Giovanni Castellucci (Ansa)

il caso

Perché la condanna di Castellucci si basa sulla logica dello scalpo, anziché quella del giusto processo

Ermes Antonucci

L'ex amministratore delegato di Autostrade è in carcere dopo la condanna a sei anni per la strage del viadotto di Acqualonga. Leggendo le carte giudiziarie emerge l’incredibile capovolgimento della logica che dovrebbe governare il processo, col fine di punire il "capo"

Sembra rispondere più alla logica dello scalpo, anziché a quella che dovrebbe governare il processo penale in un paese liberale, la condanna definitiva a sei anni di reclusione nei confronti dell’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia (Aspi), Giovanni Castellucci, per la strage di Acqualonga, avvenuta il 28 luglio 2013 nei pressi di Monteforte Irpino (Avellino). Un autobus precipitò da un viadotto dell’autostrada, causando la morte di 40 persone e il ferimento di altri passeggeri. Castellucci è stato condannato per disastro colposo e omicidio colposo, e dal 12 aprile si trova in carcere. Com’è stato possibile che la giustizia abbia finito per attribuire all’amministratore delegato di una società di quasi diecimila dipendenti, e che gestisce circa 2.800 chilometri di autostrade, la responsabilità per il cedimento del guardrail di un viadotto? Leggendo le carte giudiziarie emerge l’incredibile capovolgimento della logica che dovrebbe governare il processo. 

 

Primo dato: sia i consulenti tecnici della procura sia il perito nominato dal tribunale di Avellino hanno constatato la presenza di “gravi fenomeni corrosivi degli elementi metallici (i ‘tirafondi’) di collegamento delle barriere in calcestruzzo al cordolo del viadotto”, concludendo che “la barriera esistente, con i tirafondi sani e in buono stato di manutenzione, avrebbe contenuto l’impatto con l’autobus ed evitato la caduta dello stesso dall’impalcato del viadotto”. Insomma, il guardrail ha ceduto per la carente manutenzione. Compito dell’amministratore delegato, però, non è certo quello di verificare lo stato di manutenzione di una barriera di sicurezza, bensì quello di definire le strategie generali che la società intende perseguire e di demandare alle strutture sottoposte le decisioni tecniche necessarie a realizzare quelle strategie. In caso contrario si avrebbe una figura di amministratore onnisciente e onnipresente, impensabile in un’organizzazione così vasta e complessa come quella di Autostrade per l’Italia.

 

E’ per questa ragione che nel 2019 in primo grado il tribunale di Avellino assolse Castellucci e altri sei alti dirigenti di Autostrade, condannando invece otto imputati, tra cui il titolare dell’azienda del bus precipitato nella scarpata e il direttore responsabile del tronco autostradale. La sentenza scatenò la rabbia dei familiari delle vittime, che arrivarono persino a insultare e minacciare il giudice, oltre che l’indignazione del Movimento 5 stelle. Non bastavano otto condanne per oltre 53 anni di pena totali. Ciò che veniva chiesto era lo scalpo del capo (Castellucci). 

 

In questo clima si arriva nel 2023 al giudizio di appello, che ribalta la sentenza e condanna Castellucci a sei anni di reclusione, insieme agli altri dirigenti, tra cui il direttore generale Riccardo Mollo. Dietro la sentenza della Corte d’appello di Napoli sembra celarsi un percorso opposto a quello che dovrebbe seguire un normale giudizio: prima si è individuato l’imputato da condannare, Castellucci, e poi si è andati alla ricerca delle argomentazioni che potessero sorreggere questa tesi. L’operazione è stata compiuta dai giudici in due passaggi.

 

Primo: visto che nessuno può smentire il fatto che il guardrail abbia ceduto per la carente manutenzione (che non spetta all’ad), si introduce il concetto di “riqualificazione”. Se per manutenzione sono da intendersi gli interventi finalizzati a ripristinare le condizioni di un’opera (come una barriera di sicurezza), la riqualifica individua invece gli interventi volti a sostituire l’opera in questione, con la finalità di conseguire più elevati standard prestazionali. Per la Corte d’appello, l’amministratore delegato ha la responsabilità di controllare l’attività di riqualificazione delle barriere di sicurezza.

 

I giudici d’appello completano l’operazione con questo secondo passaggio: affermano che con una delibera del 2008 i vertici di Autostrade (leggasi Castellucci e i dirigenti della direzione centrale) decisero di riqualificare le barriere autostradali, ma esclusero la riqualificazione – e quindi la sostituzione – delle barriere in quel momento presenti sul viadotto Acqualonga, in violazione della Convenzione sottoscritta con Anas. In realtà i fatti non stanno proprio così. La Convenzione non impone alcun obbligo giuridico ad Aspi di riqualificare le barriere di sicurezza e, in ogni caso, le barriere del viadotto Acqualonga non potevano essere riqualificate perché rientravano nella tipologia di barriere maggiormente performante (classe H4). Di conseguenza, soltanto l’attività di manutenzione, volta a ristabilire il buono stato della barriera di sicurezza, avrebbe potuto eventualmente impedire alla barriera di cedere alla spinta del pullman, non certo la riqualificazione della barriera in questione, già appartenente alla classe prestazionale più elevata.

 

Introdurre il concetto di riqualificazione serve però ai giudici per affermare quanto segue: qualora il tratto corrispondente al viadotto Aqualonga fosse stato inserito nel piano di riqualificazione, durante l’esecuzione dei lavori i tecnici si sarebbero resi conto (per pura casualità) della corrosione della barriera, e avrebbero così deciso di procedere con la sua sostituzione, evitando il disastro. E questo anche se il compito di constatare il degrado della barriera spettava alle strutture incaricate della manutenzione.

 

Ecco così che nell’argomentazione dei giudici la carenza di manutenzione, causa dell’incidente e non imputabile all’amministratore delegato, “rientra dalla finestra” e finisce per fondare proprio la condanna dell’amministratore delegato Castellucci e degli altri dirigenti della direzione centrale. Alla faccia del nesso causale tra l’evento e la condotta dell’imputato. 

 

Una vicenda a dir poco incredibile, in cui l’esigenza di condannare il “capo” (peraltro imputato nel processo su una tragedia altrettanto grave come quella del ponte Morandi) sembra aver prevalso sulla logica del giusto processo.  
 

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]