Una veduta del Palazzo di giustizia di Torino (foto LaPresse) 

il caso

Indagini flop, agenti fuori controllo, fughe di notizie. Inchiesta sulle stranezze della procura di Torino

Ermes Antonucci

Dagli atti giudiziari emerge un quadro preoccupante attorno alla procura torinese, a partire dall'esistenza di una "sottosezione" della polizia giudiziaria che sembra non rispondere a nessuno. Con corvi che divulgano materiale secretato e pm poco propensi a fare chiarezza

La procura di Torino è sempre più spesso al centro delle cronache giudiziarie e politiche, soprattutto per i frequenti fallimenti delle inchieste condotte da alcuni magistrati. Sono diventate ormai celebri quelli del pm Gianfranco Colace. E’ stato lui ad accusare l’ex governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, gli ex sindaci Chiara Appendino e Piero Fassino, più diversi assessori, di inquinamento ambientale colposo in città (risultato: sono stati tutti prosciolti in udienza predibattimentale). E’ stato lui ad accusare gli ex vertici del Salone del libro di Torino, tra cui Fassino e l’ex assessore regionale alla cultura Antonella Parigi, di svariate irregolarità negli appalti (risultato: sono stati assolti dopo undici anni). E’ stato sempre Colace a intercettare illecitamente per tre anni 500 volte l’allora senatore Stefano Esposito senza autorizzazione del Parlamento. Risultato: la condotta è stata censurata dalla Corte costituzionale, Colace è ora sotto procedimento disciplinare al Csm (sentenza attesa martedì prossimo) ed Esposito è stato prosciolto. E’ stato lui ad accusare venticinque tra i massimi professionisti del mondo della psichiatria di Torino di aver truccato dei concorsi pubblici (risultato: sono stati prosciolti dopo sei anni). E’ stato lui ad accusare di falso elettorale il deputato leghista Riccardo Molinari (risultato: assolto). E l’elenco potrebbe continuare. Dietro queste vicende, però, si nasconde una realtà ancora inesplorata, che riguarda la polizia giudiziaria al servizio della procura torinese, in particolare il nucleo dell’Arma dei Carabinieri. Il Foglio è venuto in possesso di atti giudiziari (pubblici o debitamente depositati), che disegnano un quadro a dir poco preoccupante. Atti dai quali emerge l’esistenza di una sorta di “cellula impazzita” nella polizia giudiziaria torinese che sembra non rispondere a nessuno, unita a indagini segnate da fughe di notizie, pubblici ufficiali accusati di essere “corvi”, faide interne, scarsa volontà dei pubblici ministeri di fare chiarezza.

 

Il primo dato allarmante riguarda proprio l’esistenza di una “sottosezione” (così l’ha definita uno dei diretti interessati, come vedremo) della polizia giudiziaria nella procura di Torino che da anni sembra agire con criteri a dir poco discutibili. A rivelarne l’esistenza è stato un maresciallo dei Carabinieri, Giuseppe Carboni, fino al 2018 applicato proprio alla polizia giudiziaria di Torino, oggi accusato di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio in un processo molto vasto che vede come principale imputato Flavio Boraso, ex direttore generale dell’Asl Torino 3, accusato di corruzione, turbativa d’asta e falso. Ascoltato in dibattimento lo scorso 4 febbraio, per chiarire le sue condotte e in particolare i rapporti con Boraso, Carboni ha riferito: “Io all’epoca facevo servizio presso la sezione di polizia giudiziaria del tribunale di Torino, quale addetto alla sezione. Non mi trovavo assegnato ad alcun pm ma avevamo costituito un gruppo di lavoro nel quale tutti i componenti della sottosezione, così come veniva definita, venivano impiegati in attività comunque legate a deleghe da parte dell’autorità giudiziaria”. Chiamato dal presidente del collegio giudicante a chiarire chi facesse parte della “sottosezione”, Carboni ha risposto: “Io, l’appuntato Massimo Inglese, il maresciallo Giuseppe Campus e l’appuntato Andrea Siri, con il coordinamento del colonnello Luigi Isacchini”. 

 

La creazione di una sottosezione della polizia giudiziaria non si basa su alcun fondamento legislativo e giuridico. Ma ancora più incredibile è ciò che riferisce Carboni sull’attività svolta in quell’occasione dalla “sottosezione”: tra aprile e maggio 2017 il procuratore aggiunto Andrea Beconi sulla base di un esposto delegò Carboni e i suoi colleghi a svolgere accertamenti per un’ipotesi di calunnia ai danni di un ingegnere (Giuseppe Inzerillo), ma la “sottosezione” di pg decise di cominciare a svolgere verifiche per una presunta corruzione in una gara che era stata bandita dall’Asl Torino 5, con tanto di realizzazione di intercettazioni telefoniche. Una decisione “contraddittoria” rispetto alla delega ricevuta dal pm, come nota la giudice a latere Federica Florio, che a Carboni chiede: “Volevo capire se avete deciso di fare un’attività di indagine per conto vostro, cioè su iniziativa. Ma se il presupposto del dottor Beconi era approfondire le eventuali ritorsioni nei confronti di Inzirillo allora perché indagare sull’ipotesi corruttiva nella commissione di gara?”. Carboni risponde: “Perché la vicenda dell’ingegnere Inzerillo si inseriva in un contesto investigativo molto più ampio, molto più articolato, che ci aveva portato a generare un’annotazione di polizia giudiziaria depositandola e venendo essa assegnata al dottor Gianoglio; cioè siccome quella materia poteva essere legata alla vicenda originaria del dottor Gianoglio, (…) poteva essere in qualche modo vicina a quell’attività lì, avevamo pensato di sfruttare, questo forse è il termine giusto, quella opportunità che era arrivata attraverso l’esposto per cercare di trovare un qualcosa in più tale da far partire poi l’indagine, come spesso capita, come spesso avviene, col dottor Gianoglio”. 

 

Insomma, Carboni spiega chiaramente che la sottosezione decise di “sfruttare l’opportunità” offerta dall’esposto contro Inzerillo per svolgere indagini che andavano in una direzione diversa da quella indicata dal pm Beconi, ma che invece rientravano in un filone di indagine portato avanti da un altro pm, Gianoglio. Carboni specifica che quando arrivò il momento di svolgere le tanto agognate intercettazioni, la sottosezione ottenne il via libera del pm Beconi, che quindi si piegò alla nuova direzione di indagine impostata dalla stessa sottosezione. E pensare che il codice di procedura penale stabilisce in modo chiaro che è il pubblico ministero a dirigere le indagini e a disporre direttamente della polizia giudiziaria (articolo 327). L’indagine alla fine finirà nelle mani del pm Gianfranco Colace, con cui, spiega Carboni, “stavamo lavorando in maniera importante su fascicoli estremamente delicati”. Il riferimento indiretto è all’inchiesta “Bigliettopoli” nei confronti dell’imprenditore Giulio Muttoni, da cui poi sarebbe nato anche il filone di indagine nei confronti di Esposito, ma anche all’indagine sul Salone del libro, a quella sul Palavela e a molte altre. Tutte svolte con il coordinamento del colonnello Isacchini, responsabile della sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri.

 

Il destino ha voluto che, mentre Carboni con i colleghi della “sottosezione” indirizzava l’iniziale indagine per calunnia verso altri lidi, nel 2018 proprio Carboni venisse intercettato nel corso di un’indagine condotta dalla Guardia di Finanza nei confronti di Boraso, direttore generale dell’Asl Torino 3, con l’ipotesi di turbativa d’asta. Da qui è nata l’accusa per Carboni di favoreggiamento e di rivelazione di segreto d’ufficio. L’indagine, poi affidata a Colace, è stata chiusa dal pm soltanto nel 2022, cioè quattro anni dopo. Nel 2023 c’è stato il rinvio a giudizio e ora sia Boraso sia Carboni si ritrovano a processo.

 

Quanto emerso fa sorgere inevitabili domande: questa “sottosezione” di polizia giudiziaria, non prevista da alcuna legge o regolamento interno, esiste ancora? Se sì, a chi risponde e quale scopo persegue? Non sarebbe opportuno da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio disporre un’ispezione alla procura di Torino? E il Consiglio superiore della magistratura non ha nulla da dire?

 

L’impressione, dall’esterno, è che questa sottosezione assomigli a un cavo elettrico: chi lo tocca muore, almeno in senso figurato. Ne sanno qualcosa l’ex pm di Torino Andrea Padalino e gli ufficiali di polizia giudiziaria che lo supportavano nel suo lavoro. E’ sufficiente ricordare una vicenda. Tra l’8 e il 9 luglio 2017 dai locali dell’ex carcere “Le Nuove”, ora sede decentrata del Palazzo di giustizia, vennero rubati due hard disk che contenevano i dati di entrate e uscite dei dipendenti del Palagiustizia. I primi a intervenire sul posto furono i due ufficiali dei Carabinieri assegnati alla polizia giudiziaria Domenico Pio e Nicola Di Piero, che, insieme all’appuntato Giovanni Iannuzzi, fecero presente a Padalino i loro sospetti nei confronti di Carboni, su cui stavano indagando da circa due mesi. L’indagine era stata avviata sulla base di una notizia confidenziale secondo la quale Carboni, con la copertura del colonnello Isacchini, non si recava in servizio durante l’orario stabilito. Sospettando dunque che Carboni avesse sottratto i due hard disk per sottrarre prove a suo carico (i filmati), Padalino dispose una serie di accertamenti nei confronti del Carabiniere. Venuto a conoscenza dell’iniziativa, l’allora procuratore di Torino Armando Spataro decise di assegnare il fascicolo sul furto degli hard disk ai pm Patrizia Caputo e Francesco Pelosi. Nei confronti di Padalino venne aperto un procedimento disciplinare (che porterà alla sanzione della censura) per la ritardata iscrizione di otto giorni di Carboni nel registro degli indagati, mentre tutti gli ufficiali che collaboravano con lui (De Carolis, Pio, Di Piero e Iannuzzi) vennero allontanati dalla procura. In seguito a un’altra vicenda penale, da cui è stato assolto, Padalino subirà la sanzione ancor più pesante della sospensione e del trasferimento di sede.

 

L’indagine su Carboni venne archiviata su richiesta degli stessi pm. Secondo gli accertamenti svolti da questi ultimi emergeva che l’orario del furto era incompatibile con la presenza di Carboni sul luogo, mentre il responsabile del furto era da individuarsi nella guardia giurata Matteo Ruella. Rinviato a giudizio, però, Ruella è stato assolto sia in primo grado sia in appello da ogni accusa, anche se la sua carriera nel frattempo è stata distrutta. Nel corso del processo è infatti stata sconfessata la tesi dei pm Caputo e Pelosi secondo cui il furto avvenne il 9 luglio, quando Carboni era assente: sia il perito nominato dal tribunale, sia il consulente della difesa di Ruella hanno concluso che gli hard disk vennero sottratti tra l’8 e il 9 luglio. Nonostante l’assoluzione di Ruella anche in appello, però, sembra improbabile che la procura di Torino deciderà di mettere in discussione le proprie iniziali conclusioni, riaprendo una nuova indagine. Il furto è quindi destinato a rimanere un mistero. 

 

Ancor più paradossale è la vicenda che riguarda il cosiddetto “corvo” della procura di Torino, cioè sul soggetto che dal 2021 in poi ha spedito – in otto occasioni – a procure, magistrati, giornalisti e politici una serie di esposti anonimi, contenenti notizie coperte da segreto d’ufficio, con pesanti accuse nei confronti del pm Colace, dell’ex procuratore generale Francesco Saluzzo (ora in pensione), del colonnello Isacchini e del maresciallo Carboni, accusati di aver compiuto reati nella conduzioni delle indagini e altre condotte illecite. Su questi fatti la procura di Milano ha aperto un’inchiesta, individuando il responsabile degli invii in Giovanni Carella, investigatore privato torinese, peraltro indagato da Colace in un procedimento per presunto spionaggio ai danni della multinazionale Kerakoll, accusa da cui è stato prosciolto lo scorso 28 febbraio. La procura milanese ha chiesto il rinvio a giudizio di Carella per diffamazione, calunnia e rivelazione di segreto, ma il vero “corvo” non è ancora stato individuato. La rivelazione di segreto sarebbe infatti avvenuta “in concorso” con uno più pubblici ufficiali ignoti, gli unici in possesso dei documenti secretati. 

 

Su questo aspetto sembra che la procura di Torino, prima che gli atti fossero trasmessi per competenza a Milano, avrebbe potuto e dovuto svolgere accertamenti più efficaci. Nel marzo 2022, ad esempio, uno dei dossier venne recapitato a uno storico collaboratore dell’imprenditore Giulio Muttoni. Il plico conteneva diversi documenti, tra cui la copia parziale di un’annotazione della polizia giudiziaria non firmata, relativa a un procedimento assegnato al pm Colace. Anziché concentrarsi su dove provenisse il documento secretato, la procura di Torino, con il pm Pelosi, aprì un’indagine nei confronti di chi aveva ricevuto il plico. Come se non bastasse, nell’ambito di questa indagine il pm, anziché affidare gli accertamenti a un organo di polizia giudiziaria terzo (come Guardia di Finanza o Polizia di stato), delegò le indagini direttamente alla sezione di pg dei Carabinieri, in particolare al colonnello Isacchini, che in quel momento era in possesso dell’informativa incriminata e quindi, teoricamente, era un potenziale sospettato. Perché? Mistero.

 

Così Isacchini, insieme al brigadiere Salvatore Sechi, altra persona che deteneva l’informativa, ascoltò a sommarie informazioni testimoniali (Sit) gli altri Carabinieri che componevano il nucleo di polizia giudiziaria: gli appuntati Andrea Siri e Massimo Inglese, e i marescialli Giuseppe Campus e Giuseppe Carboni. In altre parole la “sottosezione” fu chiamata a svolgere verifiche su se stessa. 

 

Nonostante l’evidente paradosso, tuttavia, dalle Sit – che il Foglio ha potuto visionare – emergono aspetti clamorosi, apparentemente sottovalutati da chi indagava. Tutti gli ufficiali dei Carabinieri riferirono infatti di aver letto e/o detenuto l’informativa incriminata, e che questa era stata consegnata da Carboni al colonnello Isacchini. Riferendosi a Carboni e al suo rapporto con il pm Colace, il maresciallo Campus inoltre dichiarò: “Ho avuto sensazione che avesse un po’ di acredine nei confronti del magistrato”. Campus aggiunse: “In una circostanza, circa un paio di anni fa – non sono certo ma ero ancora in servizio – mi chiamò per chiedermi se ero a conoscenza dell’esito del fascicolo 6957, quello che noi chiamavamo Palavela. Io non ne sapevo nulla, se non che si trattava di un fascicolo di Colace ma non me ne ero praticamente più occupato. Lui mi diceva nella circostanza che quel fascicolo sarebbe caduto nel dimenticatoio, che nessuno avrebbe fatto nulla e che quella vicenda su cui lui aveva lavorato non sarebbe stata portata avanti. E questa ipotesi che quel fascicolo fosse in un vicolo morto e che non fosse portato a termine gli dava molto fastidio”. Carboni, da parte sua, affermò di aver predisposto la bozza di annotazione, di averla conservata per un certo tempo in una chiavetta usb, ma comunque di averla sempre custodita con attenzione.

 

Nonostante tutti gli ufficiali avessero riferito di aver avuto copia dell’informativa secretata, il pm decise di non sottoporli a indagine, ma dispose il sequestro di materiale informatico (alcune pennette usb) soltanto nei confronti di Carboni. L’indagine sul presunto “corvo” del pm Pelosi è poi stata archiviata su richiesta dello stesso pm, mentre non si sono avute più notizie delle verifiche sul materiale informatico di Carboni. Nei confronti degli altri ufficiali non è stata adottata alcuna iniziativa. 

 

Il “corvo” è in casa, ma a nessuno (in primis la procura) sembra interessare. La giustizia a Torino è anche questo. 
 

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]