David Ben Gurion, primo ministro di Israele dal 1948 al ’54 e dal 1955 al ’63, è oggetto di nuove ricerche da parte di Anita Shapira

Come Giacobbe

Giulio Meotti
Ben Gurion, lo statista addetto a pulire l’ovile che mandò gli ebrei a combattere dopo duemila anni. Un libro sul fondatore di Israele.

Aveva l’aspetto di un contadino affabile, i capelli bianchi piantati sulle tempie, gli occhi turchesi, il volto segnato dal sole, la faccia scavata dalle rughe fitte. Ma chi lo conosceva parlava di David Ben Gurion come di un pensatore raffinato, l’intellettuale che aveva studiato lo spagnolo per non perdere neanche una sfumatura di Cervantes e l’italiano per il suo adorato Machiavelli. Non gli piaceva il titolo di “padre di Israele”, ma più quello di “hakazen”, grande vecchio. “Padri di Israele”, diceva, “sono quegli uomini duri che hanno lasciato le loro terre e le loro case per venire nel deserto a fare i contadini”.

 

Adesso una biografia pubblicata dalla Yale University Press e scritta da Anita Shapira, che nel 1966 da studentessa di storia incontrò Ben Gurion nel deserto del Negev, illumina il carattere e le decisioni prese dall’uomo che ha dato agli ebrei una patria dopo duemila anni di esilio e massacri, scandendone le decisioni più drammatiche e importanti. Un patriarca. Un nuovo Giacobbe.

 

Nel 1948 gli Alleati, compresi gli americani, nutrivano ancora molte simpatie per il mondo arabo, e la nascita di Israele poteva complicare la situazione. Ben Gurion si sentiva un leone, mandò al diavolo chi gli consigliava attendismo e prudenza e il 15 maggio proclamò la repubblica. “Il suo riconoscimento che la creazione dello stato ebraico avrebbe richiesto una sanguinosa guerra e la sua disponibilità a sostenere il peso della responsabilità sono state, al tempo, intuizioni meravigliose che hanno portato ad azioni decisive, senza precedenti nella storia ebraica”, scrive Shapira. “L’invio di giovani in battaglia, sapendo che sarebbero potuti non tornare, è stata una decisione che gli ebrei non avevano più preso dai tempi della rivolta di Bar Kokhba nel Secondo secolo”.

 

Shapira paragona Ben Gurion al leader dell’ultimo sussulto insurrezionale ebraico, la rivolta di Bar Kokhba (132-135 dopo Cristo) contro l’occupazione romana, finita in un massacro. Di quella epopea si sono rinvenuti soltanto anfore, tessuti e monete con la scritta “Simone Bar Kokhba principe d’Israele”. Ben Gurion inizialmente fece lo stesso: raccolse intorno a sé 800 mila ebrei, ma a differenza di Bar Kokhba li condusse alla vittoria, contro quaranta milioni di arabi, in un conflitto che avrebbe cambiato per sempre il destino ebraico.

 

Venuto al mondo come David Green nel 1886 a Plonsk, un piccolo centro industriale polacco nel territorio della Russia zarista, Ben Gurion ha guidato due volte a vittorie impossibili il suo minuscolo stato, prima nella guerra di liberazione e poi nella campagna del Sinai, edificando l’entità statale ebraica e imponendola con alto prestigio alla Società delle nazioni. In Ben Gurion, la passione politica si confondeva con un profondo afflato religioso, l’eredità biblica con la cultura illuminista dell’occidente.

 

Ben Gurion fu capace di assumere decisioni di un pragmatismo estremo. Il suo ritiro dal Sinai nel 1957 venne progettato per porre fine all’isolamento di Israele, che egli vedeva come un pericolo per la sua stessa esistenza. Aspirava a entrare nella sfera d’influenza americana, ma questo non gli impedì di costruire il reattore nucleare di Dimona nonostante l’opposizione di Washington. Per quanto volesse un alleato, Ben Gurion era altrettanto geloso dell’indipendenza del suo piccolo e fragile paese, e quando Israele si trovava di fronte a una minaccia alla sua esistenza, nessuno era più risoluto di lui nella protezione degli interessi nazionali. Fu una fiducia quasi messianica, utopistica nell’energia nucleare quella che lo spinse a impartire l’ordine di cercare l’uranio e di costruire la bomba atomica, custodita nel deserto del Negev. Ben Gurion vedeva l’energia nucleare con una fede laica e modernista nella tecnologia, legandola al sogno del totale rovesciamento di ruolo dell’ebreo, da perseguitato a padrone del proprio destino, anche tramite l’azione della scienza e l’imposizione al mondo delle scelte tecnologiche. Ben Gurion avrebbe presieduto alla nascita di una banca ebraica, a una compagnia di costruzioni ebraica, a una associazione sportiva ebraica, a una cooperativa agricola ebraica, a un teatro ebraico, a un quotidiano ebraico, a una casa editrice ebraica, a un movimento giovanile ebraico e a una scuola ebraica. Ma non riuscì mai a trasmettere alle masse la sua visione e la sua foga politica messianica, la passione morale e pionieristica. Contribuì però a forgiare un esercito popolare e democratico, usato come scuola di integrazione del paese. Nel 1953, gli Stati Uniti iniziarono a garantire prestiti a Israele e la Germania promise i tanto attesi risarcimenti. Lo stato di emergenza, che durava dal 1939, era finito. E con esso, anche l’epopea di Ben Gurion. La rivoluzione era compiuta, e dopo i sette giorni della creazione era arrivato il momento del riposo del fondatore dalla noiosa lotta politica. Come Winston Churchill, Ben Gurion era nato per dominare un certo momento della storia, e una volta passato si sentiva svuotato, sprecato, forse persino inadatto a impegnarsi con monotonia negli affari di tutti i giorni. A Tel Aviv viveva in modo spartano, in una modesta villa del centro, la maggior parte della quale era occupata dalla biblioteca. Ma appena poteva, fuggiva nel deserto. Fu lì che decise di rifugiarsi. La moglie, una donna volitiva e semplice, ardentemente socialista, non ne condivideva l’entusiasmo. Soltanto la presenza di un soldato di guardia e di un telefono da campo distingueva la casa del primo ministro dalle altre. Come Mao Tse-tung, che aveva nuotato attraverso il Fiume Azzurro per dimostrare che era ancora in possesso di tutti i suoi poteri, Ben Gurion sperava che il suo ritiro a Sde Boker, nel Negev, avrebbe scatenato un nuovo zelo rivoluzionario. La prima a essere insoddisfatta fu la moglie Paula, che aveva molti amici a Gerusalemme e Tel Aviv,  che faceva fatica ad accettare la lontananza ascetica nelle distese aride del deserto, che considerava la cucina del kibbutz non abbastanza pulita e il cibo non sufficientemente saporito.

 

Ben Gurion, invece, accettò l’ascetismo con affetto. Quattro ore al giorno le dedicava al lavoro nel kibbutz e il resto del tempo alla lettura e alla scrittura. Gli piaceva molto allevare gli agnelli, e iniziò a fare camminate di quattro chilometri al giorno nel deserto. Ma gli israeliani considerarono l’esilio del fondatore difficile da accettare. E lo inondarono di migliaia di lettere pregandolo di non abbandonarli. Tra le missive che gli chiedevano perché avesse deciso di ritirarsi, c’era anche quella di un tredicenne impudente: si chiamava Amos Oz .

 

Con gli anni, Ben Gurion venne dimenticato nella sua diaspora di pietre. Per celebrare il venticinquesimo anniversario dello stato di Israele, pochi mesi prima dello scoppio della guerra dello Yom Kippur, nel 1973, la radio militare lo chiamò per un dibattito. Il patriarca invitò gli israeliani a continuare a perseguire i tre principi per i quali l’indipendenza ebraica era stata rinnovata: il ritorno degli esiliati, far fiorire il deserto e la costante aspirazione a diventare “il popolo eletto” e “una luce per le nazioni”.

 

Fu un discorso grandioso ma anche un po’ patetico, considerando che di lì a poco Israele avrebbe rischiato di essere nuovamente schiacciato dagli arabi. Quando scoppiò la guerra del Kippur, Ben Gurion era solo e dimenticato. Morì nel dicembre di quel 1973, poco dopo il cessate il fuoco, quando Israele era ancora sotto choc e in lutto per le numerose vittime del conflitto. Nessuno prestò attenzione alla sua morte. Nella lapide venne iscritta semplicemente la data di nascita, di morte e dell’immigrazione in Palestina.

 

[**Video_box_2**]Quel piccolo ebreo polacco in giacca e cravatta, misticamente abbronzato, prese le decisioni più tragiche e necessarie per la sopravvivenza di Israele. Il libro di Shapira le racconta tutte. Ben Gurion non esitò a far sparare all’Altalena, la nave che, appena proclamata l’indipendenza, conduceva alle coste di Israele, oltre ad alcuni passeggeri, armi destinate alle milizie di destra. Ben Gurion ordinò di catturare o affondare la nave: preferì perdere armi preziose, rischiare la guerra civile, accettare lo scontro fra soldati e partigiani piuttosto che lasciar imporre al nuovo stato il marchio della debolezza e dell’illegalità. Non poteva tollerare l’esistenza di un doppio potere e aveva finito per decidere che alcuni ebrei dovevano ucciderne altri, atto fondatore della nascita di un vero e proprio stato. Quando un pio studente nazionalista di nome Yigal Amir nel 1995 assassinerà il premier israeliano Yitzhak Rabin, spiegherà ai giudici di averlo fatto, oltre che per fermare la cessione di terra ai palestinesi, per vendicare i fatti dell’Altalena (Rabin prese parte al cannoneggiamento della nave).

 

L’equivoco principale del sionismo risiede nel tentativo di unire due elementi fra loro divergenti: giudaismo e illuminismo. Ben Gurion, conscio di questa difficoltà, anche qui prese la decisione di lasciare al tempo il compito di definire il carattere dello stato, accettando la richiesta dei religiosi di non dargli una costituzione. E ancora oggi Israele non ha una costituzione.

 

Nel 1948 i comandanti dell’esercito ebraico, Yigal Allon e Yitzhak Rabin, chiesero a Ben Gurion se dovessero procedere a “una evacuazione su larga scala” degli arabi di molti villaggi. “Cacciateli”, fu la risposta di Ben Gurion che accompagnò l’ordine con un gesto della mano. Spiega Shapira che “questo a quanto sappiamo è l’unico caso in cui vi sia evidenza di un ordine di Ben Gurion di evacuare gli arabi. In altri casi, come a Nazareth, proibì l’espulsione. Ma non c’è dubbio che, come la maggior parte dei suoi ministri, Ben Gurion vide l’esodo degli arabi come un grande miracolo, uno dei più importanti in quell’anno dei miracoli, poiché la presenza di una popolazione ostile del quaranta per cento della popolazione totale nel nuovo stato non era di buon auspicio per il futuro”.

 

“David Ben Gurion divenne il leader della sua nazione in un periodo di traumi senza pari”, scrive Anita Shapira. “La sua leadership paternalistica ha dato un senso di sicurezza e di direzione a una nazione che si trovano nella più grave crisi della sua storia, dopo la distruzione dell’ebraismo europeo. Israele non sarebbe stato creato se non fosse stato per Ben Gurion”.
E’ la grandezza di quel piccolo polacco che amava circondarsi di libri, ma che si è sempre considerato soprattutto come un qualsiasi “haver” (compagno) del kibbutz. Lo statista addetto alla stalla degli agnelli.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.