L'intervento
Sui paesi sicuri i giudici di Bologna cercano legittimazione europea
Il motivo riguarda i limiti che il potere giurisdizionale incontra nel sindacare scelte politiche, quelle relative alla sicurezza o meno di un paese. Ma giudicare chi amministra o legifera non deve mai comportare che il magistrato diventi amministratore o legislatore
Ma, di preciso, cosa vogliono i togati bolognesi dalla Corte di giustizia? Dopo 25 pagine in cui si tira in ballo di tutto – dal dodicennio nero del terzo Reich alla Carta dei diritti dell’uomo – l’ordinanza che ha mandato il decreto legge sui paesi sicuri davanti al giudice europeo si chiude con due quesiti: il primo, di cabotaggio minore; l’altro – come diceva irritato un arcigno professore quando gli studenti facevano domande scontate – “a risposta semplice”.
Qualcosa mi pare che non torni. Forse la chiave adatta per entrare nello spirito dell’ordinanza bolognese è quella da qualche tempo in voga fra i giuristi: il concetto di “postura”. Non è che abbia un significato preciso. Starebbe a indicare l’atteggiamento con cui ci si pone (da cui il nome) di fronte a un fatto giuridicamente rilevante: per descriverlo in un saggio, o per analizzarlo in vista di una decisione da assumere. Contano gli esempi fatti, l’altezza del registro linguistico, i colori dell’aggettivazione, etc. Tradurrei con “mood”, se fossi esterofilo. Postura drammatica, qui. Leggiamo di “gravissime divergenze” fra il governo e i giudici italiani nell’interpretare il diritto europeo della migrazione, “manifestatesi […] in modo obiettivo e virulento” e che hanno provocato un “inedito conflitto istituzionale”.
Veniamo al punto intorno al quale ruota l’ordinanza. Sul piano generale, non crea particolari dubbi: un giudice nazionale può ignorare (“disapplicare”, in giuridichese) una legge interna, ma solo se contrasta con una norma dell’Unione europea che (in quanto chiara, precisa e incondizionata) ha effetti diretti nel nostro ordinamento. Eppure, è esattamente questo uno dei due quesiti che i giudici bolognesi hanno rivolto alla Corte. Sfugge il motivo di questo interrogare l’Europa: forse per ottenere una legittimazione “fresca” a proseguire lungo la strada del “dissidio esegetico” (sempre parole dell’ordinanza) col governo?
La vera singolarità, però, viene adesso. La questione realmente dibattuta, quella cioè che ha portato il governo a emanare il decreto legge, riguarda non la possibilità, in generale, di disapplicare una legge nazionale, ma i limiti che il potere giurisdizionale incontra nel sindacare scelte che hanno una connotazione eminentemente politica: nel nostro caso, quelle relative alla sicurezza o meno di un paese.
In breve. Se con una opzione politica il governo ritiene sicuro un paese terzo, può un giudice maturare un convincimento opposto, sostituendosi al decisore rappresentativo? Cosa molto pericolosa: secondo un monito antico e saggio, giudicare chi amministra o legifera non deve mai comportare che il giudice diventi amministratore o legislatore. Crollerebbe la separazione dei poteri.
Qui l’ordinanza si limita, stranamente, a ricordare l’orientamento favorevole di alcuni tribunali (altri però la pensano all’opposto): un giudice potrebbe acquisire informazioni “in forza del suo dovere di cooperazione istruttoria” col governo, arrivando a sancire che la designazione politica di un paese come sicuro è illegittima per mancanza delle condizioni sostanziali sulle quali si basa la decisione. In questo modo, ogni giudice diventerebbe una sorta di decisore-legislatore di ultima istanza per il caso concreto. Il governo, a sua volta, sarebbe declassato a semplice proponente: l’elenco dei paesi sicuri, pur contenuto in un decreto legge (cioè in un atto politico di rango primario), sarebbe applicabile solo dopo che il singolo togato ne avesse verificato l’attendibilità con riferimento a una vicenda specifica.
Se i togati bolognesi erano alla ricerca di una legittimazione europea, era su questa tesi – particolarmente ardita – che dovevano (tentare di) portare dalla loro parte la Corte di giustizia. Hanno invece deciso di non farlo, investendo invece l’Europa con un quesito relativo a principî di diritto indiscussi. Forse – con buona pace di Kelsen – a essere sbagliata è proprio la chiave di lettura puramente giuridica.
Pier Luigi Portaluri (Università del Salento)