Il popolo dell'ottimismo
Abbiamo iniziato due anni fa nel tentativo di fermare la corsa al ribasso della politica. Poi due pessimismi concorrenti hanno aggravato la situazione. Ma il futuro continua a non far paura. Un catalogo anti sfascista
Due anni fa con la stramba bandiera dell’ottimismo si provava (anche) a rompere l’incantamento negativo seguito al fallimento referendario, al ritorno verso le schermaglie al ribasso all’interno degli schieramenti politici, alla chiusura dell’orizzonte riformista ed europeo. Ci si ritrovava non proprio rincuorati a seguire il tentativo, vincolato a piccoli numeri e a terribili, incombenti, sondaggi, del dimesso (poi anche dimessosi) Paolo Gentiloni. E l’ottimismo funzionava, dando una prospettiva storica più profonda e dando ragioni per analisi più stimolanti, per non cadere nella micidiale, stordente, quotidianità negativa del discorso pubblico italiano. Poi, e lo diciamo da ottimisti quindi immaginate voi, c’è stato perfino un peggioramento del quadro generale, ma anche una iniezione di chiarezza. E’ successo che abbiamo assaggiato il pessimismo e abbiamo capito quanto non fosse solo giocosa e spiazzante l’iniziativa del Foglio, ma come avesse proprio colto il punto. Abbiamo visto com’è e cosa genera il pessimismo di governo. Sotto due forme: quella leghista e quella grillina. Per semplificare (ma per la verità stiamo semplificando ciò che è già una semplificazione), il leghista nazipop fa propaganda politica dicendo che le cose vanno male per colpa dei poveri e di quelli senza potere. Il grillino, invece, sostenendo che è sempre colpa dei ricchi e di quelli con tanto potere. Durante la plumbea esperienza di governo gialloverde si sono visti questi due pessimismi (così innoviamo rispetto alla parola populismi, ormai un po’ consumata dall’uso), caricati della loro dose di inumanità, all’opera e in concorrenza tra loro. I porti chiusi non fermavano nulla e nessuno, ma permettevano l’esibizione del principio prima accennato: le cose andranno peggio per colpa dei molto poveri e dei senza potere. Bisogna attrezzarsi, diceva il capo leghista e non sapeva cosa fare. Ma trasmetteva (e lo trasmettevano e ritrasmettevano con l’ossimoro televisivo dell’autorialità conformista) invece fattività. Luigi Di Maio punzecchiava invece i ricchi e potenti, nella rappresentazione caricaturale dovuta alla carica fondamentale di ignoranza su cui sono costruite le analisi del Movimento 5 stelle. Il suo movimento nasceva per combattere gli ottimati e invece subito se l’è presa con gli ottimisti. Abolire la povertà, avendo anche il poco garbo di dirlo in giro e da un balcone, in fondo non era neppure nel suo programma. Di Maio doveva fare, secondo il rozzo mandato ricevuto, i dispetti alla ricchezza e al potere, era quello il programma operativo del suo pessimismo. Ma procedeva in modo confuso e disordinato, tecnicamente non sapeva nulla, faceva fare tanta anticamera ai capi azienda in visita al ministero dello Sviluppo e tanto gli bastava per sentirsi forte e vincente, colpiva con parole violentissime i soci, la parte capitalistica dell’impresa, e uno si immaginava che dopo desse di gomito agli amici: hai visto che gli ho detto, eh? Oppure bloccava, sospettoso e incerto, qualunque progetto che comportasse investimenti, realizzazioni, sviluppo, costretto poi ad accodarsi, per ironia della storia, alle soluzioni già impostate dai suoi predecessori quando non era possibile rinviare o bloccare (perché il contratto per il passaggio dell’Ilva ai Mittal ha dovuto firmarlo, sapendo bene che l’alternativa semplicemente non esisteva, il “no” avrebbe comportato guai grossi, impossibili da nascondere). Anche il capo politico procedeva su una strada insensata e fuori dalla storia. Voleva chiudere più le stazioni (quelle della Tav) mentre l’altro ce l’aveva con i porti, un modo come un altro per rintanarsi nell’inefficacia e consegnarsi all’eterna propaganda.
In un anno abbiamo visto bene com’è e cosa genera il pessimismo di governo. Sotto due forme: quella leghista e quella grillina. Lo sfruttamento della paura, ovvero la capitalizzazione elettorale del discorso pessimista. La truce operazione di Salvini
I due pessimismi concorrenti e alleati erano la premessa dello sfruttamento della paura. Cioè della capitalizzazione elettorale del discorso pessimista (altrimenti, se non si è proprio appassionati al negativo per vocazione, che gusto c’è?). Gioco, come è noto, peculiare delle esperienze storiche finite male per la democrazia (è tutta qua, ma è tantissimo, la chiave per fare paralleli storici con i fascismi). Gioco che, comunque, è riuscito meglio a uno dei due alleati e non riuscito all’altro. Segno che fanno paura i poveri e i senza potere, mentre funzionano molto meno i ricchi e i troppo potenti. Forse perché l’anticasta e la demagogia erano già moneta corrente, come è stato detto in modo molto approfondito, presso la mejo borghesia italiana e quindi i grillini si sono semplicemente accodati, con forza buffonesca e quindi per definizione di non lunga durata, a fenomeni già in corso. Il salvinismo è un’operazione più truce, come da definizione di questo giornale, ma ben più efficace, di questi tempi, nella creazione di paura spendibile nelle urne elettorali.
L’ottimismo fogliante, rispetto ai programmi politici di cui ci siamo appena sommariamente occupati, aveva qualche antidoto e qualche indicazione di controffensiva. Ma non vorremmo mettergli il cappello (il nostro) e perciò gliene mettiamo un altro. Ci piace pensare che Giuseppe Conte, e con lui evidentemente almeno una parte di quel composito mondo affluito nel grillismo, sia una specie di sardina, una sardina onoraria e ante litteram, un Giovanni Battista (bum) del sardinismo. Il fascino di questo titolo contraddittorio, che unisce pre e post, allude alla transustanziazione dal Conte 1 al Conte attuale (sul Foglio si è scherzato, buttando il cervello oltre l’ostacolo, anche sui buoni risultati del Conte 3). Perché a noi ottimisti piacciono i passaggi, le trasformazioni, ci piace sapere che c’è sempre la redenzione. E quindi il prof. avv. a un certo punto si è scocciato, intuendo il sardinismo, e si è piazzato in mezzo alla scena pubblica a testimoniare con parole semplici e ben piantate contro il pessimismo, contro la paura come strumento di governo e di consenso, contro il linguaggio e i modi che ora cominciano a stancare sempre più persone.
Perfino troppa la remunerazione per il nostro ottimismo nel vedere come le forze misteriose di quella attitudine mentale verso la positività e la fattività che tanto ci è cara si siano messe al lavoro per portare da qualche parte, che non fosse fatta di trucezza e cupezza, l’esercizio del potere in Italia. Siamo rimasti felicemente attoniti vedendo come l’astuzia della storia avesse scovato la soluzione.
Due anni fa, per indicare il repertorio da cui prendere le distanze, con cui caratterizzarci per differenza e per opposizione, dovevamo guardare fuori dai confini. Avevamo scelto, per un lungo articolo seguito alla prima giornata dell’ottimismo a Firenze, due grandi progetti di trasformazione che definivamo iperottimisti (esagerazione che porta alla negazione) e non direttamente pessimisti. Con quell’iper davanti l’ottimismo perdeva il legame con le possibilità reali, si faceva astratto. Lo avevamo chiamato anche ottimismo irrazionale. Si prendeva un pezzetto di storia, dicevamo, che è come prendere nulla, e ci si costruiva sopra un progetto politico. I due casi erano la Brexit e la richiesta di indipendenza per la Catalogna. Allora, in èra ancora pre-pessimista, quei due progetti anti-storici e mal costruiti ci sembravano il simbolo di ciò che ci era estraneo come propugnatori dell’ottimismo. Nel frattempo i piani per Brexit e Catalogna indipendente sono ancora lì. Le cose un po’ ci hanno dato ragione. Quelle esperienze hanno prodotto lotta politica, fatto e disfatto governi, ridicolizzato qualcuno ed esaltato altri. Ma hanno mostrato che intanto i nazionalismi (anche quando si contrappongono ad altri nazionalismi) o non sono allettanti, o sono fonte di guai, o sono irrealizzabili, e non basta un progetto concepito credendo di avere il vento della storia a favore, sostenuto dai sondaggi e anche nelle urne elettorali, e che quindi quella caricatura della buona volontà, incarnata poi splendidamente in Boris Johnson e con meno allure nei leader catalani, non avrebbe portato nulla. Qui invece si fa la lotta, dall’opposizione e con una gambetta anche nella maggioranza, non contro l’Ue tutta intera, come quel matto in fondo anche divertente del premier inglese, ma contro, a rotazione, qualche sua effigie, il Mes è l’ultimo nemico da additare, l’ultima paura (“falliranno le nostre banche e i tedeschi se le prenderanno per due soldi”, addirittura) da agitare. Ma, l’avrete percepito, è solo una replica pigra, che si fa sbugiardare dal buon Giovanni Tria per i fatti passati e dai suoi successori per quelli presenti. Per uscire dalla pigrizia l’ottimismo è una chiamata alla riflessione politica e all’azione.
Gli ottimisti sono ancora chiamati a dire qualcosa se non altro per tirarci fuori dai talent show delle policies. Ispirazioni e programmi. Due anni fa, per indicare il repertorio da cui prendere le distanze, dovevamo guardare fuori dai confini: Brexit e Catalogna
Ora ci si è ingabbiati in una specie di contest televisivo delle policies. A quello si sono ridotti i dibattiti, con, peggiori tra tutti, i famigerati confronti. Qualunque uscita pubblica di un politico ora è dentro lo schema del talent show “facciamo star meglio gli italiani, idee e proposte”. E fanno un po’ pena mentre si sfidano a colpi di questa o quella aliquota da ridurre o di idee molto ma molto specifiche a vantaggio di un gruppo sociale o di un altro. All’asilo nido si replica con qualche ticket da abolire, tu togli un’accisa e io allora mi butto sulle detrazioni da aumentare, tu sostieni gli artigiani con una deduzione di nuova invenzione e io faccio qualcosa allora per le partite Iva ma solo fino a un certo reddito, alla stampante 3D replico con le applicazioni del 5G. Intendiamoci, questo mercato delle realizzazioni o delle policies c’è sempre stato, ed è una componente essenziale di una buona democrazia. la differenza è che non è mai stato al centro della discussione, non è mai stato caratterizzante in toto delle scelte cui sono chiamati gli elettori, è sempre stato un prodotto di risulta, affidato per la maggior parte, al lavoro delle rappresentanze, dei cosiddetti corpi intermedi. Allora qui non si vuole riproporre i fasti delle ideologie che coprivano tutto. Il talent show delle policies è fantastico, ma levatelo dalla prima serata: dovrebbe stare e onorevolmente, per rimanere in termini da palinsesto generalista, dalle parti dei programmi con le ricette di cucina. Gli ottimisti sono ancora chiamati a dire qualcosa se non altro per tirarci fuori dal talent. Firenze serve anche a ritrovare e rinnovare le ispirazioni che arrivano dalla intestazione, un po’ pazzerella, all’ottimismo di quella serie di incontri con protagonisti della vita sociale e del potere diffuso in Italia. Ancora una volta guardandosi intorno, ma per modelli cui ispirarsi direttamente e non in cerca di definizioni alla rovescia. Emmanuel Macron e il suo discorso sull’Europa e all’Europa pubblicato recentemente su queste pagine è un monumento di ottimismo, appoggiato, certo, sul piedistallo di un sistema istituzionale forte. Ha indicato ciò che va fatto per rimettere in movimento il progetto politico di maggiore successo del Dopoguerra. E in questi giorni, pur faticando, va verso il completamento della commissione Von der Leyen. E’ partita a rilento ma ha dovuto affrontare questioni anche simili a rompicapo, come quella del commissario di nomina britannica, risolta, a quanto pare, stabilendo che se ne può fare legittimamente a meno. E passata attraverso varie bocciature di commissari, compresa la prima designazione francese. Ora quella commissione comincia la sua attività. Ironicamente, il suo passo primigenio è stato quel voto dirompente e, va detto, anche inaspettato, proveniente dai grillini italiani al Parlamento europeo. Con il loro ciclo che in quel voto andava a completarsi: da generico e inutile scassacasta (operazione frantumatasi anche a colpi di ridicolo, come da esempi recenti canini e residenziali) a componente, certo assistenzialista e poco altro, di qualsiasi governo. Non è proprio qualcosa di cui vantarsi ma è qualcosa di più politico rispetto al vaffa day: ne è, potremmo dire, la revisione alla luce dell’ottimismo. Anche perché sappiamo che, con buone mani riformiste in azione, anche le azioni temerarie dal balcone, e quindi il reddito di cittadinanza, si possono raddrizzare, con un po’ di pazienza e ricondurre a politiche non solo praticabili ma anche positive. Agli altri, che forse hanno paura dell’ottimismo perché temono di sembrare ideologici e ora non va più di moda, verrebbe da chiedere uno sforzo in più. In fondo i grillini nascono nel campo del pessimismo urlato e costitutivo (le visioni cupe di Grillo e Casaleggio le ricorderete) e uscirne è una fatica, sono gli altri ad avere meno giustificazioni. Sono nati tra discorsi su progetti e futuro. Slogan da provare a prendere sul serio, qui si è ottimisti perché devono farlo per forza
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