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giustizia
La bulimia punitiva aumenterà il consenso, ma non serve a niente
Più reati e più pene, tanto più se privi di comprovabile giustificazione, accrescono il potere dei pubblici ministeri e a ingolfano la macchina giudiziaria e gli uffici della magistratura di sorveglianza, oltre a provocare inutili sofferenze ed effetti dannosi di varia natura, non solo alle persone sottoposte a pena ma anche alle loro famiglie
Una premessa. Interpellato tra altri sulla sorprendente e spericolata bocciatura da parte di Delmastro della riforma delle carriere come concepita dal guardasigilli Nordio, il vice-presidente della Camera Giorgio Mulè ha dichiarato all’intervistatore (Il Fatto del 15 marzo): “Sapesse quante cose a me non piacciono del governo, della deriva panpenalistica in giù, ma noi le votiamo per lealtà. Si chiamano compromessi e compensazioni”. Ho motivo di presumere che, tra gli esponenti di Forza Italia, non sia soltanto Mulè a non gradire l’alluvione populista di nuove incriminazioni e nuovi aumenti di pena che, per principale, impulso di Fratelli d’Italia va ingrossando il già mastodontico e malconcio corpaccione della legislazione penale nel nostro paese. Ma questo sgradimento rimane platonico, dal momento che non si traduce in concrete modalità di opposizione dura e intransigente: calare la testa, sia pure a malincuore, al panpenalismo diventa un costo che si è disposti a pagare per lealtà governativa. Più precisamente, in nome di una lealtà che non è motivata da una comunanza di principi e valori o da una condivisione di programmi, bensì che finisce con l’essere imposta dalla volontà di stare comunque al governo per condividerne il potere decisorio e conseguire così, in una logica di scambio, obiettivi che stanno molto a cuore (come ad esempio la riforma delle carriere dei magistrati richiesta, appunto, in particolare da Forza Italia) alla propria parte politica.
Tutto ciò sorprende? Sappiamo bene, e la politologia più realista ce lo conferma da tempo, che la politica tende per quasi naturale inclinazione ad agire sulla base di mediazioni, compromessi e do ut des più o meno espliciti o sotterranei. Ma è pur vero che l’utilitarismo di parte può risultare cinico, e persino socialmente dannoso, se non incontra limiti specie in alcuni ambiti. Orbene, ritengo – e non credo soltanto per specializzazione o deformazione professionale – che, tra i settori nei quali le decisioni politiche dovrebbero obbedire il meno possibile a calcoli egoistici, rientri non ultimo quello dei reati e delle pene. La bulimia punitiva strumentale al consenso è, per lo più, priva di reale efficacia preventiva e destinata a una prevalente funzione simbolica. Una penalizzazione invasiva e straripante è illiberale, se non tout court autoritaria: cosa che, purtroppo, non viene percepita dalla maggioranza dei cittadini anche perché, come non si stanca di rilevare Angelo Panebianco, la cultura politica italiana è tradizionalmente priva di “anticorpi liberali”. Più reati e più pene, tanto più se privi di comprovabile giustificazione, oltre ad accrescere il potere dei pubblici ministeri (in contraddizione con la riforma delle carriere, che tenderebbe in vece a limitarlo!) e a ingolfare ulteriormente la macchina giudiziaria e gli uffici della magistratura di sorveglianza, finiscono – e queste sono le conseguenze più preoccupanti – col provocare inutili sofferenze ed effetti dannosi di varia natura non solo alle persone in carne e ossa sottoposte a pena ma anche alle loro famiglie. Senza contare lo spreco di risorse economiche e umane necessarie per gestire l’apparato punitivo e che, piuttosto, andrebbero meglio destinate a strumenti di intervento di ben altra natura.
Eppure, la consapevolezza dell’inutilità o dannosità del troppo punire emerge qua e là sullo stesso versante politico. Ha ad esempio affermato Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, in una intervista rilasciata a questo giornale il 17 marzo: “Le pene stanno smarrendo le proprie funzioni, travolte da una valanga di fattispecie, populismo penale, assenza di alternative rispetto alla carcerazione, poveri cristi in attesa di giudizio per reati minori e in condizioni carcerarie disumane”. Ma il punto è passare da una consapevolezza teorica a battaglie concrete e credibili contro la deriva punitivista. Corresponsabili, sia pure in misura diversa, di averla assecondata o non contrastata sono anche le forze progressiste, incluso il Pd, che hanno non di rado nel passato contribuito a utilizzare il penale come rimedio urgente o tappabuchi per far fronte a mali sociali piccoli o grandi, che sarebbe stato più difficile e costoso contrastare con altri mezzi. Come professori di diritto penale, oltre ad analizzare e criticare gli scadenti mal congegnati e superflui prodotti confezionati quasi a getto continuo dalla fabbrica legislativa, dovremmo – auspicherei – farci maggiormente carico di altri due compiti. Per un verso, dovremmo diventare un po’ politologi e sociologi: per approfondire l’indagine sulle cause e le ragioni non solo politiche, ma prima ancora psicosociali per cui il punire – per dirla con Didier Fassin – è divenuto una sorta di passione contemporanea. Per altro verso, dovremmo impegnarci di più in un’azione di pedagogia collettiva, volta a spiegare al grosso pubblico perché l’impiego delle pene può risultare un rimedio inefficace, illusorio e addirittura controproducente. Confido che alcuni professori e studiosi, come si desume da loro interventi anche sulla stampa, siano oggi davvero disposti a incamminarsi lungo le due direzioni auspicate.