La disputa dei paesi sicuri

Il tribunale di Catania dice che sono i giudici a decidere la gestione dei flussi migratori

Pier Luigi Portaluri

La decisione dei giudici catanesi non si limita a disapplicare una norma primaria ritenuta – a torto o a ragione – in contrasto col diritto europeo, ma di provoca un effetto ben più radicale: ogni giudice si sostituirà al legislatore, caso per caso, nella gestione dei migranti.

Che questa fosse la posta in gioco, era evidente. Dopo le pronunce di altri togati, tecnicamente imprecise, adesso un giudice catanese ha messo le carte in tavola. E senza infingimenti più o meno funzionali all’obiettivo da perseguire. Lasciamo perdere la questione dell’animus (come si dice nell’orrido giuridichese), perché non serve a molto: è cioè inutile chiedersi se queste pronunce possano essere intimamente dettate da uno scopo di contrasto alle scelte del governo in carica in tema di migranti o, addirittura, di opposizione politica tout court. Questione indecidibile, come tutte quelle che riguardano il cuore e la mente dell’uomo, con l’inevitabile condizionamento dei valori che li caratterizzano. Andiamo alla sostanza, quella esteriore e tangibile. Le contese sono due: una meno strutturale, perché contingente e d’occasione (se così si può dire, visto che riguarda la sorte di tanti esseri umani); l’altra cruciale e permanente, poiché investe direttamente le regole con cui si ripartisce in generale il potere politico fra i regolatori provenienti dal circuito democratico (il Parlamento e il governo) e quelli a esso esterni (la magistratura). Subito una precisazione, per tacitare l’ipocrisia delle anime belle e pure (o sedicenti tali). Qualunque decisione istituzionale – non solo se racchiusa in una legge, ma anche se contenuta in una sentenza o in un provvedimento amministrativo – ha in sé una componente di insopprimibile politicità. Più o meno ampia, certo: ma c’è sempre. Le ragioni sono molte. Ne basta una: l’ordinamento giuridico di una società complessa tende al caos normativo, per navigare nel quale ogni decisore si orienta inventando le proprie costellazioni personali.


La prima delle due partite è quella più palese: a quale dei due decisori istituzionali – il plesso governo/Parlamento o la magistratura – spetta la regolazione, cioè la politica, in tema di migranti? L’occasione dello scontro, ancora una volta, è stata la designazione di un paese terzo come sicuro. Il tribunale catanese ha risposto rivendicando a sé – cioè alla magistratura nel suo complesso – un tale potere. E ha ritenuto di poterlo fare usando parole inequivoche: “Posto che il giudice è tenuto a operare una verifica di compatibilità della designazione con norme a effetto diretto dell’Ue, tale verifica nel caso in esame non può che essere negativa”. E ancora: “I citati rischi di insicurezza che riguardino, in maniera stabile e ordinaria, intere e indeterminate categorie di persone portano de plano il decidente a negare che l’Egitto possa ritenersi paese sicuro alla luce del diritto dell’Unione europea”, per cui “non resta che disapplicare ai fini della presente decisione il decreto-legge”. Ovvio: il togato ha assunto la sua scelta fondandola sul diritto europeo. Il quale prevale sì sul diritto interno, ma che – come ogni norma, anzi come ogni testo – deve essere interpretato guardando anche alle conseguenze che una sua lettura comporta rispetto a un’altra, di segno diverso. Ecco il punto. Il tribunale catanese è partito dalla direttiva del 2013, su cui si è pronunciata la Corte di Giustizia: che però non è chiarissima quanto ai poteri del giudice nei confronti della designazione di un paese terzo come sicuro, né si è occupata del caso – come quello italiano – in cui essa avvenga con una legge. Non si tratta semplicemente di disapplicare una norma primaria ritenuta – a torto o a ragione – in contrasto col diritto europeo, ma di provocare un effetto ben più radicale: ogni giudice si sostituirà al legislatore, caso per caso, nella gestione dei migranti. Per cui un paese potrebbe essere considerato sicuro o meno a seconda del magistrato che dovesse occuparsi della questione. Ma di queste criticità – non certo secondarie – nella decisione catanese non v’è traccia. E la seconda delle due contese, quella finale? Semplice. Se il giudice sia ancora soggetto alla legge o – come pure si sostiene – solo alle splendide, ma vaghe utopie della Costituzione.  


Pier Luigi Portaluri  (Università del Salento)