l'intervista

“Giornalisti conformisti e violenza ideologica”. Parla Nello Trocchia

Salvatore Merlo

Il cronista, prosciolto dall'accusa di violenza sessuale, racconta la sua storia e ragiona su difetti e colpe del giornalismo giudiziario: “C’è chi ha fatto passare la mia richiesta di archiviazione come una condanna. Più che del bavaglio, dovremmo preoccuparci del conformismo di troppi colleghi”

Lunedì lo hanno prosciolto, archiviato come da richiesta dell’accusa. Lui e sua moglie, Sara Giudice. Dopo due anni. “Un inferno”, dice Nello Trocchia, giornalista di Domani, cronista giudiziario e d’inchiesta. “Il primo articolo uscito su di me conteneva questa espressione, queste esatte parole: ‘Stupro di gruppo’. E la notizia sai qual era? Era una richiesta di archiviazione del pm che girava attorno a un fatto: un bacio ritenuto da chi denunciava non voluto... Solo che c’era un testimone oculare, un tassista, che ha raccontato la verità: un bacio consensuale. Ecco. Il pm chiedeva l’archiviazione, e un giornale titolava su di me e mia moglie: ‘Stupro di gruppo’. Stupro di gruppo! Ma ti rendi conto? Io non dormivo la notte. Ho fatto pensieri... pensieri molto brutti... Noi giornalisti maneggiamo la reputazione degli altri. E questo andrebbe fatto con grande senso di responsabilità”. E invece? “E invece non è così. Siamo irresponsabili. E non ci interroghiamo sull’enorme potere che abbiamo, anche di distruggere le persone. Bastava leggere le carte per capire la storia. Io l’ordine dei giornalisti su questa mia vicenda non l’ho sentito esprimersi. Come non ho sentito le associazioni che si battono per la libertà di informazione. La libertà di informazione non è solo libertà, ma anche responsabilità”. Dice così Trocchia, che è quello che in gergo  si definisce un “cagnaccio”, il giornalista che non molla mai. Uno di sinistra. Secondo alcuni persino forcaiolo.

 

“Ho lavorato in tv, conosco la logica dell’inchiesta a priori, quella per cui devi piegare la realtà alla tesi pregiudiziale. Ma non si può fare così”. Bisogna che una cosa del genere ti capiti, perché ci si rifletta? “Io ci avevo riflettuto anche prima, guarda. A volte noi giornalisti non consideriamo il dubbio come elemento centrale, chiave, del racconto. Il dubbio dovrebbe essere il motore nell’attività del giornalismo  giudiziario: se il giornalismo è inseguire in maniera forsennata una tesi, non è più giornalismo”. E cos’è? “Un’altra cosa”. 

 

Dice Nello Trocchia: “Le carte giudiziarie, le intercettazioni, non si usano per distruggere gli altri. Altrimenti saltano completamente le regole. Salta la professione. Qualche mese fa avevo una notizia: ho scoperto che un sottosegretario aveva una società a lui intestata a Londra. Che ho fatto? L’ho chiamato. E chiamandolo, e poi verificando, ho capito che si trattava di una truffa: la società non l’aveva aperta lui. Era una vittima. L’avrei potuta scrivere senza fare ulteriori controlli quella notizia, senza contestualizzarla, senza capirla, solo per sputtanarlo. Ma invece l’ho chiamato. Noi abbiamo il dovere di evitare gli errori sulle persone. Anche rinunciando a un pezzo che ci fa gola, se è necessario, se è giusto. Guarda, anche io ho fatto errori, e ci sono cose di cui mi pento. Quando ero più giovane, per esempio, mettevo molta enfasi nelle inchieste e nelle notizie sulle indagini. Ora non più. E’ sbagliato. Lo ripeto: le carte, le intercettazioni, non si usano per distruggere gli altri, sono uno strumento non un fine. Ma la verità è che noi giornalisti siamo una strana categoria”.

 

In che senso? “Parliamo molto degli altri, siamo informatissimi, ma poi non riflettiamo mai su noi stessi”. Il governo vuole vietare la pubblicazione delle intercettazioni, ci saranno i riassunti. Si risolve tutto? “Ma no. Non serve a niente. Chi ha i soldi si pagherà le spese legali continuando a pubblicare. E i riassunti saranno il modo per rendere ancora più ‘chirurgica’ e discrezionale la pubblicazione delle intercettazioni. Se sei intellettualmente disonesto, le potrai interpretare. Che hai risolto?”. Che non ci sarà più la famigerata intercettazione sulla “sguattera del Guatemala”, una cosa che non aveva nessuna giustificazione. Come non aveva nessun interesse pubblico, se non morboso, l’intercettazione tra l’ex ministro Sangiuliano e la moglie mandata in onda pochi giorni fa da “Report” su Rai3. Aldo Grasso sul Corriere l’ha definita “spazzatura” e “mascalzonata”. Tu che ne pensi? “Penso che Aldo Grasso sia un grande critico televisivo. Sangiuliano si è dimesso quattro mesi fa. O ci sono novità, pertinenti, o altrimenti giriamo sempre intorno allo stesso fatto. Su un dolore personale che invece andrebbe rispettato. Ma la soluzione non sono i divieti inutili. La risposta deve essere deontologica, deve risiedere in un sussulto professionale”. Figurati. Non pare che importi molto a nessuno. Specie a quelli che si occupano di giudiziaria o di inchieste. Quelli che insomma, Nello, fanno il tuo mestiere. “Penso che si facciano troppe poche inchieste e ci siano sempre meno giornalisti che rischiano per raccontare quello che il potere non vuole si sappia. Certo esiste l’incesto tra giornalisti e procure, tra giornalisti e politica. Lo so bene. Ma se non c’è una reazione dei giornalisti stessi, una presa di coscienza  non se ne esce di sicuro con una legge, con un ‘bavaglio’ ottuso”.

 

Cosa ti resta di questa vicenda? “Un dolore enorme. La consapevolezza che se non fossi stato una persona capace di difendersi, sarei stato triturato: psicologicamente e professionalmente. Finito. Distrutto. Anche perché i tempi della giustizia sono troppo lunghi. E poi un’altra cosa... complicata da dire”. Dilla. “La sacrosanta battaglia contro la violenza di genere può diventare feroce ideologia”. Giustizia sommaria? “Sì. Inoltre penso che ogni falsa denuncia sia un ostacolo per la battaglia alla violenza di genere. Guarda, l’espressione sorella, io ti credo, che si riferisce alla giusta necessità di tutelare sempre la donna, non può essere un atto di fede. Voglio dire questo: se credi e basta, può trasformarsi in una condanna a prescindere. Non è normale”. E’ fondamentalismo. “E poi in questa storia c’era anche un’altra ‘sorella’, se vogliamo dirla tutta. C’era Sara Giudice, mia moglie, che ha perso il lavoro. E infatti, assieme al dolore, resta anche questo. Resta il silenzio della Rai. Mia moglie ancora non lavora, non è stata chiamata dall’azienda che le aveva sospeso il contratto di collaborazione. Vorrei sapere se è una cosa da paese civile che a una persona venga tolto il lavoro per una richiesta di archiviazione”.

 

Di questa storia che ti è capitata non hai mai parlato prima di oggi. “Io non potevo parlare. Se avessi parlato, avrei violato il principio astratto e generale al quale credo: quello della vittimizzazione secondaria. Sarei stato accusato, anche se ingiustamente, di una cosa che trovo oscena. Quindi ho taciuto. Quindi ho scelto il silenzio. Ma mi aspettavo che qualcuno leggesse le carte e che in fondo parlasse per me. Perché nelle carte giudiziarie era tutto molto chiaro. Sono stato difeso solo da Selvaggia Lucarelli, Giuliano Ferrara e Filippo Facci”. Sei stato difeso anche da giornali che di solito sono super forcaioli. Qualcuno ha detto che è più facile difendere quelli di sinistra come te, gli amici. “Guarda, io non cercavo amici. Cercavo giornalisti. Professionisti che studiano un fatto, si informano, si fanno un’idea e ne scrivono onestamente. E invece sai cos’è successo? E’ successo che quel titolo osceno sulla mia vicenda, ‘Stupro di gruppo’, veniva ripreso letteralmente da una miriade di siti online. Con il copia e incolla. Senza che nessuno controllasse niente. Senza telefonate né verifiche. Nulla. Una notizia la si scrive, però dando la possibilità di replica. Nel mio caso ho visto omesse delle evidenze: hanno usato una richiesta di archiviazione come se fosse una sentenza di condanna. Questa è responsabilità? Questa è libertà di stampa? Sai perché nessuno faceva nemmeno una verifica o una telefonata? Anche perché bisogna fare veloce. Perché bisogna fare clic. Perché se non fai subito il pezzo copiandolo, senza nemmeno ragionare, Google ti punisce. E allora è evidente che questo è un modo malato di lavorare. Qua stiamo parlando della vita delle persone. E, a volte, non si chiamano Nello Trocchia, e per loro diventa insopportabile. Insostenibile”.

 

E allora se proprio vogliamo trarre una piccola morale non certo consolatoria da questa tua vicenda potremmo dire: altro che bavaglio, il problema sono i giornalisti? “Mettiamola così. Io penso che ci dobbiamo preoccupare dei bavagli denunciati dalle associazioni che difendono la libertà di stampa, ok, va bene, sì, ma forse ci dovremmo preoccupare ancora di più del conformismo e della pigrizia di molti, forse troppi giornalisti”.
 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.