diritto di chiedere asilo, oppure chiunque arriva in Italia deve essere considerato automaticamente regolare, anche chi arriva da paesi sicuri con cui il governo ha stabilito accordi precisi di ingressi legali attraverso il decreto Flussi, per il semplice fatto che l’autorità giudiziaria considera in modo discrezionale non sicuri paesi definiti invece sicuri dal governo?
Negli ultimi mesi, all’indomani dell’approvazione del cosiddetto decreto Cutro, che ha creato una procedura accelerata che può durare al massimo ventotto giorni per esaminare lo status dei migranti, diversi tribunali hanno scelto di colpire ripetutamente la dottrina migratoria del governo facendo leva proprio sull’impossibilità di definire una lista di paesi sicuri. L’effetto di questa azione della magistratura – azione che qualcuno potrebbe definire anche di carattere ideale, considerando che non è raro incontrare tra i giudici che non convalidano il trattenimento di migranti alcuni particolarmente attivi all’interno delle proprie correnti della magistratura, l’ultima della serie è la dottoressa Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica, che oggi ha firmato due provvedimenti del tribunale di Roma – è come è evidente quello di rendere di fatto illegale la politica dei rimpatri (nella prima metà del 2024 l’Italia ha emesso 13.330 ordini di rimpatrio ma ha rimandato indietro solo 2.035 persone), è quello di rendere di fatto più sottili le frontiere (non esiste un’emergenza migranti in Italia, come scrive bene il nostro David Carretta oggi, ma esiste un problema legato al fatto che la politica, grazie alla discrezionalità della magistratura, ha sempre meno sovranità sulla politica migratoria) ed è quello di trasferire sull’autorità giudiziaria una competenza che dovrebbe essere fino a prova contraria di pertinenza dell’autorità politica: decidere, al termine di una complessa istruttoria, quali paesi possono essere considerati sicuri e quali invece no, e valutare sulla base di questa scelta il modo più opportuno per portare avanti le proprie politiche migratorie.
I più furbi proveranno a dire che le esondazioni della magistratura sul terreno dei rimpatri dimostrano che la magistratura ha un pregiudizio ideologico nei confronti della destra e che di questo pregiudizio ideologico ne è vittima anche Matteo Salvini, la cui storia invece è totalmente diversa, perché nella storia di Salvini vi è un politico che ha scelto deliberatamente di violare il diritto del mare mentre nella storia dei rimpatri ci sono dei magistrati che altrettanto deliberatamente ammettono le proprie intenzioni sostenendo che non può essere la politica a occuparsi di rimpatri ma deve essere la magistratura. I più accorti non potranno però non concordare su un punto che dovrebbe essere al centro di ogni stato di diritto e di ogni democrazia sana. Si può odiare con tutto il cuore il metodo scelto da un governo sulle politiche migratorie. Ma non si può non saltare sulla sedia quando si scopre che a volersi sostituire al governo è una magistratura che esonda dando lezioni di morale e non un’opposizione che si afferma dando lezioni di democrazia.