Fabio Pinelli (Ansa)

L'analisi

La metamorfosi del pubblico ministero

Fabio Pinelli

Dagli anni Novanta, il pubblico ministero ha conosciuto una profonda trasformazione. L’equivoco dell’essere parte imparziale nel processo e la riforma della separazione delle carriere. L’analisi del vicepresidente del Csm

Viviamo un’epoca di grandi trasformazioni della società, dal punto di vista sociale, culturale, demografico, economico e, non da ultimo, degli stessi meccanismi di formazione del consenso e del modo di fare politica. Anche il diritto – che nella società si radica – è stato interessato da profondi mutamenti che, dagli anni Novanta del secolo scorso fino a oggi, hanno toccato in modo radicale il processo penale e il ruolo degli attori di questo processo. Ventuno magistrati uccisi da terrorismo e mafia, le conseguenze politiche delle inchieste sulle corruzioni nei primi anni Novanta, l’interesse nel mondo politico a utilizzare le inchieste penali per la lotta politica e del mondo giornalistico nel darne un connotato scandalistico, hanno consegnato a una parte della magistratura il convincimento di potersi costituire come protettrice permanente della Repubblica e di dover conseguentemente svolgere una missione di pulizia morale del Paese. A partire da quegli anni, si manifestò una sorta di entusiasmo punitivo di massa, sollecitato dagli spiriti animali dell’antipolitica: demagogie, populismi, sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che fosse pubblico, beatificazione delle procure, il processo e la pena come lavacri per l’intera società. 

La comunicazione tv, specie quella delle reti commerciali, attivava l’entusiasmo punitivo mostrando gabbie, manette e cortei plaudenti ai pubblici ministeri e alla giustizia penale. Questo convincimento fece ritenere a taluni magistrati che non dovessero limitarsi ad accertare eventuali responsabilità individuali, ma semmai essere titolari di un controllo diffuso di legalità, inteso come verifica preventiva che la legalità non fosse stata in ipotesi violata. 


Ma attribuire al magistrato il controllo di legalità significa trasferire al potere giudiziario la sovranità propria del potere politico. Il controllo della legalità è, secondo i casi, compito della politica, della pubblica amministrazione e della polizia; compito del magistrato invece è, come abbiamo detto, l’accertamento delle responsabilità individuali. Tutte le indagini penali, anche quelle meno rilevanti, hanno un carattere totalizzante per la loro gravità simbolica: la superiorità infinita dell’inquirente rispetto all’inquisito, un nucleo etico, risalente all’antica confusione tra reato e peccato, il potere di stabilire il confine tra libertà e prigionia, la sacralizzazione delle vittime che chiedono, a volte in modo spettacolare, una giustizia modellata sulle proprie aspettative. Nella parte della magistratura meno avvertita dei limiti costituzionali delle proprie funzioni, il clima di consenso dell’opinione pubblica e di annichilimento della politica generò l’idea di poter svolgere una funzione salvifica, sotto il grande ombrello (così grande da perderne i limiti e i confini) del codice penale. Nella società cominciò a farsi strada l’idea che il magistrato potesse davvero sostituire il politico nel governo del paese. I mezzi di comunicazione sfruttarono la popolarità delle inchieste, per farne argomento principe delle prime pagine e dei talk show. Nel mondo politico le inchieste cominciarono a essere utilizzate nella lotta contro l’avversario. Attorno alla magistratura e alle sue indagini cominciò ad aggregarsi, verso la metà degli anni Novanta, una domanda di incidenza politica, che smascherasse le malefatte, vere o presunte, delle classi dirigenti. Questa domanda si radicò in parte della società, parte dei mezzi di comunicazione e parte dello stesso mondo politico. 

Quello che accade dopo è frutto del radicamento di quella domanda. La figura processuale che a seguito di tutto ciò si è modificata in questi anni è proprio quella del pubblico ministero. Il pubblico ministero è diventato infatti un polo di attrazione. Alle contingenze storiche, si è poi accompagnato un mutamento del modello strutturale del processo penale avvenuto con la riforma Vassalli. Questa riforma, infatti, ha avuto certamente il pregio – almeno nell’intento del legislatore – di mettere al centro del processo penale il contraddittorio nella formazione della prova e la parità delle armi tra accusa e difesa, principi che sarebbero poi stati costituzionalizzati nel 1999 con la legge costituzionale sul “giusto processo” che ha riscritto l’articolo 111 della Costituzione. Tuttavia, essa ha portato con sé anche l’idea di una metamorfosi del pm. Una sorta di mutamento di specie del magistrato della pubblica accusa, con una visione del processo tendenzialmente come confronto di parti avversarie, che deve inevitabilmente sfociare in un risultato della contesa: la vittoria o la sconfitta. Nel processo come contesa vince il più bravo, non necessariamente chi ha ragione, e la verità storica degli accadimenti resta un attore non partecipante, la sussumibilità della condotta nella fattispecie tipica, una sfumatura interpretativa. A questo progressivo mutamento di ruolo nel processo del pubblico ministero si è poi ulteriormente accompagnata la convergente crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale, divenuta una vera e propria ipocrisia costituzionale, impraticabile nella concreta vita giudiziaria, che ha finito per nascondere le scelte discrezionali compiute dalla pubblica accusa su an e quando della persecuzione penale. 

Il pubblico ministero ha iniziato a essere avvertito come dominus incontrollato delle stesse politiche criminali del paese e dall’esterno si è cominciato a guardare con maggiore preoccupazione e diffidenza il potere assunto dalla sua figura. La crisi reputazionale della politica ha iniziato a interessare anche la magistratura. Troppe volte, in certa magistratura è emersa la prevalenza della dimensione del potere, sulla dimensione del servizio e questo i cittadini lo hanno percepito. Non è quindi un caso che oggi il pubblico ministero sia divenuto il vero e proprio punto di attrazione del dibattito sulla giustizia penale. E’ inevitabile, per certi aspetti fisiologico, che su riforme della portata di quella in discussione, che impattano sulla stessa architettura costituzionale, si sviluppi una dialettica di opinioni contrapposte. Essa è assai utile per non deflettere dai fondamentali princìpi di autonomia e di indipendenza della magistratura, nella doverosa e contestuale comprensione, però, delle esigenze che la riforma intende perseguire: l’idea che la distinzione funzionale tra pubblico ministero e giudice debba trovare un corrispettivo anche sul piano di una distinzione ordinamentale, al fine di una più compiuta attuazione dei princìpi costituzionali di parità delle armi tra accusa e difesa e di terzietà del giudice. Le ragioni storiche che ho sommariamente tratteggiato, e che possono al più essere un contributo per ricostruire l’evolversi di certe dinamiche sociali, non devono però mai divenire motore di istanze rivendicative incarnate dai cittadini nei confronti della magistratura, in un clima che non dà merito del giusto riconoscimento morale e sociale, dell’enorme lavoro compiuto quotidianamente dai magistrati al servizio del paese. La delegittimazione della magistratura mina alla radice la salute della nostra democrazia. 

Tutti noi abbiamo avuto consapevolezza nel tempo, di quale disastro sociale abbia comportato la demolizione della politica, una sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che fosse pubblico e contenesse la parola “politica”. L’invocazione alla necessità di aprire “il Parlamento come una scatoletta di tonno”. La polverizzazione dei partiti politici come luoghi di crescita, di condivisione di valori, di ideali, di prospettiva del mondo, di confronto per i giovani, è stato un enorme danno per la democrazia. Ha comportato una carenza di partecipazione dei cittadini alla vita delle comunità, ha aumentato il senso di sfiducia nelle istituzioni, ha favorito una democrazia per delega e incentivato i leaderismi. Il sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto di Roma ha non solo puntualizzato che è in discussione una riforma della giustizia per i cittadini e non contro la magistratura, ma ha aperto al dialogo e invitato la magistratura a non perdere l’opportunità di un confronto ancorché critico sui contenuti. La magistratura – mi permetto – accolga questo invito. Ne va della salute della nostra democrazia, che ciascuno di noi ha il dovere di proteggere. Oggi il 60 per cento della popolazione mondiale è guidata da governi non democratici. La democrazia non è scontata e non si trova in natura. E non esiste democrazia senza una magistratura libera, competente, autorevole, autonoma e indipendente. L’“equilibrio” deve essere ricercato non solo nei contenuti delle soluzioni riformiste, ma anche nella forma del dibattito su queste, nei limiti delle attribuzioni di ciascuno.

E’ fondamentale che ogni sforzo riformatore e ogni contributo di scienza giuridica e di competenza professionale sia volto a costruire un sistema che, a fronte della congenita asimmetria strutturale del processo penale, attribuisca ad accusa e difesa equivalenti opportunità di influire sul convincimento giudiziale. Ciò può avvenire solo riconoscendo all’accusato diritti per recuperare lo svantaggio iniziale nella formazione della prova, nella consapevolezza che il pubblico ministero, a un certo punto del procedimento, è divenuto irrimediabilmente “parte”. Non si può infatti concentrare l’attenzione solamente sulla pubblica accusa, perché è dagli atteggiamenti interpretativi e valutativi del giudicante che dipendono le più importanti criticità in materia di misure cautelari, rispetto alle quali non pare naturale che faccia notizia, come accaduto anche recentemente, quando il giudice per le indagini preliminari non accoglie la richiesta del pubblico ministero. Allo stesso modo è opportuno metabolizzare che proprio dagli atteggiamenti interpretativi e valutativi del giudice dipenderà la sorte dei rimedi che la riforma Cartabia ha approntato sui passati difetti di filtro dell’udienza preliminare. Condividiamo tutti insieme, politica, magistratura e avvocatura, la riflessione di una giustizia per i cittadini, di un diritto penale per i cittadini. Come dice Massimo Donini, “poteri divisi ma saperi condivisi”. L’obiettivo è chiaro e riguarda ciascuno di noi: come diceva Seneca, non esiste alcun vento favorevole per chi non sa a quale porto vuole approdare.

Fabio Pinelli è vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

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