Cioran, il tramonto
Leggere Emil Cioran ha un che di consolatorio (lui non sarebbe d’accordo) ma è bene abusarne senza libretti delle istruzioni e poi conservarlo fra gli altri medicinali. Come un farmaco dell’anima, oppure un veleno balsamico sul quale la letteratura non troverà mai un punto d’accordo. Lettori di massa, selezionati ammiratori del parlare breve sopravvissuto a pensieri abissali, ognuno ha la sua chiave di lettura cioraniana. La mia chiave ha la ruggine addosso ma entra e gira, è materialistica ma di un materialismo così rarefatto da perdersi nelle lontananze della metafisica: Cioran è uno scrittore sepolcrale, per un casus loci del destino che lo ha puntualmente domiciliato nei pressi di qualche cimitero e perché la sua scrittura nasce dalla lancinante degradazione fisica dei corpi, il suo e quello di un mondo in putrefazione – Cioran fu invero malfermo per tutta la sua vita, ma passabilmente, completamente romeno ma suo malgrado, legionario fascista per fermentazione acerba (quei “settarismi deliranti” li avrebbe poi rinnegati, anche per un virtuoso calcolo parigino), francese per scelta omeopatica ma prima d’ogni altra cosa fu magiaro-asburgico per elezione animica e musicale, lo fu nel momento in cui le conseguenze dello sfaldamento austro-ungarico si proiettavano torbide sul Novecento inoltrato.
Riconosciamo ovunque, nelle sue pagine, il languore dello gnostico immodesto che fu, o che volle sembrarci, perché Cioran fu eretico anche nell’adesione gnostica. Anche in queste parole rivolte da Parigi al fratello Aurel nel 1973: “Mio caro Relu, mi sembra impossibile che siano passati tanti anni dalla morte dei nostri genitori. Il tempo esiste, dunque… Mi ricordo talmente bene del cimitero di Rasinari, che potrei indicarti l’ubicazione di tale o talaltra tomba. Com’era bello il giardino che avevamo proprio lì accanto”. Giardiniere dell’apocalisse e scultore immaginario d’ogni lapide caduta nel tempo storico, Cioran lo riconosciamo sopra tutto nelle corrispondenze, epistolografo ed epistolofago, come ricorda il suo maggiore studioso italiano, Massimo Carloni, che ha appena curato la pubblicazione delle lettere di Cioran al fratello (1931-1985), “L’ineffabile nostalgia” (Archinto, 174 pagine, 18 euro). E’ il Cioran che nel 1977 confida al suo amico e corrispondente austriaco: “Abbiamo parecchi vicini sgradevoli. Proprio di fronte, c’è un’impresa di pompe funebri che fabbrica bare dalla mattina alla sera! E’ tutto previsto. Non ho paura dell’avvenire…” (Emil Cioran, “L’agonia dell’Occidente. Lettere a Wolfgang Kraus: 1971-1990, Bietti, 439 pagine, 24 euro, sempre Massimo Carloni come curatore). Ed è lo stesso cimiteriale Cioran che ritroviamo nell’agosto del 1981, in vacanza a Soglio, nell’astigiano, insieme con la compagna della vita: “Simone e Cioran alloggiavano in una dépendance proprio accanto al cimitero… Da allora, di notte, si poteva vedere un Cioran insonne vagare sul precipizio del cimitero, in pigiama a righe e sotto uno svolazzante ciuffo di capelli arruffati. Quelle tre settimane divennero per lui un supplizio autodistruttivo”. La descrizione è di Friedgard Thoma, l’inconfessabile amata dall’ultimo Cioran (ne parla Annalena qui sotto) ed è un piccolo raggio di luce sbiadita che conferma la petizione di principio: Cioran, promeneur insonne, sentinella egotica e metronomo di ogni infermità, realizza se stesso nel dialogo con un disfacimento carnale cercato, subìto ed esibito con un’intensità prossima alla frivolezza.
Nelle lettere a Relu scorre rammemorata la desolazione parallela di due vite in esilio: a Parigi, accerchiato dalla koinè franco-romena (Ionesco gli telefona una dozzina di volte al giorno alla vana ricerca di un conforto per la comune depressione: “‘Non so più cosa sto facendo ancora in questo mondo’ gli ho risposto. ‘Nemmeno io’, è stata la sua replica”), lo scrittore vive prigioniero di una metropoli intellettuale esangue, soffocante di cemento e ideologismi alla moda, per lui che teorizza la non contemporaneità come principale misura della dignità spirituale di un uomo; in Romania suo fratello, mal sopravvissuto alla prigionia e alla Securitate, amorato e disamorato custode delle tare famigliari, capace di rapsodici lampeggiamenti più cioraniani perfino di quelli colati dai crateri anneriti di Emile: “La vecchiaia è l’autocritica della natura”. Sono ormai entrambi lontani dall’illusione della felicità, un “problema superato” (parole di Emil), figli legittimi di un malanno interiore funesto, ereditario e matrilineare, che ha modellato i caratteri di famiglia come l’esergo d’una storia psicologica del popolo romeno. Cioran si rivela un nosologo di prima grandezza, misuratore ossessivo e medico improvvisato delle proprie e altrui malattie, cavia solerte, consigliere di farmaci e rimedi che spaziano dalla chimica allo stoicismo di Marco Aurelio (“non esiste consolatore migliore”).
Cioran proclama spesso la sua estraneità alla Romania, al “genio di un popolo irrealizzato” destinato “a vivere e morire per niente”, ma è dolente e si smentisce: come traditore è disonesto, cede con voluttà alla nostalgia per la terra estenuata della sua prima giovinezza, si fa scappare che “solo i mediocri si realizzano”, non riesce a disfarsi del tratto lacrimevolmente romantico e boschivo che gli è rimasto impresso dalla lettura di Mihai Eminescu (1850-1889) e che lui ha soltanto rivestito d’ironia sfacciata. “Più si è primitivi, più si è prossimi a una saggezza originaria che le civiltà hanno perduto. Il borghese occidentale è un imbecille che pensa solo al denaro. Qualunque cioban [pastore] nostrano è più filosofo di un intellettuale di qui”. Di Eminescu, Cioran si dichiara discendente orgoglioso, ma il suo avo non è soltanto il raro poeta bucolico (“giacché ti guardavo con occhi pagani…”), è per lo più il cantore di una compiaciuta e invalicabile disfatta: “Discendo direttamente dalla Preghiera di un daco, di cui ho sempre amato il tono violento, quasi si trattasse d’un blasfemo, o meglio, d’un supplicante”. Nel 1943 aveva definito quella poesia, così inspiegabilmente cara anche alla Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu, “un inno all’annientamento”. Non aveva torto: “E di colui che sassi mi scaglierà nel volto, / abbi pietà, Signore, e dàgli eterno giorno!” (traduzione di Geo Vasile in Mihai Eminescu, “Iperione. Poesie scelte”, Fermenti, 199 pagine, 10 euro). Qui entra in gioco forse il lato più noto, disputato e in fondo scaltro di Cioran, il rapporto con la morte, con la religione, con il suicidio. (“Ciò che mi ha salvato è stata l’idea del suicidio, senza la quale mi sarei sicuramente ucciso. Ciò che mi ha permesso di vivere è l’aver avuto sempre a disposizione quella risorsa, per cui, veramente, senza quell’idea non avrei potuto sopportare la vita”, è la confessione cioraniana resa a Christian Bussy nella sua prima apparizione televisiva (1973), ora in “Vivere contro l’evidenza”, La scuola di Pitagora editrice, 36 pagine, 3,50 euro).
Eretico della croce lo è senz’altro (“se fossi credente, sarei cataro”), così come teorico del sucidio come profilassi contro il suicidio stesso. Anche in senso quietista, buddhistico o schopenhaueriano (“la cura buddhista mi ha allontanato dal cristianesimo”), con venature hindu, “essendo la filosofia indù quanto di più profondo e audace sia stato creato dall’uomo”. Resistere all’apparenza, oppure consegnarsi a lei. Non per porre fine alla propria esistenza con l’agonismo fiero di un sadhu indiano, come Drieu La Rochelle, tardivo lettore vedico, piuttosto in omaggio a una ludica estetica dell’assurdo: “Se per miracolo dovessi ricominciare la mia vita, mi occuperei solo ed esclusivamente di damuri” [damigelle]. E anche questa è una forma di amore per la vita che va ad aggiungersi alle innumerevoli e più minute “infatuazioni defunte” di Cioran, da Paul Valéry al caffè.
L’occidente in declino è una di queste infatuazioni. Occidente pensato in profondità e dichiarato morto, da Cioran, nelle lettere inviate all’amico austro-spengleriano Wolfgang Kraus. Proprio qui, al disfacimento come destino di una civiltà senile si accompagna l’ossessione ombelicale, al limite della fatuità, per i propri malanni fisici. Ecco: il concetto e la natura profonda, filosofica e viscerale direi, dell’infermità occidentale mi paiono il cuore della cosa ultima cioraniana. “I miei pensieri sono inevitabilmente di natura sotterranea”, ammette lui, e pour cause: “Come può una civiltà ultraraffinata (pare che il 5 per cento degli inglesi sia omosessuale) competere biologicamente con schiavi come i cinesi o con la genuinità biologica dei popoli primitivi?”. Oggi sono parole fuorilegge, ma era il 1978. Poi, nell’87: “I mass media sono sicuramente una catastrofe per l’occidente, ma la causa reale è più profonda e incurabile. Posso azzardare una profezia? Tra cinquant’anni Notre Dame sarà una moschea”. Cioran non legge più i quotidiani, al massimo sfoglia quelli in lingua inglese perché i continentali li trova troppo corrivi con il socialismo sovietico. Nutre una diffidenza per il giornalismo che somiglia al disprezzo coltivato, con crudeltà iniziatica, da un altro insigne balcanico come il Gurdjieff degli “Incontri con uomini straordinari” (Adelphi). La Russia sarà fino all’ultimo un cattivo ma onesto inquilino nelle catacombe cerebrali di Cioran. “I Russi non sono fatti per la libertà e gli europei sono troppo stanchi per difenderla”. Sembrano parole dell’eurasista Dugin, è un paradosso sghembo per Cioran essere così attuale, oggi ancora, oggi di nuovo, considerato il suo amore per l’inattualità. Ma vale anche per lui: non si ha più il diritto di essere inattuali dopo aver detto “meglio la corruzione del terrore”, dopo averlo detto in occidente e quale che fosse (sempre la Russia, sempre la Russia…), quale che sia, qual che sarà il terrore. E’ il prologo in cielo d’ogni futura schizofrenia occidentale nei confronti dei suoi nuovi incubi totalitari.
In poche parole, ha detto quasi tutto di lui Wolfgang Kraus in uno schizzo privato del 1993: “Cioran: un monaco scivolato dal deserto egiziano nel presente. Un anacoreta che litiga con Dio, che lotta con gli angeli, contro tentazioni fantastiche, spettri e nemici. Il parossismo dell’isolamento, l’eccesso di ascesi, che può mutarsi in orgia. Visioni, estasi ed euforie, polarizzate attraverso l’odio del mondo, la misantropia, l’autopunizione e l’ostilità alla vita. Pesante e duratura nevrosi di un fanatico, un anacoreta che si rivolge alla gnosi, guardando con stupore e glorificando negativamente il demiurgo. Cerca Dio ma lo perde, per via delle sue aspettative esagerate”.
Al culmine della sua recita disperata, Cioran conferma al fratello Relu che “tutto quanto ho scritto, di buono o cattivo, non è che il risultato di una salute vacillante”, eppure “nulla di quanto ci capita merita una nevrosi… E’ un prezzo troppo alto”. Relu irrideva Emil dandogli di “esule nella civiltà”, e lamentoso “per ragioni opposte a quelle di Ovidio” che in età augustea fu cacciato da Roma (ben altra civiltà!) per sfiorire in una terra non poi così lontana dalle contrade romene dei fratelli Cioran.
In questi tempi gli esuli nella civiltà si moltiplicano. Uno di loro, fra i più sinceri, il destrissimo Dominique Venner, ci ha lasciato il suo suicidio dentro Notre Dame come testamento spirituale per non più giovani combattenti. Altri, ben mediatizzati come Michel Onfray e François-Xavier Bellamy, s’interrogano intorno al quesito: “La fin de notre civilisation?”. Accanto a loro volteggiano pentiti come Eric Zemmour e imitatori riusciti di Louis-Ferdinand Céline, come Michel Houellebecq. Benvenuti in occidente, non c’è che dire, anzi qualcosa da dirgli c’è: siamo figli di Gea e di Urano stellato, occidente e oriente non esistono già più. Lo scriverete tra mezzo secolo.
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