toghe condannate
“Hanno nascosto prove chirurgicamente”. Le motivazioni della condanna dei pm del caso Eni-Nigeria
I pm De Pasquale e Spadaro condannati dal tribunale di Brescia: “Hanno deliberatamente taciuto l’esistenza di risultanze investigative in conflitto con i portati accusatori". Se avessero depositato le prove il processo Eni-Nigeria "si sarebbe concluso già all'udienza preliminare" con l'assoluzione degli imputati
I pm De Pasquale e Spadaro “hanno deliberatamente taciuto l’esistenza di risultanze investigative in palese e oggettivo conflitto con i portati accusatori spesi in dibattimento (e nella requisitoria)”. Se avessero depositato queste prove favorevoli alle difese, il processo Eni-Nigeria, finito con un’assoluzione collettiva, “avrebbe potuto concludersi positivamente per gli imputati già all’udienza preliminare” e si sarebbe anche evitata la condanna di due imputati che avevano scelto il rito abbreviato, poi assolti nei gradi successivi. Sono pesantissime le motivazioni della sentenza con cui lo scorso ottobre il tribunale di Brescia ha condannato i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati di rifiuto di atti d’ufficio per non aver depositato prove a favore dei 15 imputati del processo Eni-Nigeria, poi tutti assolti.
Per il collegio bresciano, presieduto da Roberto Spanò, De Pasquale e Spadaro (condannati a otto mesi, pena sospesa) hanno volontariamente nascosto alle difese una videoregistrazione risalente al 2014 in cui Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, prima della denuncia di corruzione nei confronti della compagnia petrolifera, esprimeva propositi ritorsivi nei confronti dell’azienda, minacciando di far cadere “una valanga di merda” e “avvisi di garanzia”. De Pasquale e Spadaro, inoltre, non depositarono neanche le chat in cui Armanna concordava il versamento di 50 mila dollari a due testimoni, le prove di falsificazione di altre conversazioni e alcuni messaggi in cui Armanna indottrinava un testimone in vista del processo. Questi elementi erano stati inviati a De Pasquale e Spadaro dal collega milanese Paolo Storari, che stava indagando su Armanna in un altro procedimento, ma furono ritenuti dai pm “ciarpame” inutilizzabile e addirittura “una polpetta avvelenata”, e così mai depositati.
In relazione al materiale ricevuto da Storari, scrivono i giudici bresciani, De Pasquale e Spadaro “hanno compiuto una selezione ragionata dei soli tasselli in grado di arricchire il mosaico accusatorio, con esclusione delle tessere dimostrative di segno contrario”. I due, cioè, “hanno utilizzato solo ciò che poteva giovare alla propria tesi, tralasciando chirurgicamente i dati nocivi che pure erano stati portati alla loro attenzione dal dott. Storari”, contrariamente agli obblighi previsti dal codice di procedura penale. In questo modo, i pm hanno impedito che sia le difese sia i giudici potessero valutare elementi “in grado di minare in radice la credibilità del ‘teste-architrave’ dell’accusa”, ossia Vincenzo Armanna.
Per il tribunale, i due pubblici ministeri avrebbero agito in tal modo perché la condanna per la presunta corruzione internazionale legata al giacimento petrolifero Opl-245 in Nigeria “sarebbe servita a giustificare le scelte organizzative della procura, che aveva attribuito al III Dipartimento guidato dal dott. De Pasquale – quello che si occupava della corruzione internazionale (chiamato scherzosamente dai colleghi il ‘dipartimento viaggi e vacanze’) – carichi di lavoro inferiori rispetto a quelli di altre aree”. In caso di vittoria processuale, il terzo dipartimento sarebbe diventato “il fiore all’occhiello” dell’ufficio milanese.
Molto duro è il giudizio del tribunale di Brescia anche sul tentativo che i pm milanesi portarono avanti a ridosso della sentenza di primo grado su Eni-Nigeria per far saltare il collegio giudicante. De Pasquale e Spadaro tentarono di far ascoltare in aula l’avvocato Piero Amara, il quale avrebbe voluto accusare il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada, di essere “accondiscendente” nei confronti della difesa di Eni. Quasi contemporaneamente, l’allora capo della procura di Milano Francesco Greco e il procuratore aggiunto Laura Pedio trasmisero le dichiarazioni di Amara su Tremolada ai colleghi di Brescia (competenti sui magistrati milanesi), che aprirono un’inchiesta, poi archiviata in virtù dell’inattendibilità di Amara. Si trattò, scrivono i giudici bresciani, “sotto ogni punto di vista di un azzardo inescusabile”.
Anche alla luce di questa vicenda, il tribunale di Brescia si spinge ad affermare che contro le segnalazioni del pm Storari, e a salvaguardia del processo Eni-Nigeria, nella procura di Milano, più che un “muro impossibile da scalfire”, venne innalzato “un Quadrilatero”, come il sistema difensivo usato nel 1800 dall’impero austriaco. Composto, oltre che dai due imputati, dal capo della procura Greco e dall’aggiunto Pedio.