5 gennaio 2015, Felipe Anderson esulta dopo il gol alla Sampdoria. “Sembrava di avere di fronte Cristiano Ronaldo”, dirà a fine partita l’allenatore dei blucerchiati (foto LaPresse)

Felice Anderson

Beppe Di Corrado
Cercato, voluto, ma soprattutto aspettato. Così l’ex vice di Neymar è diventato il migliore dopo essere stato il peggiore. Funambolo inutile, dicevano. Adesso è diventato il giocatore più inatteso del campionato, uno che “spacca le partite”.

Tu dagliela. Dalla a Felipe Anderson: sui piedi, non in profondità. Dagliela che parte. Con la palla al piede, con la testa alta. Dagliela che trova lo spazio che altri non vedono. Il gemello diverso di Neymar. Pagato un decimo e considerato un centesimo per troppo tempo. Perché non funzionava, non girava, non partiva. Gliela davano e lui rimaneva fermo. Bloccato non si sa da chi e non si sa da che. Avevano letto e sentito Neymar dire “Felipe è fortissimo” e non capivano se fosse vero o se fosse lo spot esagerato del campione che cerca di piazzare l’amico da qualche parte. Perché quello che s’era visto per diverso tempo alla Lazio era un mezzo giocatore. Funambolo inutile. Questo parte, va. Spacca le partite, ha detto durante una telecronaca su Sky Riccardo Trevisani. Questo non c’entra con quello. Questo è la conferma che Neymar non voleva piazzarlo. Otto milioni sembrano un regalo, adesso. Ne fanno uno dei giocatori più pagati della storia della Lazio di Lotito, il terzo dicono, dopo Zárate e Hernanes. Ne fanno soprattutto un affare, ora. Perché Anderson è il giocatore più inatteso del campionato. Higuaín, Icardi, Tévez confermano se stessi. Pogba pure. Sì, c’è Dybala. C’è Franco Vázquez. Però Felipe era stato bocciato. Era quel tipo di giocatore che una squadra come la Lazio quindici anni fa non avrebbe aspettato. Benedetta crisi, per Anderson. Perché è vero che ci siamo impoveriti, che abbiamo perso peso e potere, che non avendo soldi non abbiamo più i giocatori migliori. Abituati a spendere più di spagnoli, inglesi e francesi compravamo calciatori fatti, certi che avrebbero funzionato. E quelli che non andavano li scartavamo, spedendoli altrove in prestito, senza dar loro il tempo di crescere, di far capire che chi li aveva acquistati non si era sbagliato, non avevano visto male. Prendete Gourcuff, preso in un Milan troppo forte per poter dire: ok, diamogli tempo. La Lazio di fine anni Novanta forse è l’esempio migliore: poteva permettersi di comprare giocatori spendendo qualsiasi cifra (poi abbiamo scoperto che il poterselo permettere era molto relativo): Verón, Nedved, Simeone, Crespo, Vieri, Mancini. Uno come Felipe Anderson sarebbe stato messo tra le delusioni. Otto milioni buttati.

 

Oggi non possiamo, non può la Lazio, non può nessun club italiano. Ora quelli così sono gli altri: il Chelsea che ha mollato Salah, come se fosse un bidone. Con la rosa che ha Mourinho alla prima partita sbagliata uno che non è Fàbregas, che non è Diego Costa, che non è Hazard finisce in panchina. Marchiato come una promessa non mantenuta, valutato l’accessorio che con 33 milioni ha permesso al Chelsea di prendere Cuadrado. Non è che a Londra siano impazziti. E’ che avere il meglio ti porta a non avere pazienza. Forse a non poterne avere.

 

Siamo dall’altra parte, noi. Stavamo meglio prima, non scherziamo. La decrescita del pallone porta con sé poche cose buone: la storia di Felipe Anderson è una di queste. La crisi ci ha obbligato a prendere giocatori da far crescere, maturare, diventare forti. Siamo costretti a credere nel talento e nella nostra capacità di riconoscerlo. Quello di Felipe l’abbiamo trovato quest’anno. Il derby è stato il derby, la chiave. Perché è vero che era già esploso, però in quella partita, per come l’ha giocata, per quanto è stato determinante e per la partita in se stessa è stato il momento in cui Anderson ha definitivamente cominciato a essere forte. E’ dal derby che si parte per andare in avanti o indietro nel racconto di questa stagione. E’ dal momento in cui prende la palla e fa trentasette metri, supera due avversari muovendosi a sinistra e poi a destra, la mette in mezzo per Mauri che fa gol. E’ dall’altro momento, ovvero da quando segna il due a zero, quinto gol in cinque partite. Degli altri quattro ne parleremo poi, perché quel punto zero da cui parte tutto è il continuo forward-rewind di Felipe Anderson.

 

Ecco, allora se torni indietro da quei due momenti, quindi da quel giorno, ovvero dal derby, scopri un ragazzo che ha avuto una dinamica professionale abbastanza standard. Per analogia e un po’ per scherzo è Aristoteles de “L’allenatore nel pallone”: il brasiliano considerato fenomeno che fa fatica ad ambientarsi prima di esplodere. Saudade è una parola anni Ottanta che è stata tirata fuori per lui, a Roma. Nostalgia è la traduzione ed è quella che ha usato lui quando gli hanno chiesto che cosa avesse prima, quando non andava, quando invece di partire rimaneva fermo: “Ci ho messo alcuni mesi per imparare a comunicare. Non ho reso quanto speravo, tanto che temevo di essere ceduto in prestito. Si parlava di alcuni club di serie A, come Torino e Napoli”.

 

Gli hanno costruito attorno il ritratto del brasiliano stereotipato, che poi è l’unico che in Italia conoscono tutti. Quello del ragazzino nato povero, che grazie al calcio diventa ricco e famoso ed esce dalla condizione disgraziata che il destino e la nascita gli avevano riservato. Senna e Kaká hanno archiviato quell’idea, ma è stata un’alternativa durata poco. La storia di Anderson andava dalla parte opposta, verso la simbologia tipica: padre spazzino, madre casalinga, la vita in un sobborgo di Brasilia, quattro fratelli e poi lui, quello che con un pallone avrebbe potuto riscattare la famiglia e donare a tutti soldi e futuro. E’ un’immagine che funziona e per quanto vera è anche la più semplice. Così l’ha raccontata lui: “Ho cominciato a giocare a dieci anni, nella scuola calcio della mia città, il Santa Maria, e lì ho iniziato a partecipare ai tornei. Ho sempre creduto che un giorno avrei fatto il calciatore. La mia vita è stata difficile, era tosta per i miei arrivare a fine mese. Papà e mamma si massacravano per me e i miei quattro fratelli. Non avevamo mai un soldo in tasca, ci aiutavamo con i nostri amici poveri. Così ho imparato a svegliarmi ogni giorno per essere il migliore. Frequentavo una scuola per meno fortunati, la mia famiglia non poteva permettersi di farmi allenare con una buona squadra. Grazie a Dio un imprenditore si è accorto di me e mi ha portato al Santos nel 2007”. Aveva 14 anni e a 17 avrebbe segnato il suo primo gol da professionista. Giocava con Neymar e Ganso. E uno pensa che tra questi due quello difficile da gestire, con cui è più complicato confrontarsi sia il giocatore del Barcellona. No, per Felipe era l’altro. Quello che in realtà non ce l’ha fatta, quello che è rimasto in Brasile e che per diverso tempo è stato il continuo confronto con Anderson. Perché a Neymar avevano costruito il futuro, mentre gli altri due hanno dovuto cercarselo. Non c’entrano nulla, né come modo di stare in campo, né come ruolo, eppure quando Ganso lasciò il Santos tifosi e critica pensavano che l’eredità fosse di Felipe: “Partì Ganso e la gente si aspettava che facessi di più. Quando senti così tanta pressione è difficile esprimersi al meglio. Lui aveva il 10 sulla maglia e il giorno del suo addio la diedero a me. Forse è stato quello che ha alimentato un confronto in parte naturale, in parte forzato. Abbiamo una visione di gioco simile, ma non siamo uguali. Lui ha cadenze diverse in campo, tocca spesso la palla, la passa. Io gioco a campo aperto”.

 

Con Neymar tutto bene, invece. Dopo un Santos-Atlético Mineiro pessima, con Anderson in versione fermo, ci furono momenti tosti: prima i fischi durante la partita, poi l’attesa dei tifosi fuori dallo stadio per insultarlo e invitarlo ad andare via. Neymar si mise davanti al compagno, lo difese dagli insulti e dalle critiche. Sono amici, lo sono ancora. E c’è stato un momento in cui il fenomeno pareva Felipe: gli osservatori dei club europei che avevano cominciato a seguirlo ricordano una partita in particolare, Santos-Figueirense del 2011. Finirà 2-0. Uno dei due gol è suo, ma la meraviglia è un assist: parte con la palla al piede, punta un avversario seminando quello che aveva già cominciato a seguirlo. Supera anche il secondo, poi pure il terzo, arriva sul fondo, aspetta l’arrivo dell’ultimo avversario superato che non ha smesso di seguirlo. Quello gli scivola vicino, mentre lui rientra beffandolo. Alza la testa e la mette in mezzo, facile per il compagno. Il suo gol, invece, è una ribattuta dopo la respinta del portiere di un suo tiro precedente. Era forte, Felipe. Lo dicevano quelli del Barcellona che erano lì per Neymar e cominciarono a pensare che si potesse prendere anche lui. Lo dicevano quelli del Borussia Dortmund, che avevano cominciato a seguirlo con continuità. Lo dicevano quelli della Lazio, che quelle e altre giocate le avevano viste dal vivo. Erano stati i primi a cercarlo, erano stati anche i più veloci. Una trattativa di quasi dieci mesi, con Lotito pronto a pagare più dei concorrenti per prenderlo.

 

Anomalia, questa, perché di solito è il contrario. La Lazio voleva Felipe. Lo voleva il direttore sportivo Tare che era andato personalmente a vederlo e a trattare, lo voleva Lotito. Operazione facile soltanto a parole. Perché il brasiliano tipico e per certi versi da commedia pallonara era però tipicamente contemporaneo per un altro verso: quello della proprietà del suo cartellino, al 50 per cento del Santos e al 50 per cento di Doyen Sports un fondo d’investimento. Il club era d’accordo: 7,5 milioni di euro e 700 mila euro all’anno per Anderson. Il fondo no: pensavano che il giocatore valesse di più, pensavano che se avesse rimandato l’arrivo in Europa, il valore sarebbe potuto aumentare ancora. Lotito s’innervosiva: aveva l’accordo con il Santos, per la miseria. Aveva i soldi giusti e ce li aveva tutti, soprattutto ne aveva più di altri che stavano trattando il giocatore. Il caso Anderson, allora. Perché quando la proprietà del cartellino è frazionata è sempre un caso. Il primo fu Tévez, che all’inizio della carriera si muoveva tra Argentina e Brasile perché il fondo che aveva parte del suo cartellino voleva far crescere il suo valore in campionati meno difficili.

 

Lotito denunciò Doyen Sports alla Fifa, definendo la condizione di Anderson come quella di uno schiavo contemporaneo costretto a fare ciò che il suo padrone voleva. Accordo trovato in quel momento: 8 milioni per il cartellino e 800 mila euro all’anno per il giocatore per 5 anni, con aumenti di ingaggio progressivi. La Lazio aveva Anderson, non senza la rabbia di aver dovuto spendere più di quanto aveva previsto e di essere stata costretta a una trattativa borderline. Una sensazione cresciuta dopo le prime prestazioni di Felipe. Perché l’abbiamo detto: la prima stagione è stata un fallimento completo. Un gol, in Europa League. Basta. Prestazioni deludenti, atteggiamento imbarazzante, la sensazione sgradevole di aver trovato un altro di quelli che sembrano fenomeni e invece sono stelline solo dall’altra parte del mondo, dove la pressione è diversa, dove c’è un altro spirito. La nostalgia, sì. Comunque l’idea che 8 milioni fossero stati una follia ha tormentato per molti mesi la dirigenza laziale.

 

Nessuno sa che cosa sia successo, poi. O meglio tutti sanno ciò che è successo, ma nessuno conosce davvero il perché, probabilmente nemmeno Felipe. C’è chi dice sia stato il gol in Coppa Italia contro il Varese, c’è chi dice sia stato l’infortunio di Candreva e nell’obbligo per la Lazio di farlo giocare. Comunque è arrivato, Anderson. E’ arrivato quello vero, quello che prende la palla e va. Assist, soprattutto. Ma pure gol. Quello che entra in un partita e la spacca a metà. Il derby, sì. Serratura e chiave di una carriera. Ma come detto c’è anche il prima e il dopo. Prima ci sono stati quattro gol in quattro partite: contro il Parma, il primo. Con l’Atalanta zero, ma arrivano due assist fondamentali. Con l’Inter doppietta, per il 2-2 finale. Con la Sampdoria forse la partita migliore: gol e due assist, ovvero come essere il centro del centro dei tre gol della Lazio. “Sembrava di avere di fronte Cristiano Ronaldo”, dice a fine partita l’allenatore della Samp Mihajlovic.

 

Arriva il derby e con il derby tutto, perché uno è forte con tutti, ma se è decisivo in quella partita è di più. Però poi c’è il dopo, intervallato da una storia brutta, un altro pezzo di tipicità da brasiliano complicato: il padre arrestato con l’accusa di aver ucciso una donna di 61 anni e un uomo di 30. L’uomo era l’ex fidanzato della moglie. Secondo l’accusa il padre di Anderson ha inseguito in auto l’ex fidanzato della moglie scappato in moto, lo ha investito, ha perso il controllo della macchina ed è finito contro la casa della donna. Morta anche lei. Omicidio volontario e omicidio colposo, rischia trent’anni di carcere. Anderson in quei giorni s’infortuna.

 

Il dopo arriva con un altro gol fantastico al Sassuolo, una partita da favola contro la Fiorentina. Gli otto milioni del 2013 che sembravano sprecati sono diventati improvvisamente pochi. Anderson ha un valore che oggi non è stato definito e non lo sarà fino alla fine del campionato, quando ci si porrà la domanda: venderlo o no? E qui Lotito dovrà scegliere che cosa essere. Tre possibilità: il presidente che rifiuta a prescindere, quello che valuta e vende al migliore, oppure se fare un po’ come quelli della Doyen Sports, ovvero tenersi il giocatore sperando di far crescere il suo valore, ma avendolo già praticamente venduto. Ogni scelta un rischio, come per tutti. Fino ad allora, sarà solo campo. Con Anderson che farà Anderson: messo in campo per inevitabilità e per inevitabilità diventato il migliore. Della Lazio, almeno. Del campionato, forse. Inatteso, trovato, avuto. Aspettato, ecco, aspettato.

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