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l'analisi

Tutelare i migranti e l'equilibrio dei poteri si può. Appunti per le toghe

Pier Luigi Portaluri

Solo in Italia i giudici disapplicano i provvedimenti di designazione. Negli altri stati dell'Unione europea le tecniche di controllo giurisdizionale su queste scelte governative riescono ad assicurare la protezione del migrante e la separazione dei poteri 

Più di cent’anni da quando Fritz Fleiner, ottimo giurista tedesco, diceva che non si spara ai passeri con i cannoni: occorre misura e proporzionalità. Se proprio si deve, basta un fucile. A meno che il vero obiettivo da colpire non sia il povero uccellino, ma qualcos’altro di ben più grosso. Nella vicenda “migranti in Albania”, segnata dalle disapplicazioni giurisdizionali delle designazioni governative sui paesi sicuri (anche se fatte con legge), e dalla rimessione della questione alla Corte di giustizia, il “dubbio dell’uccellino” è nato subito. Qualche giorno fa si è svolta l’udienza davanti alla Corte, e quel sospetto s’è rafforzato. E’ emerso che solo in Italia i giudici disapplicano i provvedimenti di designazione. Negli altri stati Ue le tecniche del controllo giurisdizionale su queste scelte governative sono diverse, e riescono ad assicurare nello stesso tempo la protezione del migrante e la separazione dei poteri. Nessuno dubita – sia chiaro – che ogni giudice “nazionale” (italiano, francese, eccetera) abbia, in generale, il potere di disapplicare una legge contraria al diritto dell’Unione europea. Il punto è un altro. E’ che in questa materia la disapplicazione è, di regola, uno strumento non solo inutile, ma anche insidioso. Per semplificare al massimo, le ipotesi sono due. 

Primo caso. Il paese di provenienza è stato designato dal governo come sicuro, ma il richiedente protezione riesce comunque a dimostrare al giudice che “a causa della sua situazione particolare” – così dice la direttiva Ue – vi sono validi motivi per non ritenere sicuro quel paese nei confronti della sua persona. Qui il giudice non può e non deve disapplicare nulla: invece può e deve limitarsi – come quella direttiva gli impone – a considerare i fattori di pericolo riferibili al singolo migrante, eventualmente accordando la tutela domandatagli. In sintesi: la designazione resta in piedi e il migrante è salvaguardato.

Secondo caso. Il paese di provenienza del singolo migrante è stato designato dal governo come sicuro, ma il giudice della protezione ha il dubbio che quella scelta legislativa abbia violato i criteri stabiliti dalla direttiva per procedere a una tale qualificazione. Semplice anche qui: un togato ben attento a non esondare dagli argini che inalveano il suo potere si limiterà a investire dell’affare la Corte costituzionale. Spetterà a essa decidere se il governo abbia rispettato o meno le regole europee sulla designazione di un paese come sicuro.

Se la Consulta dovesse essere in linea con l’opinione del giudice che si è rivolto a essa, cancellerebbe la legge di designazione, che non sarebbe più applicabile nei confronti di nessun migrante. Nessuna disapplicazione, quindi, nemmeno in questo caso. Possiamo forse aggiungerne un terzo, che però deve essere considerato del tutto residuale: l’unico in cui vi sarebbe spazio per la disapplicazione. Si verifica – uso le parole della Cassazione – quando il giudice “è chiamato a verificare, in ipotesi limite, se la valutazione ministeriale abbia varcato i confini esterni della ragionevolezza e sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o se la relativa designazione sia divenuta, ictu oculi, non più rispondente alla situazione reale (come risultante, ad esempio, dalle univoche ed evidenti fonti di informazione affidabili ed aggiornate sul paese di origine del richiedente)”. Un’ipotesi davvero estrema, dunque: il contrario della postura assunta dai nostri giudici (da quello romano in poi), i quali hanno sindacato la designazione di paese sicuro senza verificare se essa fosse assolutamente irrazionale. Insomma, garantire protezione ai migranti è possibile esercitando le “virtù passive” di cui parlava Alexander Bickel nel lontano 1962: che consistono nell’assicurare tutela giurisdizionale sforzandosi però – e al massimo grado – di non mettere in crisi gli equilibri relazionali col potere politico. Perché i giudici italiani non hanno sinora praticato a sufficienza queste virtù, pur così alte e nobili?