il caso sala e non solo
Come reagire alle detenzioni arbitrarie degli Ayatollah
Repressione interna o “hostage diplomacy”, una pratica nella quale il regime iraniano eccelle, ma non è il solo. Urge creare strumenti sovranazionali ai quali le vittime possano ricorrere. Il ruolo dell’Italia e dell’Europa
Il caso di Cecilia Sala ha riportato alla ribalta il dilemma di come affrontare le detenzioni arbitrarie, una deprecabile pratica nella quale il regime degli Ayatollah eccelle sia riguardo alla repressione interna sia nei rapporti con altri stati. Recenti cronache hanno riportato la vicenda del diplomatico svedese e funzionario europeo, Johan Floderus, arrestato nell’aprile del 2022 all’aeroporto di Teheran, accusato di spionaggio per conto d’Israele e di essere colpevole di “Mofsed fel-Arz”, cioè di diffondere la corruzione sulla Terra. Difficile difendersi con gli strumenti del diritto da un’accusa così vaporosa, per non dire inverosimile. Floderus è stato liberato nel giugno 2024 in uno scambio con Hamid Nouri, un agente iraniano detenuto in Svezia con l’accusa di crimini contro l’umanità in quanto responsabile di centinaia di esecuzioni di prigionieri politici negli anni 80. C’è poi il caso di Olivier Vandecasteele, un operatore umanitario belga, arrestato nel febbraio 2022 con l’accusa di spionaggio e condannato a 40 anni di prigione e 74 frustate, e liberato dopo 455 giorni di carcere duro nel maggio 2023 in uno scambio con Assadolah Assadi, un ex diplomatico iraniano condannato dalla giustizia belga nel 2021 a 20 anni di prigione per aver programmato, senza riuscire a portarlo a termine, un attentato contro l’opposizione iraniana in Francia. La mobilitazione e la copertura mediatica furono fondamentali, sia in Belgio sia in Francia, per spingere il governo belga a trovare una base giuridica per lo scambio, nonostante i dissidenti iraniani residenti nei due paesi fossero contrari (pour cause!), come rischia di esserlo la diaspora iraniana in America sul caso Sala. Alla fine ci vollero il varo di un trattato di mutuo trasferimento dei prigionieri da parte del Parlamento belga e, dopo alcuni ricorsi, il via libera della Corte costituzionale.
Due classici casi di diplomazia – si fa per dire – degli ostaggi così come condotta, dal 1979 in poi, dalla Repubblica islamica dell’Iran. La disparità tra i profili degli ostaggi e degli individui oggetto di scambio è deprimente ma attualmente non esiste uno strumento sovranazionale per gestire casi di persone arbitrariamente detenute per ragioni politiche o vittime incolpevoli di ritorsioni tra stati. La questione centrale che si pone è l’impunità degli stati rispetto a diritti fondamentali sanciti da convenzioni internazionali spesso da loro stessi sottoscritte. Nei regimi autoritari o illiberali, tra i metodi per intimidire attivisti e oppositori, c’è, appunto, l’abuso del sistema giudiziario. La persecuzione giudiziaria rappresenta una forma insidiosa di oppressione perché co-opta l’autorità giudiziaria nel meccanismo repressivo dello stato: il potere giudiziario si asservisce all’autorità politica e diventa esso stesso strumento di repressione. Le incriminazioni possono variare da vaghe accuse di supposta interferenza con l’armonia sociale o l’ordine pubblico ad accuse di terrorismo, sovversione o crimini contro la sicurezza dello stato. I processi si svolgono solitamente a porte chiuse, per ragioni di “sicurezza nazionale”, e senza le opportune garanzie della difesa. In questi casi, la tortura e altre forme di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, sono all’ordine del giorno e gli “imputati” hanno la possibilità di ricorso solo appellandosi agli stessi giudici che hanno assecondato la procedura di cui sono vittime. In tale situazione, l’autorità giudiziaria cessa di svolgere il proprio ruolo in maniera indipendente e diventa il soggetto attuatore di procedimenti vessatori come la custodia cautelare prolungata, continui rinvii delle udienze, l’utilizzo di confessioni estorte, nuovi ed estemporanei capi d’imputazione e sentenze definitive spropositate.
Urge, quindi, creare strumenti sovranazionali ai quali le vittime possano ricorrere. Le detenzioni arbitrarie – come la pena di morte, le mutilazioni genitali femminili o i matrimoni forzati – sono un fenomeno planetario che può solo essere affrontato a livello multilaterale. L’Italia ha dato il proprio endorsement all’Iniziativa canadese sulle detenzioni arbitrarie nelle relazioni tra stati (2021) ma senza eccessivo trasporto o volontà di dare seguito in qualche modo all’individuazione di uno strumento multilaterale che possa, soprattutto, agire da deterrente. Oggi, gli stati continuano ad aspettare che cada loro una tegola in testa per negoziare, spesso con scambi sotto banco o triangolazioni inconfessabili, alimentando quindi il fenomeno anziché arginarlo. E, se da una parte occorre fare i conti con i casi individuali della hostage diplomacy, dall’altra ci sono decine di migliaia di detenuti politici arbitrariamente imprigionati dai propri governi autoritari. Un vero e proprio flagello: dalla Russia alla Turchia, dall’Egitto alla Bielorussia, dalla Birmania alla Cina, fino alla Tunisia di Kais Saied con il quale l’Unione europea, spinta da Meloni in persona, ha pensato bene di firmare un amichevole accordo di partenariato nel luglio 2023. L’Italia deve tornare a un ruolo virtuoso nelle organizzazioni internazionali, lavorando per l’affermazione di un ordine internazionale basato sulle regole e contrastando ogni tentativo di spostare l’equilibrio dei valori universali lontano dai principi della Carta delle Nazioni Unite. Effettivamente è molto chiedere a un governo come quello guidato da Meloni ma l’Italia e l’Unione europea dovrebbero ambire a diventare la spina nel fianco dei regimi autoritari, non i loro fiancheggiatori.