procura di milano
Onore a un magistrato: Paolo Storari
Oltre una censura. Buone ragioni per ringraziare il pm Storari che ha tentato di salvare la faccia a una procura che, seguendo il pm De Pasquale, ha nascosto le prove nel processo Eni-Nigeria
È difficile sostenere che un magistrato debba essere preso a esempio dopo che il Csm gli ha inflitto una condanna disciplinare. Ma questo è esattamente il caso di Paolo Storari, pm della procura di Milano, sanzionato con la “censura” per aver consegnato a Piercamillo Davigo i famosi verbali sulla “loggia Ungheria”. Sulla vicenda ci sono stati già due processi penali: uno a carico di Storari, assolto definitivamente in primo grado e appello perché indotto in errore da Davigo; l’altro a carico da Davigo, condannato per rivelazione del segreto in primo grado e in appello in attesa della Cassazione (che si pronuncerà la prossima settimana).
Storari ha sbagliato a fidarsi di Davigo, e un severo Csm fa bene a sanzionare il comportamento inopportuno. Tuttavia, subito dopo, la magistratura organizzata farebbe meglio a dargli una medaglia per come, in una vicenda ben più rilevante, ha onorato la funzione di pm. La condotta irrituale di Storari non può, infatti, essere isolata dal contesto in cui è maturata: dal clima di contrasto, di ostilità e di sfiducia in cui era avvolta la procura di Milano concentrata nella gestione del parallelo processo Eni-Nigeria.
Si trattava, come è noto, del processo del secolo per la procura allora guidata da Francesco Greco e dell’inchiesta della vita per il pm Fabio De Pasquale: l’ipotesi di accusa era la corruzione internazionale più grande della storia, un’ipotetica tangente da 1,1 miliardi che vedeva coinvolte due multinazionali energetiche come l’italiana Eni e l’anglo-olandese Shell. Come è andata a finire è noto: tutti assolti. Non solo la corruzione non è mai esistita, ma quel processo non si sarebbe mai dovuto celebrare. Soprattutto con i metodi usati della procura di Milano.
Tutto questo è emerso nel processo a Brescia nei confronti dei pm titolari dell’inchiesta Eni-Nigeria, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, condannati in primo grado per aver nascosto alle difese (e al tribunale) importanti prove favorevoli agli imputati. Quello che è emerso dal dibattimento del processo De Pasquale, a prescindere da quale sarà l’esito finale del processo fino al terzo grado di giudizio, è uno spaccato inquietante di come possa funzionare malamente la magistratura inquirente e di come dovrebbe funzionare in teoria. Da un lato il “modello De Pasquale”, dall’altro il “modello Storari”.
Il processo Eni-Nigeria si basava, in sostanza, sulle dichiarazioni di Vincenzo Armanna, ex dipendente dell’Eni in contrasto con la sua ex azienda, che aveva la doppia veste di imputato e grande accusatore. Un personaggio che la procura ha tentato di valorizzare in ogni modo ma che si è dimostrato un grande manipolatore, falsificatore e calunniatore. Ma questo Storari, che lavorava su un procedimento parallelo sul cosiddetto “falso complotto Eni”, lo aveva capito presto. O comunque in anticipo rispetto ai suoi colleghi. Cercando riscontri alle dichiarazioni di Armanna, aveva scoperto le accuse e le prove che aveva fornito ai pm erano false. Le chat erano manipolate, i numeri telefonici attribuiti ai manager dell’Eni Descalzi e Granata inesistenti, un testimone dalla Nigeria era stato pagato dallo stesso Armanna. Infine un suo sodale, il famigerato Piero Amara, aveva fatto dichiarazioni ai pm milanesi tese a infangare la reputazione del giudice Marco Tremolada, presidente del collegio Eni-Nigeria, accusandolo di essere in combutta con gli avvocati degli imputati.
Di fronte a questo scempio, Storari cerca in tutti i modi di convincere i suoi colleghi a depositare le prove a favore delle difese: “Mi sembra un atto dovuto – scrive ai pm – , e credo che si debba farlo al più presto. Altrimenti potremmo essere accusati di avere scoperto la calunnia di Armanna e di non avere detto nulla”. Storari si oppone anche al tentativo della procura di usare Amara per infangare il giudice Tremolada. Ma si scontra con un muro di gomma, tirato su da De Pasquale e dal procuratore Greco, che proteggevano Armanna perché la procura non poteva “permettersi di perdere il processo Eni”.
Storari viene accusato di non “fare squadra”, di sabotare l’inchiesta. “Non possiamo consentire che la decisione del Tribunale, qualunque questa sia, – dice Storari ai colleghi – si fondi su calunnie, testi pagati o documenti falsi”. La procura invece, tutta compatta, sceglie di ignorare il rompiscatole Storari e credere contro le evidenze al calunniatore Armanna pur di “vincere”. Anche a costo di fare perdere la giustizia. Come scrivono i giudici di Brescia, nella sentenza di condanna di De Pasquale, “Storari, che si era erto a paladino del rispetto delle regole codicistiche, e più in generale dei precetti costituzionali in tema di giusto processo, era stato tacciato di creare ‘un clima sfavorevole’ all’accusa”.
Mentre si discute di separazione delle carriere, e uno dei principali argomenti dei magistrati che si oppongono alla riforma è che nel nostro ordinamento il pm svolge un ruolo di garanzia anche per gli imputati, sarebbe il caso di riflettere sui due modelli di pm che l’attuale sistema produce. Da un lato De Pasquale che cerca di “vincere” a ogni costo; dall’altro Storari che dice ai colleghi di depositare le prove a favore della difesa: “La procura ne uscirebbe benissimo, se dite che abbiamo scoperto che Armanna è un calunniatore, facciamo una grandissima figura... perché diamo la sensazione di una procura indipendente e trasparente”.
Alla fine ha prevalso il modello De Pasquale e la procura di Milano ha perso prima il processo e poi la faccia. Non sarebbe male se ora la magistratura organizzata desse un riconoscimento a chi, come Storari, quella faccia aveva tentato di salvarla.