la riforma che non luccica
Controversie sulla Giustizia. Intervista a Bruti Liberati su magistratura, riforme e rischi
L’atto dovuto? No, c’è sempre una valutazione. I magistrati “non devono indagare i fenomeni sociali”. La separazione delle carriere? Dannosa. La terzietà c’è già. Il Bruti Liberati pensiero
L’atto “dovuto” dell’iscrizione nel registro degli indagati, feticcio di tanto giornalismo giudiziario e dogma incrollabile di molta parte della magistratura, per lui invece “non è mai automatico”, c’è sempre un aspetto di valutazione. Però il caso della comunicazione del procuratore Lo Voi ai membri del governo sulla base di un esposto “è esattamente il caso particolare in cui l’atto è davvero e inevitabilmente dovuto”. La separazione delle carriere è un danno per il sistema giudiziario, ma l’equilibrio reale tra accusa e difesa va garantito dal corretto funzionamento del processo. Sulle inchieste della procura di Milano per le ipotesi di reato in materia di edilizia premette subito di non voler commentare, essendo ex procuratore, come i cardinali emeriti. Ma indica l’elogio, inserito nel suo ultimo libro, della sostituta procuratrice di Prato, Laura Canovai, “secondo cui i magistrati non devono indagare i fenomeni”. Per la precisione: “Indagheremo solo i fatti concreti”, disse dopo l’alluvione del 2023, “non posso indagare il ciclone e non è detto che per forza ci sia una causa riferibile all’uomo”. Conversare con Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano, saggista e giurista acuminato, è una sfida interessante.
Quasi tutte le sue convinzioni cozzano con quelle sostenute da questo giornale (e va anche peggio per quelle sostenute dall’attuale governo), ma le motivazioni sono sempre lontane da certune grossolanità che caratterizzano in molti casi il dibattito, politico e giornalistico. E il risultato delle sue analisi è spesso condivisibile anche dai critici del potere giudiziario. Ad esempio sul debordare dannoso della magistratura nei fatti della politica: “Il lavoro dei pm è fortemente sotto pressione da parte dell’opinione pubblica. Io, ci tengo a ricordarlo, ho scritto nel 1993 – attenzione alla data – il mio primo commento su Mani pulite: ‘Non spetta alla magistratura risolvere i problemi politico-sociali, la magistratura non indaga fenomeni, ma deve indagare su responsabilità giuridiche personali, con le garanzie del processo’”.
Il suo più recente saggio ha per titolo “Pubblico ministero - Un protagonista controverso della giustizia” (Raffaello Cortina Editore) ed è una riflessione che vuole essere imparziale, anche tecnica, su una figura specifica del sistema della giustizia: “Il pm è la posizione più difficile, perché fa il primo passo nel percorso penale, quindi viene criticato se fa o anche se non fa. E’ fortemente sotto pressione. Nel sistema francese, ad esempio il pm è definito come il primo ‘gardien des libertées’, la figura che si frappone tra la polizia e il giudizio rispetto anche alla pressione dell’opinione pubblica”. Per questo lei ritiene che separarne la carriera dal corpo intero della magistratura possa indebolirlo? “Sì, e credo che la non separazione sia di maggiore garanzia per il cittadino”. C’è invece chi sostiene, e la riforma in corso segue questa idea, che per meglio delimitare il ruolo del pubblico ministero, l’accusa, non c’è di meglio che separarne la carriera da quelle dei giudici. La Costituzione parla di terzietà, e dal tempo della riforma Vassalli che ha introdotto il processo accusatorio molti sostengono questa divisione, che del resto esiste in altri paesi. A questa lettura Bruti Liberati oppone una serie di argomenti tecnico giuridici, prima che politici (ma ne ha anche di questi). “Perché sono contro la divisione delle carriere? Appunto perché, come scrivo nel libro, il pm deve avere questa ‘corazza’, mentre nei sistemi in cui c’è la separazione è più possibile una pressione da parte politica. Poi, questa storiella della separazione perché se no bevono il caffè insieme è assurda: tutti i giorni ci sono processi in cui il giudice smentisce l’accusa, e poi in appello spesso viene smentito il giudice di primo grado, e spesso la Cassazione smentisce tutti e tre. L’autonomia tra i due ordini esiste e funziona”.
Ci sono molte opinioni diverse, e autorevoli, opposte alla sua. Da Sabino Cassese, “l’indipendenza della magistratura, infine, non sarà piena finché vi saranno magistrati che non svolgono le due funzioni proprie dei magistrati, quella dell’accusa e quella del giudizio, con carriere parallele”. A Giovanni Falcone, che a Mario Pirani nel 1991, riferendosi proprio alla riforma Vassalli, diceva che il pm “nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice”; specificando al contempo di non essere “un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo”. Perché lei è convinto di avere ragione? “Per precisione, aggiungo che Falcone aveva una posizione diversa, era prima ancora a favore del pm all’americana, con fortissimo accentramento e, a quel livello, anche con un forte input politico. Ma la mia posizione si basa su altro. Il processo penale è basato su questo presupposto: le prove si raccolgono e si confrontano nel dibattimento, e questo segna l’uguaglianza tra accusa e difesa. Però questa uguaglianza è di tipo particolare, perché il dovere del difensore è trovare tutte le prove a difesa. Il pm invece ha un dovere di imparzialità, non deve trascurare nessuna prova”.
Quindi a suo avviso le due figure possono funzionare bene anche così? Lei ne fa una questione di professionalità, di “accountability” e deontologia. “Sì, inoltre trovo sbagliato insistere sulla cosiddetta ‘non terzietà’. Il problema sono le garanzie e le regole del processo, non la collocazione istituzionale del pubblico ministero”. Però i casi nei quali equilibrio e accountability mancano sono tanti. “Parlo per esperienza e dato statistico: qualcuno stima il 40 per cento, anche se è un po’ meno, di assoluzioni. In ogni caso, è evidente che i giudici non esitano a dare torto ai pm. Non è la colleganza che conta”. C’è poi la presunta sottomissione dei magistrati al potere politico. Condivide? “Quanto a questa a obiezione – posta anche da Panebianco qualche giorno fa – che nessuno voglia sottoporre i pm al potere politico… be’, quando poi Nordio esprime certi giudizi, è difficile da accettare”. Molti ritengono però che i cittadini sarebbero più garantiti. “Attenzione, non stiamo discutendo in una accademia astratta di separazione delle carriere, abbiamo un contesto. In molti paesi esiste una separazione delle carriere che inevitabilmente porta a una maggiore influenza del ministro della Giustizia. E questa influenza viene esercitata con grandissima discrezione. Ma da noi, possiamo aspettarci una simile discrezione?”.
Il suo è dunque anche un giudizio politico, non solo in punta di dottrina. “Non stiamo parlando in astratto, ma del disegno di legge costituzionale C 1917 Meloni-Nordio. E allora qui le mie obiezioni diventano radicali. Ad esempio, il punto dell’Alta corte di giustizia disciplinare. Che fu proposta nella Bicamerale D’Alema – una corte per tutte e tre le magistrature, ordinaria, Consiglio di stato e Corte dei conti. Non poteva esistere, perché non si possono unificare i sistemi disciplinari di magistrature così diverse. Allora perché riproporla oggi solo per la legislatura ordinaria? Prendo ad esempio la recente relazione del Procuratore generale della Cassazione, relativa al 2024: ci sono state 24 condanne disciplinari, due rimozioni, ma ci sono anche 8 ‘non doversi procedere per cessata appartenenza all’ordine giudiziario’, cioè magistrati usciti volontariamente prima di un procedimento. I procedimenti aperti erano circa il doppio: 50 e 50. Quindi il lassismo è smentito dai fatti”.
Lei critica anche l’idea del sorteggio dei membri del Csm. “Un Parlamento che si autodefinisce incapace di scegliere i propri rappresentati, a me pare una auto-umiliazione. E per i magistrati, peggio. La quotidianità del Csm è gestione di ordinaria amministrazione. E in questo non è vero che uno vale uno, perché sappiamo che in magistratura non tutti sono portati, ci sono ottimi giuristi che sono pessimi organizzatori del lavoro. Così come avere due Csm divisi, senza un canale di condivisione: non è logico se poi devi risolvere problemi che sono comuni”. Le alzate di scudi, plateali e irrituali, di parte della magistratura contro un disegno di riforma costituzionale – in sé perfettamente legittimo – non sono un eccesso di politicizzazione? “Possiamo discutere le manifestazioni all’anno giudiziario… Siamo nella società dell’immagine e la Costituzione era l’immagine che funzionava. Io lo avevo fatto come presidente Anm nel 2002, ma non condivido le uscite dall’aula, perché esiste un aspetto di ritualità che va rispettato. Ma certo non si può dire che fossero una ‘minoranza’ e che ci sia una maggioranza silenziosa invece avversa. E va tenuto presente che questa riforma cambia sostanzialmente l’assetto complessivo del sistema del governo della magistratura, si devitalizza totalmente il Csm”.
Sul caso Almasri il governo ha riferito in Parlamento. Facciamo un passo indietro, il caso Lo Voi. Lei ha sostenuto che è un atto dovuto, ma c’è chi autorevolmente afferma esattamente il contrario. “Guardi, un capitolo intero del libro è proprio contro lo sproposito dell’uso dell’atto dovuto, che viene invocato dai magistrati. L’atto dovuto di iscrizione degli indagati non è mai automatico. C’è solo un caso, con buona pace di Salvini, ed è quello del gioielliere che spara e uccide, perché lì c’è di mezzo una autopsia, eccetera. Quindi è davvero garanzia del gioielliere. Ma il resto non è mai automatico: né il se, né il quando né il dove. In certi casi si possono fare riscontri preventivi, iscrivendo al cosiddetto modello 45, con indagini su fonti aperte, e poi si dà notizia quasi contestualmente della richiesta di archiviazione”. Invece in questo caso? “E’ un caso molto particolare. Perché per proporre l’archiviazione occorre una cosa fondamentale: che il ministro della Giustizia dichiari ‘ho fatto questo, ho preso questa iniziativa per ragioni di tutela dell’interesse primario della nazione’. Perché altrimenti, astrattamente – a parte il peculato che è fragilissimo, inesistente – l’ipotesi del favoreggiamento si pone. Insomma: nonostante l’abuso dell’atto dovuto, questo è il caso in cui l’atto dovuto sussiste”.
Mercoledì è stato il giorno delle informative dei ministri Nordio e Piantedosi al Parlamento, è apparso chiaro che la vicenda Almastry è stata una scelta politica in ragione dell’interesse nazionale. Come giudica i loro interventi? “Lo ha detto molto chiaramente, nel suo preciso burocratese, il ministro dell’Interno (e per fortuna rimane una classe di prefetti di elevata qualificazione)”. E le ragioni addotte da Nordio? “Il ministro della Giustizia ha fatto tutti i pasticci possibili: si è attribuita una valutazione nel merito del mandato di arresto della Corte penale internazionale, che in questa fase gli è preclusa dallo Statuto della Corte, non ha attuato tempestivamente una interlocuzione con la Cpi, prevista dallo Statuto, se avesse ritenuto necessari chiarimenti e, soprattutto, ha lasciato trascorre il tempo senza dare alla Corte di Appello di Roma quella risposta che era stata richiesta”. Lei dunque evidenzia soprattutto una incapacità di gestione politica. “Se questa assunzione di responsabilità politica, in nome dell’interesse nazionale, vi fosse stata subito da parte del ministro della Giustizia la vicenda penale probabilmente non sarebbe nemmeno iniziata. Ora, a mio avviso, è aperta la strada per una archiviazione diretta da parte del Tribunale dei ministri. Chiuso, e mi auguro nei più brevi tempi possibili, il versante penale, rimane aperta la delicata questione dei rapporti del nostro paese con la Corte penale internazionale”.
Lasciamo il “porto delle nebbie”, torniamo a Milano. Dove difficilmente si può contestare che i pm stiano facendo indagini su “un fenomeno sociale” legato all’edilizia, attraverso proprie interpretazioni di leggi e regolamenti. L’ex procuratore Bruti Liberati mantiene l’impegno a non commentare, ma rimanda per analogia ad alcune riflessioni di carattere generale. “Ad esempio le indagini della procura di Bergamo sul Covid, tema che cito molto a lungo nel mio libro. Il procuratore di Bergamo, ottima persona, dice ‘be’ io comunque fornisco elementi per l’analisi scientifica’… No, la magistratura indaga reati, non ‘fornisce elementi’. Certo poi c’è una crescente pressione dell’opinione pubblica, ad esempio sui reati colposi. Prendiamo il caso della sindaca di Genova condannata in sostanza per non aver previsto l’alluvione, o il caso dell’ex ad di Ferrovie Moretti condannato per la strage di Viareggio. Io ho qualche perplessità, sono stato sempre per una assoluta restrizione dell’intervento penale. Allo stesso modo, non credo che la magistratura debba indagare su quelle che sono scelte di discrezionalità amministrativa delle amministrazioni locali. Il caso poi delle legislazioni urbanistiche è particolarmente complesso”. Forzature che, in generale, riguardano molti casi di indagini che spesso hanno avuto delle ricadute politiche, comprese dimissioni da cariche elettive. “Questo è vero, e io credo che l’etica politica la debba definire la politica. Abbiamo tanti casi in cui questo non è accaduto. Invece può accadere che sia disonorevole politicamente una cosa che non è reato, ma che non sia disonorevole una cosa che pure è reato, non di particolare rilevanza. Dimissioni o meno di un amministratore o di un politico devono essere scelte autonome della politica, con assunzione di responsabilità”.