
voci da dentro
"Il carcere è un buco nero": lo sfogo di Alemanno dal carcere di Rebibbia
"Non è accettabile che i detenuti siano condannati al silenzio e che i giornalisti non possano mostrare le condizioni fatiscenti delle carceri", dice l'ex sindaco di Roma, recluso a Rebibbia. Le critiche dei detenuti alla politica e alla magistratura di sorveglianza per l'emergenza sovraffollamento
“Entrare in carcere oggi significa entrare in un buco nero, isolato dal resto del mondo. E’ necessario quindi cercare di stabilire un contatto tra chi vive il carcere e l’esterno, ma è impossibile farlo se noi detenuti non abbiamo la possibilità di raccontare l’esperienza che viviamo, rilasciando un’intervista, o se i giornalisti non possono mostrare al pubblico l’ambiente, spesso fatiscente, in cui siamo costretti a vivere. Non è accettabile che il carcere sia un buco nero e i detenuti siano condannati al silenzio”. Parole di Gianni Alemanno, recluso dallo scorso 31 dicembre nel carcere romano di Rebibbia, dove ieri si è svolto un incontro tra i detenuti e alcuni giornalisti, promosso dalla direttrice dell’istituto di pena, Teresa Mascolo, con la collaborazione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) e dell’Università di Roma “Tor Vergata”. Un’iniziativa volta, appunto, ad aprire le porte del carcere all’esterno, in questo caso dando vita a una riflessione collettiva sul rapporto tra informazione e carcere.
Siamo nel reparto G8, uno dei più moderni del carcere di Rebibbia. La saletta dedicata all’incontro si riempie via via che i giornalisti, ma soprattutto i detenuti, prendono la parola. Alemanno non è l’unico volto noto. Si intravede nelle retrovie anche Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade, in carcere dal 12 aprile dopo essere stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione per la strage di Acqualonga, avvenuta il 28 luglio 2013 nei pressi di Monteforte Irpino (Avellino). Un autobus precipitò da un viadotto dell’autostrada, causando la morte di 40 persone e il ferimento di molti altri passeggeri. Castellucci è stato condannato per disastro colposo e omicidio colposo, con una sentenza che – come spiegheremo nei prossimi giorni – sembra seguire più la logica dello scalpo che quella penale. Presente anche Gabriele Bianchi, condannato insieme al fratello Marco per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte (il primo a 28 anni, il secondo all’ergastolo).
Il dolore per la morte di Papa Francesco è percepibile nei volti e nelle parole dei detenuti. “Era lui il nostro ponte tra il carcere e l’esterno”, afferma uno dei reclusi. Proprio nella casa circondariale di Rebibbia, lo scorso 26 dicembre il Papa aveva voluto aprire la seconda Porta Santa del Giubileo, un gesto senza precedenti nella storia della Chiesa. L’ultima uscita pubblica del Papa, prima della morte, è avvenuta in maniera molto simbolica al carcere romano di Regina Coeli, in occasione del Giovedì Santo. Per quel giorno, scopriamo nel corso dell’incontro, Papa Francesco aveva pensato di tornare proprio a Rebibbia, ma le sue condizioni fisiche non gli hanno consentito di svolgere un viaggio più lungo rispetto a quello necessario per andare a Regina Coeli.
I detenuti lamentano il “trattamento stagionale” riservato dagli organi di informazione al tema delle carceri: “Il carcere è sui giornali ad agosto, a Natale e a Pasqua. Poi viene dimenticato”. “Siamo abbandonati a noi stessi”, ribadisce un altro detenuto. Ma al centro delle riflessioni critiche dei reclusi non ci sono soltanto i media. C’è “la politica, di ogni colore, che fa annunci su come saranno migliorate le condizioni di vita in carcere e poi sparisce, mentre noi viviamo in uno stato di emergenza che non fa che peggiorare”. E c’è la magistratura, soprattutto quella di sorveglianza. “Quindicimila detenuti avrebbero diritto di accedere alle misure alternative al carcere, ma questa possibilità viene negata dai giudici di sorveglianza”, lamentano i detenuti, sottolineando anche la mancanza di uniformità di giudizio della magistratura. Il tribunale di sorveglianza di Roma, ad esempio, è dei più riluttanti ad applicare quanto previsto dall’ordinamento penitenziario, rispetto ad altri tribunali del paese. Ma l’applicazione della legge non dovrebbe essere uguale per tutti?
In sala c’è anche un detenuto di 83 anni. Durante il confronto si alza e consegna alla direttrice del carcere di Rebibbia un testo da lui scritto, intitolato “Lettera a mio padre”, in cui confida di non ricordare neanche più il senso di libertà. “Sono il più anziano del carcere”, dice, ma viene subito corretto da un agente penitenziario: “No, un altro detenuto ha 87 anni”. Tutto è possibile in questo buco nero chiamato carcere. Anche l’impensabile.

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