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Molestia collettiva

Le due parole da imparare per riconoscere gli orrori come quelli di Capodanno a Milano (anche tra i pm) 

Marina Terragni

Dieci minuti nelle mani di una cinquantina di maschi nordafricani e asiatici. Un'eternità, nel nome di una Taharrush gamea (molestia collettiva) che serve proprio ad annullare la volontà di una donna libera e a ristabilire il proprio dominio. Un fenomeno da riconoscere nella sua specificità

Si tratta di guardare le cose con le lenti giuste e a quanto pare gli inquirenti che indagano sulle molestie sessuali di Capodanno a Milano hanno inforcato occhiali buoni. Perché un conto sono due o tre ragazzotti alticci che infastidiscono una ragazza, un altro un gruppo di una cinquantina di maschi nordafricani e asiatici (così nel racconto di una delle 4 giovani belghe aggredite) che brandendo bandiere della Palestina, del Pakistan, dell’Iraq ti isolano e poi passano a palpeggiarti: primo cerchio, e poi secondo e terzo come prevede la sequenza rituale. Dieci minuti così, un’eternità, ha raccontato a “Diritto e Rovescio” Laura Barbier, la ragazza che ha denunciato, tutte quelle mani che ti frugano nelle parti intime. “Ho pensato: sto per morire. Tutto esulava dalla mia volontà”. Il Taharrush gamea (molestia collettiva) serve proprio a questo: ad annullare la tua volontà di donna libera e a ristabilire il proprio dominio e la propria identità, in continuità con gli insulti all’Italia e alle forze dell’ordine gridati in quella stessa piazza del Duomo.

Era già successo a 9 ragazze, sempre a Milano, durante il concertone di Capodanno 2021; idem nel giugno 2022, treno Peschiera del Garda-Milano, 5 ragazze molestate da una trentina di maschi africani e nordafricani al grido “qui le donne bianche non salgono”. In un video autoprodotto il predicatore salafita Ahmad Mahmoud Abdullah, noto come Abu Islam, lo dice con chiarezza: giusto stuprare le donne in piazza che “non hanno vergogna, non hanno paura”. Devono averne. Quelle donne sono “diavoli”, parlano come mostri. “Al 90 per cento crociate (cristiane, ndr), l’altro 10 per cento vedove senza nessuno che le controlli. Impara dalle donne musulmane”: la lezione è questa. La piazza di cui parla Abu Islam è piazza Tahir, Il Cairo: è lì che nel 2011, durante la primavera egiziana, si è strutturato il Taharrush gamea, forze dell’ordine e manifestanti hanno aggredito centinaia di donne. Non puoi combattere contro questo orrore se non la capisci per quello che è. Tra le prime occidentali a subire il trattamento, la giornalista CBS Sara Logan, in piazza Tahrir per un reportage: isolata dalla sua squadra è stata abusata da 200 uomini prima di essere salvata da un gruppo di donne.

“Mani che mi afferravano il seno, l’inguine, da dietro. Un uomo, un altro, un altro ancora. Urlo, penso che così si fermeranno, ma più urlavo e più il delirio aumentava. Ho pensato: sto per morire”. Nel 2013 è toccato a una giovane collega olandese, anche lei finita in ospedale come Logan. Da una decina d’anni, il Taharrush gamea è stato esportato in Europa. Primo episodio clamoroso a Colonia, notte di San Silvestro 2015: oltre 600 denunce di aggressioni sessuali a opera di un migliaio di giovani in maggioranza di origine araba e nordafricana, una piazza Tahir nel cuore dell’Europa (episodi analoghi anche ad Amburgo, Francoforte, Düsseldorf, Stoccarda). Uomini che rimettono le cose a posto, un lavoro che i maschi occidentali a quanto pare non fanno più abbastanza. Ma delle origini degli aggressori si parla a denti stretti. Anche sull’ultimo episodio milanese le cronache hanno esitato. Alice Schwarzer, storica femminista tedesca, ci scrive un libro-denuncia, “Der Schock – die Silvesternacht in Köln”. La polizia, dice, nascose l’origine dei sospetti.

Già dal 2008 nel Nord Reno-Westfalia, il land di Colonia, una circolare ministeriale raccomandava di non rendere nota l’origine etnica degli stupratori. Lo stesso è successo per anni in Svezia. Un cavallo di battaglia anche del femminismo woke contro le “Karen”, donne bianche privilegiate che accusano di violenza uomini poveri, preferibilmente migranti, “lacrime bianche” contro “poveri neri”. Ma in Renania-Vestfalia oggi hanno cambiato musica: nei rapporti del ministero dell’Interno si menziona esplicitamente il Taharrush gamea. Sarebbe buona cosa che anche il nostro Codice Rosso anti-violenza lo riconoscesse nella sua specificità. E che ci si pensasse bene quando si organizzano “concertoni” dove le ragazze milanesi ormai non osano più andare.
 

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