il caso
Perché il decreto sui “paesi sicuri” rischia di paralizzare la giustizia
Il testo approvato dal governo reintroduce il ricorso in appello contro le decisioni in materia di immigrazione. Come risultato le Corti d’appello saranno inondate di migliaia di nuovi procedimenti: se ne stimano circa 160-180 mila all’anno
Pur di ottenere decisioni giudiziarie più restrittive nei confronti dei migranti che arrivano in Italia, il governo rischia di paralizzare la macchina della giustizia, vanificando i risultati positivi ottenuti fino a ora per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. A lanciare l’allarme sono i magistrati stessi, stavolta senza distinzione di “correnti”. Non una lamentela da “toghe rosse”, insomma. Il decreto legge approvato in fretta e furia lunedì dal governo per risolvere il caso Albania, infatti, non contiene soltanto l’elenco dei “paesi sicuri”, ma anche alcune norme che reintroducono la possibilità (eliminata nel 2017) di ricorrere contro le decisioni sul trattenimento dei migranti nei centri di permanenza per i rimpatri e quelle relative al riconoscimento del diritto d’asilo. Nella prospettiva del governo, la possibilità di far esprimere non un solo giudice, bensì un collegio d’appello composto da tre giudici, porterebbe a un maggior numero di sentenze sfavorevoli ai migranti, e dunque più in linea con gli obiettivi governativi.
L’inserimento di queste norme era stato ipotizzato nelle ore precedenti al Consiglio dei ministri di lunedì, ma poi, come affermato in conferenza stampa dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, le disposizioni non erano state inserite nel testo del decreto approvato in Cdm. Testo che, però, è stato poi cambiato con l’introduzione proprio del ricorso in appello. Un piccolo giallo politico, anche se a preoccupare ora sono soprattutto le conseguenze di questa novità.
Le norme, infatti, prevedono che il migrante o il Viminale possa fare ricorso contro la decisione in materia di immigrazione entro cinque giorni di fronte alla Corte d’appello, che “decide entro dieci giorni dalla presentazione del reclamo”. Un termine brevissimo, che costringerà le Corti d’appello a dare inevitabilmente priorità ai procedimenti sull’immigrazione, con seri dubbi sulle reali capacità di rispettare i tempi. Di sicuro, come risultato le Corti d’appello saranno inondate di migliaia di nuovi procedimenti (se ne stimano circa 160-180 mila all’anno), che poi è il motivo per il quale nel 2017 il ricorso in appello era stato eliminato.
“Una norma folle, l’anno prossimo saremo praticamente costretti a lavorare soltanto sui procedimenti che riguardano l’immigrazione”, dice al Foglio un magistrato di Corte d’appello.
Non si tratta di una testimonianza isolata. Tutt’altro. La reintroduzione del reclamo al giudice di secondo grado era già stata prevista, seppur in maniera meno organica, da un decreto approvato lo scorso 2 ottobre. La cosa aveva generato le preoccupazioni dei 26 presidenti delle Corti d’appello (da Milano a Roma fino a Reggio Calabria e Venezia). In una lettera indirizzata alla premier Meloni, al ministro della Giustizia Nordio, al ministro dell’Economia Giorgetti e al Csm, i vertici delle Corti avevano affermato che il ripristino dell’appello in materia di protezione internazionale dei migranti “renderebbe assolutamente ingestibili i settori civili di tutte le Corti d’appello, impegnate, con ridotti organici di magistrati e di personale amministrativo, nello sforzo di raggiungere gli obiettivi del Pnrr per la Giustizia, in particolare quello della riduzione dei tempi processuali". Tempi che “con la introduzione della nuova fase processuale d'appello, si allungherebbero a dismisura proprio per le cause civili oggetto degli impegni verso l’Unione Europea”.
Ora che con il nuovo decreto l’appello viene reintrodotto con termini ancora più stringenti, le preoccupazioni delle Corti sono destinate ad aumentare. Intanto è già intervenuta la corrente moderata di Magistratura indipendente, che di certo non può essere accusata di rappresentare le “toghe rosse”: “L’inevitabile aumento del carico di lavoro delle Corti d’appello rischia di vanificare l’immane sforzo che i giudici di secondo grado stanno profondendo per la eliminazione dei procedimenti arretrati, in linea con gli impegni presi con l’Europa per l’attuazione del Pnrr”, afferma Mi in una nota, auspicando pertanto “un ripensamento di tale scelta”.