L'Expo mai pronta
Cosa fece davvero Vittorio Emanuele (terzo, naturalmente) domenica 29 aprile 1906? Della mattinata si sa tutto, almeno dal momento in cui uscì in carrozza scoperta dal portone del Palazzo Reale in piazza del Duomo a Milano. Lo accompagnavano Elena, la bella moglie montenegrina, e Letizia, cugina e zia acquisita. Letizia merita una presentazione. Di cognome faceva Bonaparte. Infatti di Napoleone era pronipote. Suo nonno era Gerolamo, che come altri suoi fratelli era stato re, anche se di un piccolo regno come la Westfalia. Come si chiamasse suo padre (Napoleone Giuseppe, detto anche Gerolamo) pochi lo sapevano. Per tutti, tranne che per la stampa monarchica per nobili signore, come il mensile Margherita, era Plon Plon. Cugino di Napoléon trois, secondo imperatore dei francesi, aveva una specie di passato militare. Era partito per la Crimea, ma se n’era venuto via presto, perché quella guerra di posizione era insieme noiosa e faticosa. In Italia era sceso con gli imperiali nel 1859, per la nostra Seconda guerra di indipendenza. Intanto aveva sposato Maria Clotilde di Savoia, figlia del re di Sardegna. Di Vittorio Emanuele (terzo) Letizia era quindi prima cugina. Ma era anche zia acquisita, avendo poi sposato giovanissima il fratello della madre, Amedeo di Savoia, che per un paio di anni era stato persino re della Spagna sconvolta dalla guerra civile. Per l’inaugurazione della prima Esposizione internazionale italiana era preziosa. Della famiglia reale non solo era la più internazionale, ma anche la più amante dello sport e della meccanica, i veri caposaldi dell’esposizione milanese. Sarebbe certo stato più rappresentativo il suo figliastro, il duca degli Abruzzi, già effimero infante di Spagna (era nato a Madrid, quando suo padre era re), diventato esploratore e alpinista di fama internazionale nell’epoca in cui erano gli esploratori e gli alpinisti a incarnare i veri eroi popolari. Chi meglio di lui, con il suo seguito di guide alpine valdostane, di illustri scienziati e di un grande fotografo di montagna come Vittorio Sella, avrebbe potuto illustrare una manifestazione concepita per celebrare l’inaugurazione del traforo alpino del Sempione e contendere la palma del successo mondano al bel Ludwig Ferrer, il presidente della Confederazione svizzera che aveva finanziato e, con un prestito ingente a lunghissima scadenza, permesso all’Italia di cofinanziare l’impresa?
Purtroppo, Luigi Amedeo aveva cose più divertenti, se non più importanti per la testa. Salpato da Napoli il 16 (non mancò chi fece notare l’indelicatezza) sul postale tedesco Burgermeister, quel 28 di aprile del 1906 il principe si trovava con il suo seguito in rotta per Mombasa, a pendere dalle labbra di Robert Koch. Fresco di Nobel (1905) per avere virtualmente sconfitto la tubercolosi, il professore tornava in Africa per affrontare la mosca tse-tse e la malattia del sonno che in Uganda infieriva sui sopravvissuti dalla recente epidemia di pesta nera. Al confine tra il protettorato dell’Uganda del britannico “zio” Edoardo e lo stato libero del Congo dello “zio” Leopoldo del Belgio, il duca degli Abruzzi si proponeva solo di arrivare alle nevi eterne e mai calpestate da piede umano del Ruwenzori per dare il nome di Margherita, regina madre d’Italia e sua vera zia, alla punta più alta del complesso montuoso.
Il breve tragitto in carrozza fino all’ingresso dell’esposizione in via Gadio fu trionfale, tra fanfare, bandiere ed evviva. Persino il sole spuntò tra le nubi che minacciavano ancora quella pioggia che il giorno prima aveva fatto temere per la riuscita dell’inaugurazione. (E’ necessario ricordare che dopo lunghi dibattiti si era deciso che il terreno dell’esposizione avrebbe occupato sia il parco cittadino intorno all’Arena sia l’area della piazza d’armi distante dal parco circa un chilometro?).
Fin dal Crystal Palace di Londra, fino cioè dalla prima edizione, la vita delle esposizioni era documentata da pubblicazioni a fascicoli distribuiti su abbonamento. Anche l’esposizione di Milano ebbe la sua pubblicazione a dispense. Ne ebbe anzi due, affidate ai grandi editori milanesi del tempo: Sonzogno, più popolare e tradizionalista anche nelle tecniche di stampa delle immagini, e Treves, più spregiudicato e più moderno. Ma dal Crystal Palace (1851) è passato più di mezzo secolo. In quei cinquant’anni la fotografia ha fatto grandi progressi. I tempi di esposizione si sono ridotti e non solo si possono fotografare ambienti con figure in movimento senza che le persone si riducano a fantasmi evanescenti, ma è possibile anche pubblicare con un procedimento tipografico le fotografie. La rivoluzione estetica nelle illustrazioni è enorme. Anche se i tempi e l’ingombro delle macchine fotografiche non consentono ancora delle vere istantanee, gli editori, Treves soprattutto, hanno scelto di documentare i lavori in corso, come se la fiera fosse un organismo che nasce, cresce per tutto il tempo che le è stato assegnato e si spegne. Quando poi uno dei fotografi accreditati è quel Luca Comerio che nel maggio del 1898 ha piazzato la sua macchina fotografica dietro le barricate per documentare i moti degli operai milanesi e la repressione del generale Bava Beccaris, si può contare su immagini realistiche e fedeli dell’ambiente e della società della fiera: come quella di un operaio in pausa pranzo che seduto su una trave sospesa a chissà quanti metri dal suolo si gode la fiera in attività. Soprattutto in piazza d’armi, dove ci sono i padiglioni specializzati, sabato 28 aprile i cantieri non sono proprio conclusi. Il termine cantiere non è molto appropriato. Nelle esposizioni internazionali solo raramente (a Milano 1906 solo l’Acquario) i grandi padiglioni, talvolta fantastici per disegno, sono stati costruiti per durare, con i materiali e secondo l’arte del muratore. Anche se imitano materiali solidi e preziosi, sono per lo più solo di legno e cartongesso, come gigantesche maquette d’architetto o come sfondi teatrali.
Ad accogliere in piedi il terzetto reale ci sono senatori e deputati del regno, ministri e funzionari del governo, sindaci delle città e ambasciatori di paesi vicini, come la Germania e la Francia, e lontani, come la Russia e la Cina. Fa gli onori di casa il sindaco Ettore Ponti; fa il suo doveroso discorso il ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio del breve primo governo Sonnino, il fiero radicale Edoardo Pantano; la regina Elena invece del nastro sfonda una siepe simbolica. Poi i sovrani montano in carrozza per tornare a Palazzo. Dovranno augustamente pazientare: la visita ai padiglioni è purtroppo rimandata a lunedì. Il pretesto è la pioggia dei giorni passati che ha creato un pantano per gli scarpini e gli orli delle gonne delle signore. In realtà grazie al maltempo, si sono guadagnate alcune ore per portare avanti i lavori.
Non che il problema dei lavori non finiti sembri turbare troppo qualcuno: del resto non è neppure finito quel traforo del Sempione che l’esposizione milanese si appresta a celebrare. La seconda galleria non sarà finita che quindici anni più tardi, nel 1921, con capitali ancora tutti svizzeri, con morti, una sessantina, tutti italiani.
La sera di venerdì il terzetto reale deve, controvoglia, intervenire alla Scala. Pubblicizzata in ogni dove da un felice manifesto di Adolfo De Karolis è in programma la prima assoluta della Figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio musicata da Alberto Franchetti. E’ in programma anche un quadro, uno solo, di Sport, il balletto della premiata ditta Romualdo Marenco e Luigi Manzotti, amati soprattutto a Milano per avere celebrato alla vigilia della Esposizione nazionale di Milano del 1881 la modernità e il progresso con il famoso Ballo Excelsior. Il quadro, intitolato “Canada”, non è stato scelto a caso. Il Canada come paese ha investito molto denaro per allestire un grande stand che prospetti agli aspiranti emigranti italiani, che oltretutto nel 1906 sono in aumento, i vantaggi di scegliere un paese ricco di spazio e di risorse naturali come il Canada.
Il giorno dopo, domenica, i sovrani tornano all’esposizione, senza grandi fanfare. La cronaca registra piuttosto la notizia che Leopoldo, re del Belgio, in visita alla fiera in forma privata, chiede di incontrarli. E’ possibile che si tratti di un gesto di cortesia e di amicizia, ma è difficile non sospettare che la privatezza di Leopoldo non abbia qualcosa a che fare con il rovello di capire cosa stia andando davvero a fare il duca degli Abruzzi sul Ruwenzori, ovvero ai margini del suo immenso e redditizio possedimento personale (sotto il manto di una società filantropica) del Congo. L’anziano sovrano, dall’aspetto patriarcale e dal cuore adolescenziale, come ben sanno le divine dello spettacolo, non immagina che, più che gli intrighi internazionali, i suoi possedimenti dovranno temere l’interesse che la stampa internazionale (Mark Twain in testa) mostra per i modi spicci con cui i suoi agenti curano la colpevole pigrizia dei bantù arruolati nella raccolta della gomma.
Resta, per quanto riguarda domenica 29 aprile, un piccolo mistero. Il noto studioso di cartoline (quale strumento di comunicazione culturale fossero le cartoline nei primi decenni del secolo scorso e quale preziosa fonte di informazioni siano oggi è inutile ricordare) Enrico Sturani si è imbattuto in un pezzo tanto raro quanto difficile da interpretare. Come molte cartoline dell’epoca l’allegoria è affidata all’immagine di una donna prosperosa. Impersonando le ferrovie italiane la signora si trova circondata da vari stemmi tra i quali spicca la croce bianca in campo rosso della Svizzera. La scritta celebra in data 29 aprile la posa della prima pietra della nuova stazione centrale delle ferrovie di Milano. Come si sa, gli interminabili lavori per la nuova stazione non partirono che nel 1911, per il cinquantenario dell’Unità. Nel 1906, se già se ne parlava, non era ancora stato scelto un progetto. Chi mai avrà dovuto occuparsi della posa di quella prima pietra farlocca? Il povero Vittorio Emanuele, tenuto lontano ancora una volta delle sue monetine, o il fiero radicale Edoardo Pantano, ministro ancora per trenta giorni tondi? Il primo governo Sonnino cadde esattamente il 29 maggio.
Lunedì 30 tutto andò bene. I sovrani furono così felici di potere viaggiare come comuni mortali sul tram elettrico che univa i due tronconi della fiera e l’accoglienza fu di nuovo così festosa e attenta, che non poterono fare caso allo stato di avanzamento dei lavori. Il 2 maggio poi fu la grande giornata di Letizia, che poté sfoggiare le sue competenze e il suo modernismo in occasione del clou, sportivo e industriale insieme, di tutta l’esposizione: l’inaudita gara attraverso la pianura lombarda tra palloni aerostatici e automobili.
Mercoledì 3, già sesto giorno di esercizio dell’esposizione, i sovrani si presentarono però di nuovo ai cancelli. Nessuno era stato avvisato della loro visita, nessuno li aspettava, nessuno aveva potuto allestire il paravento dell’etichetta e dei festeggiamenti. Lasciati quasi a loro stessi, finalmente i sovrani poterono rendersi conto della realtà dell’esposizione. Quello che videro li soddisfece, li portò a ben sperare per il futuro del regno. E se si resero anche conto che a sei giorni dall’inaugurazione c’erano ancora molti lavori in corso, non ne fecero un cruccio: evidentemente la puntualità era una dote essenziale per i re, non per le istituzioni e le imprese edili.
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