Due poeti in fuga
Urlò D’Annunzio – il sempre vociante Vate: “Vado verso la vita!”, transitando fulmineo dai banchi della Destra a quelli della Sinistra. Più temerariamente, Sandro Bondi e Nichi Vendola verso la poesia sono già andati. E ora, quasi orbi della politica, alla stessa si apprestano a tornare – e la Musa Calliope, priva di scampo, forse rassegnata attende. Sandro – l’uomo di Berlusconi, da cui dolorsamente si separa, e Nichi – l’uomo di Eddy, di cui è felicissimo fidanzato, sono stati (pur su fronti opposti) i versificatori del ventennio che si chiude, i rimatori dei giorni andati, i verseggiatori delle loro buone cause. Uomini dal pensiero rapido, dalla metafora veloce, la terzina pronta in canna, hanno scandito il loro percorso politico tra rime e liriche, con fervore di scrittura (e non sempre adeguata critica a sostegno, piuttosto malevola, a dire il vero). E ora che la stagione si avvia a conclusione – un sottrarsi, un dileguarsi, un commiato comunque – facile prevedere che sui marosi della poetica le loro vite future troveranno ancora e sempre conforto. Il pur temibile Fatto così l’altro ieri titolava l’abbandono di Bondi, ora rifugiato nella pace di Novi Ligure come Catullo nella villa di Sirmione: “Vorrei essere dimenticato” – e annotava il quotidiano, sul senatore che fu berlusconiano di cuore e di poemi: “E chiede un favore con una terzina: ‘Io vorrei essere dimenticato / io vorrei che il mio nome non fosse più importante / io vorrei chiudere qui la mia esperienza politica’”. Dolente abbandono, anima ulcerata: avrebbe forse un giorno composto. Ben diversa l’uscita di scena di Vendola, che in tal modo il suo abbandono ha argomentato: “Il mio obiettivo più grande è quello di recuperare l’allegria, la cosa che mi è più mancata in questi anni. E poi voglio riprendere a leggere: per dieci anni non ho scritto un verso e non ho letto un libro di poesie”. Sandro, più mesto, pare prendere congedo con le parole del “collega” (diciamo) Pablo Neruda – “Amare è così breve, e dimenticare così lungo”; Nichi, di suo, si apposta più nei pressi della Vanoni e di Vinicius de Moraes – “Buonanotte all’incertezza / ai problemi all’amarezza / sento il carnevale entrare in me. / E sento crescere la voglia, la pazzia / l’innocenza e l’allegria…”.
Peraltro, volendo ben poetare, l’allegria è sentimento da tenere a bada – troppo vicino costeggia la soddisfazione, essendo questa “sentimento di natura tiepida, e di qualità inferiore”, come scriveva Natalia Ginzburg recensendo le poesie (“non mi piacciono affatto”) del volume “Epitaffio” del suo amico Giorgio Bassani, “perché mi sembrano piene di soddisfazione”. Scrisse pure: “Un mio amico, Cesare Garboli, dice che sono insieme Carducci e Magritte. Io però non riesco a vederci né Carducci né Magritte. Ci vedo soltanto la soddisfazione”. Perciò l’eccesso di buonumore la felicità creativa non sostiene – e in effetti, a pensarci bene, Vendola è stato finora poeta più propenso se non al tragico al gravoso impegno, sorta di pensoso Hikmet del Salento, “la lotta è il mio canto, e la gioia, e la sorte radiosa degli amici”, così che, quasi sulle orme del “Lamento per Ignacio Sánchez Mejías” di García Lorca, compone il suo più esteso e sollecito (morte a luglio, poema a settembre: neanche un cambio di stagione, ché a volte la poesia, nell’urgenza delle cose, è come un ascesso dentale: pulsa e preme) “Lamento in morte di Carlo Giuliani”: “Lascia che io pianga muto / senza quel tuo limone / limone asfalto e sputo (…) di un celerino a uccello / ti spezzano i carati / del sogno tuo degli anni / l’ora del manganello / rintocca nei tuoi panni…”. Pure qui – né Carducci né Magritte, e latita magari García Lorca. Ma Vendola è pur sempre un generoso militante del pensiero e dell’impegno, e in una memorabile intervista tanto seppe definire la sua poesia, “credo nella poesia come parto doloroso, come partita gioiosa, come partenza verso territori semantici tutti da scoprire”, quanto alzare la voce contro il degrado del poetare attuale – avendo il karaoke e il povero Apicella “ferito quasi a morte tutte le Muse”, un eccidio. E dunque, nella vasta morìa circostante, posa lo sguardo: “Siamo assediati da pessima poesia, rime leggere e di facili costumi, senza studio né gravidanze scritturali autentiche…” – che poi chissà: ma che cazzo so’, le rime di facili costumi?
Di suo, nella mestizia dell’addio – quasi addio al se stesso dell’ultimo ventennio – Bondi figura in una disposizione d’animo più adatta a mutarsi definitivamente in poeta, idealmente trasfigurato a metà tra il Foscolo dei “Sepolcri” e il sempre caro Neruda, “posso scrivere i versi più tristi, questa notte”. Non a caso “delicato Sandrone” lo chiama il Messaggero – quasi fosse un fragilissimo John Keats, “il cui nome fu scritto nell’acqua”, ché a tale delicata dissipazione pare ora aspirare pure Bondi. Che poi, quasi dantesco contrapasso (“così s’osserva in me lo contrapasso”) sembra il suo: che generosamente su molti il generoso fiorire della sua poetica riversò – davvero “rosa aulente, / splendiente” dei giorni dorati del berlusconismo ora per sempre persi: a cascata, a settimanale impegno su Vanity Fair, in arabescate trasfigurazioni che solo le anime più vili e grevi potevano percepire quale eccesso di piaggeria e non piuttosto come amorosa/amorevole estensione del suo universo. A riprova, non solo le poesie dedicate a Silvio (adesso, nell’abbandono e nell’invocata dimenticanza, certo un sussulto leopardiano deve percorrerlo – Silvio, rimembri ancora?), alla consorte sua, alla mamma (“Madre di Dio”, pensa tu), persino alla segretaria Marinella, “muto segreto / inconfessata attesa”, e chissà come Dudù sfuggì; ma anche alla più stretta colleganza di partito, così da cantare il “fiore reclinato” della Brambilla o il “presente d’amore” di Letta (Gianni), o le nozze di Elio Vito, “tra le tue braccia magico silenzio”, del resto sempre ottima cosa. E persino Cicchitto in dono ebbe da Bondi uno tra i suoi componimenti elaborati, con periglioso, si potrebbe dire oculistico, abbandono: “La mia fede / è la tenerezza dei tuoi sguardi”, e mai prima di allora (e per la verità mai dopo di allora) gli sguardi di Cicchitto furono oggetto di pubblica attenzione poetica. Ma è proprio qui ciò che solo la poesia può: come Mario Tessuto con “Lisa dagli occhi blu” o, meglio ancora, Montale con “La casa dei doganieri” – chi, prima di lui, l’aveva mai avvistata? Ma pure ai suoi avversari, generosamente Bondi non negò il piacere di appositi lirismi: così a Veltroni, “Tenero padre, / madre dei miei sogni”, così alla fascinosa Anna Finocchiaro, “Nero sublime / Lento abbandono / Violento rosso”, quasi quasi evocando certi sussulti amorosi di Kavafis: “I versi suoi! Infuocati sguardi / Dove ripalpitano i suoi miraggi”. Eugenio Scalfari, uno mica di facili gusti, “per l’alto mare aperto” abituato a navigare, figurarsi a Novi Ligure dove nemmeno c’è il porto, durante un dibattito si lasciò andare: “Per come parla Sandro Bondi, lo incarterei e porterei a casa”. Son soddisfazioni massime, queste. E ora, questo suo sospiroso e laterale sortire dalla scena pubblica, quasi lo avvicina a un poeta che più distante da lui non potrebbe essere, il Charles Bukowski di sbronze e mignotte e ippodromi: “Scrivere una poesia non è difficile, difficile è viverla”.
Nichi e Sandro – i due poeti che la plebea scena politica nostra hanno attraversato, e che ora abbandonano uno evocando dimenticanza l’altro bramoso di allegria – hanno vissuto in maniera diversa questa loro duplice veste di eletti e di versificatori. Sempre in Nichi, pure nel dibattere e comiziare, il poetare premeva sulla favella – frusciare e ammonticchiare festoso, tipo: “Le primarie sono una vera spinta di vita, immettono un alito profumato nel centrosinistra…”, magari: “La poesia libera l’anima. Appena posso mi rifugio nella poesia…”, oppure: “Io sono reo di porto abusivo di sogno…” (codesta ammissione risultava nel distico per la presentazione dei due dvd “Le parole del futuro”, nientemeno, “La ballata di Nichi Vendola”), così quasi uno si aspetta di sentirlo andare avanti attacando alle parole sue quelle di Lee Masters, “voi che vivete, siete davvero degli sciocchi / voi che non conoscete le vie del vento”. In Sandro, lo sdoppiamento era assoluto – mai il politico concedeva, nel pubblico confronto, il volo sognante che il poeta serbava per momenti di maggiore estro. Dualismo che lo stesso tenero vate di Fivizzano riconosceva (intervista con Sabelli Fioretti): “Ci sono due Bondi. Il primo è quello che sono, quello che credo di essere, che sento di essere. Il secondo è un altro Bondi. Quando mi rivedo in televisione mi meraviglio di me stesso. Molta gente me lo dice”. In Sandro, sempre verso l’assoluto la poesia tende – “Perdonare Dio” il titolo di una sua raccolta, “Vita vitale / Vita ritrovata / Vita splendente” certi versi dedicati a Berlusconi: senza, peraltro, voler minimamente affiancare i due soggetti. Nichi, che a sette anni debuttò con una poesia intitolata “Mamma” (un pizzico di Ungaretti e un sospetto di Gino Latilla, “son tutte belle le mamme del mondo / quando un bambino si stringono al cuor!”), fu persino capace di una bellissima filastrocca – che da Sandro Penna piuttosto felicemente dalle parti di Rodari lo spostava: “C’era una volta una piccola bocca che ripeteva la filastrocca di una gattina color albicocca che miagolava in una bicocca dove viveva una fata un po’ tocca che raccontava la storia bislacca di una bambina che sta sulla rocca e che ripete la mia filastrocca nata un po’ allocca e cresciuta barocca…”. Poi, purtroppo, con ricadute piuttosto dolorose nel quotidiano, come quando per sponsorizzare la lista Tsipras (gli sta bene!) fece il verso alla famosa poesia “If” di Kipling: “Se pensi che le persono sono più importanti delle merci. / Se pensi che la comunità sia più importante del denaro…”. Con giustificato spavento, sia i lettori sia gli elettori si defilarono.
[**Video_box_2**]Sono stati gli ultimi due esponenti del politico/poeta, Bondi e Vendola – razza in estinzione che forse mai più si ripresenterà. Oddio, vero che il poetare è cosa somma e insieme cosa facile e incontrollabile (chi mai ci tutela da ogni matita e ogni pezzo di carta?), così che pure il genio che vergò le parole: “A XY andai / a te pensai / e questo ricordo ti portai”, così da porterle imprimere volendo sulla cotognata di Bari o sotto la gondola di plastica di Venezia o nei pressi di Padre Pio, potrebbe aspirare alla categoria. Ma se a un politico/poeta si deve pensare, inevitabilmente il pensiero corre al comunista Pietro Ingrao, appena fresco centenario, che ha pubblicato diversi libri, come “Il dubbio dei vincitori” e “L’alta febbre del fare” – senza similitudini tra questo e quelli. “Chi nel campo arde / fascine / mai saprà / di che sete nel consumarsi / è l’acre fumo / che fugge” – così certi suoi versi. E così: “Senza giurare, / quando il chiaro dorme, spalancate le fonti. / Ponete i nomi”. Spiegò Ingrao, nella sua autobiografia: “Valse allora per me la risonanza della parola e la successione dei suoi significati, il loro dilatarsi a formare una trama”. Scrisse il Manifesto (Massimo Raffaelli), esteticamente e politicamente rapito: “Per Ingrao, la poesia è infatti non una riposta anticipata o differita ai problemi del fare e dell’agire ma, al contrario, è la domanda perpetua sul senso del fare dell’agire, individuale e collettivo…”. Ci fu anche un democristiano poeta, ormai dimenticato, Bernardo d’Arezzo (ministro e pure commercialista), che diede dalla stampe due raccolte, una con prefazione di Domenico Rea e l’altra del comunista Antonello Tormbadori – e il volume presentato da Eduardo De Filippo (però). E tra i poeti un altro comunista, Maurizio Ferrara, coi suoi sonetti romaneschi da Anonimo Romano (ché “ultimo, anonimo e minuscolo fedele del Belli” Ferrara si definiva) – “Er male è com’un fumo che ciài drento, / che ’gniquarvorta er corpo fa ’na mossa / la fa lui puro, ar movese s’ingrossa / come fa la fumata sotto er vento”.
Per il resto, piuttosto che comporre di loro, per fortuna i politici preferiscono citare. Nei momenti più solenni, più solenne s’alza la citazione. Così Occhetto, che dismette il Pci, all’ultimo congresso lacrima e chiama in soccorso Tennyson: “Venite, amici, che non è mai troppo tardi per scoprire un nuovo mondo. / Io vi propongo di andare più in là dell’orizzonte…”. E Forlani, nel cupo di Tangentopoli, reagì con Dante e il suo Inferno: “Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo. / io non vi discernea alcuna cosa…”. Più prosaicamente, nel 1994, alla radio con Livio Zanetti, Berlusconi preferì farsi trasportare dai meno impegnativi versi di “Rio Bo” di Aldo Palazzeschi: “Tre casettine / dai tetti aguzzi, / un verde praticello, / un esiguo ruscello: Rio Bo, / un vigile cipresso…”. L’aveva ripassata sabato sera coi suoi figli, spiegò: “C’era la gara tra tutti i bambini per vedere chi l’imparava prima, alla fine l’ho imparata anche io”. Però. (Comunque, anni fa Berlusconi si lanciò a sorpresa in un omaggio nostalgico alla Prima Repubblica, “quando si era capaci di recitare i versi di Guido Cavalcanti per rafforzare un argomento e si era abili nel giocare di fioretto un attimo dopo aver tirato sciabolate”, e il riferimento era alla famosa disputa tra il segretario del Pci Palmiro Togliatti e il giornalista Vittorio Gorresio sull’argomento). Bertinotti, nei momenti di maggiore pathos sempre alla splendida “Itaca” di Kavafis ha fatto ricorso (un po’ metafora dell’andare a zonzo piuttosto che arrivare: perfetta per la sinistra): “Itaca ti ha dato il bel viaggio / senza di lei mai ti saresti messo / sulla strada: che cos’altro ti aspetti?”. D’Alema, quando tra i filare della sua vigna ha presentato a un perplesso e vigile Alan Friedman il suo cagnone di settanta chili, a nome Aiace, lo ha fatto citando Vincenzo Cardarelli: “Sempre obliasti, Ajace Telamonio, / ogni prudenza in guerra, ogni preghiera…”. E Veltroni, per anni e anni, si è tirato dietro certi bellissimi versi di Borges, “I giusti” – per spiegare la sua idea di sinistra, come distico al suo libro “Senza Patricio”, per conquistare la platea argentina durante un viaggio ministeriale da quelle parti: “Chi accarezza un animale addormentato. / Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto…”.
Si capisce che il prodotto finito sia di gran lunga più pregevole di quello in eleborazione presso qualche volenteroso politico, dal lapis ardente. Però Nikita detto Nichi e Sandro detto “delicato Sandrone” ci hanno messo del loro. Per il Nobel è difficile, ma il consenso degli amati vicini, e degli ammiratori non troppo distanti e non troppo esigente, può essere a portata di mano. Meritatissimo. Poi, se si è poeti per gran voglia di dimenticanza o per grande allegria che si sente arrivare, che importa – sempre alla soddisfazione basta stare attenti. Tutto il resto è salute.
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