
(foto d'archivio Ansa)
Femminicidio, o il diritto penale della propaganda
Perché l'ultimo intervento del governo, che vuole mandare all'opinione pubblica un messaggio che va ben oltre il processo, iscrive anche la destra al campo del progressismo penale
Alla fine ci siamo arrivati. Troppo forte era stata in questi anni la rappresentazione mediatica della violenza sulle donne perché chi vive di consenso potesse astenersi dal proporre un intervento di carattere simbolico. Solo pochi mesi fa, del resto, Filippo Turetta era stato condannato all’ergastolo a furor di popolo, mentre il suo avvocato diveniva contestualmente oggetto di minacce di vario genere, e già allora si era chiaramente avvertito che un altro argine era destinato a essere piegato: per l’opinione pubblica era ormai necessario che in simili casi la comminatoria dell’ergastolo divenisse automatica, che qualsiasi spazio di valutazione per altri profili del fatto fosse definitivamente soppresso.
Se verrà approvato il disegno di legge sull’aggravante dell’odio di genere, varato venerdì dal Consiglio dei ministri e probabilmente apprezzato anche dall’opposizione, questo risultato potrà dirsi raggiunto: la parola femminicidio farà definitivamente rima con ergastolo. Lascio volentieri ad altri (sociologi, psicologi o opinionisti televisivi) l’interpretazione dell’odio di genere, perché sinceramente non saprei dare alcun contributo. Sarebbe stato forse più semplice parlare dell’omicidio di una donna da parte del marito, del fidanzato o dell’amante, evitando di ricorrere a criteri psicologici che presentano evidenti profili di indeterminatezza. Ma sul piano politico non sarebbe stato probabilmente lo stesso, perché lo scopo di un simile intervento normativo non è quello di parametrare la sanzione a una maggior gravità del fatto, quanto piuttosto di stigmatizzare – con un simile giudizio – alcuni dei tratti negativi ritenuti caratteristici dell’attuale società, spesso definiti attraverso la suggestiva evocazione del “patriarcato”.
La vita e la libertà delle persone sono beni da tutelare sempre, a prescindere dalle stagioni politiche, dalle caratteristiche della vittima o dall’interpretazione psico-sociale dell’agire dell’assassino. Fra tutte le norme incriminatrici, quella che riguarda l’omicidio volontario è per questo la più semplice in assoluto, mentre le numerose aggravanti esistenti già conducono comunemente, nei casi più gravi, alla comminatoria dell’ergastolo. Se si ritiene di introdurre un simile richiamo all’odio di genere è proprio perché si vuole mandare all’opinione pubblica un messaggio che va ben oltre il processo penale.
Il problema è che quando il diritto penale diventa strumento di consenso, come avviene da troppo tempo in Italia, la sua funzione viene inevitabilmente snaturata per ridar vita all’immarcescibile figura del capro espiatorio. Lo ha fatto in talune occasioni la magistratura, forzando i presupposti della responsabilità penale o valorizzando con condanne esemplari determinate istanze politiche, ma ha poi iniziato a farlo sempre più spesso il legislatore, senza distinzione di colori politici, non appena si è reso conto di poter utilizzare lui stesso una così straordinaria leva di consenso a costo zero. Fra politici corrotti, imprenditori spregiudicati e uomini violenti ciascuno può scegliere il capro espiatorio che più gli aggrada, ma lo spirito del populismo penale rimane sempre lo stesso. Comminare un ergastolo a un giovane assassino, irrogare una pena detentiva elevata per una accusa di corruzione o condannare un imprenditore per un disastro per lui imprevedibile sono tutte scelte che vogliono porre la sanzione penale a servizio di un ideale di progresso, trasformando la condanna dell’imputato in un giudizio di valore etico-sociale. E’ questo il grande inganno dei nostri tempi, l’idea che le battaglie politiche non debbano passare attraverso la faticosa ricerca degli interventi riformatori ritenuti di volta in volta più adeguati, tenendo conto delle diverse posizioni in campo, ma da una ferma condanna morale di chi viene di volta in volta individuato (a torto o a ragione) come possibile capro espiatorio.
E talvolta, anche solo di chi si permette di avanzare dei dubbi sull’idea di progresso posta a fondamento di quella battaglia. Da qualche giorno anche la destra italiana è salita definitivamente a bordo del progressismo penale, lasciando per una volta in pace i manifestanti, i detenuti e gli immigrati clandestini.