Monica Bellucci, il volto più famoso delle campagne pubblicitarie di Dolce & Gabbana. I due stilisti, condannati in primo e secondo grado per esterovestizione, sono stati assolti con formula piena in

Manette e vecchi merletti

Michele Masneri
Dev’essere una nemesi sartoriale: a forza di giocare col fetish, qualche stilista finisce davvero con i ferri ai polsi. Per esempio Gai Mattiolo, prima arrestato e ora assolto.

Dev’essere una nemesi sartoriale: a forza di giocare con manette, frustini, immagini carcerarie e delinquenziali, rapper con catenoni e mutande e pelurie e tatuaggi e “trovo la mia ispirazione nella strada”, qualche volta gli stilisti in galera ci finiscono sul serio. C’è finito (ma ai domiciliari) il povero Gai Mattiolo, arrestato per bancarotta fraudolenta, e recentemente assolto con formula piena. Non certo un trasgressivo, lontano dai latex e dalle provocazioni e dagli strappi di primari stilisti milanesi ed esteri, Mattiolo, portatore di una moda papalina, già donatore a Giovanni Paolo II di “casule” d’alta moda, già fornitore di Raffaella Carrà, Valeria Marini e Ivana Trump, dunque sciure locali o globali poco radical, e inventore del famigerato “bottone gioiello”, che contraddistingue la sòra romana e che spopola nel Grande Raccordo Anulare: e però non costituisce reato. Per lui la procura di Roma chiese una condanna a quattro anni e quattro mesi, ma è stato poi assolto proprio “perché il fatto non sussiste”.

 

Ma prima di Mattiolo già quasi tutti gli stilisti italici furono o sono stati almeno indagati, e sempre per questioni relative al fisco, alla “esterovestizione” di società in qualche paradiso fiscale, per pagare meno tasse. Pochissimi sono andati davvero in galera. Quasi nessuno. Solitamente vengono assolti dopo gogne mediatiche proporzionali alla loro fama e al loro carattere, al numero di boutique. E’ successo anche a Roberto Cavalli, che ieri ha annunciato la vendita del suo gruppo al fondo Clessidra. Nel 2002 venne accusato di frode, e poi nel 2010 assolto (perché il fatto non sussiste). E’ accaduto naturalmente a Dolce e Gabbana. Nonostante un’estetica di coppole, sguardi in tralice e lupare bianche e nere su scogli delle migliori Eolie, con nonne pelose a rimirare nipoti forse illibate per fuitine internazionali, Dolce e Gabbana non furono indagati per mafia, neanche un misero concorso esterno, ma per la solita “esterovestizione”. Condannati in primo e secondo grado a un anno e sei mesi di carcere, nonostante la stessa procura avesse chiesto l’assoluzione in appello, poi in Cassazione sono stati assolti, anche loro, con formula piena. E indagati son stati pure Miuccia Prada e il marito Patrizio Bertelli, l’anno scorso, sempre per evasione, con una vicenda surreale per cui all’inchiesta si arrivò tramite una “voluntary disclosure” e autodenuncia pradesca, e la volontà di pagare tutti gli arretrati.

 

Forse tra i fumi delle sfilate c’è anche del fumus persecutionis. Contro Dolce e Gabbana, ai tempi della condanna, era sceso in campo l’assessore al Commercio di Milano sostenendo che la città non si sentiva dal duo rappresentata. A questo punto D & G avevano organizzato una serrata dei loro negozi e acquistato pagine sui principali quotidiani. “Non siamo più disposti a subire ingiustamente le accuse della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle entrate, gli attacchi dei pubblici ministeri e la gogna mediatica a cui siamo sottoposti ormai da anni”, scrissero i paladini della famiglia misto-sintetica.

 

Poi tutto si appianò. Attendendo il prossimo stilista esterovestito o presunto tale. Il tasso di griffe indagate è infatti altissimo e ha radici antiche: nel 1996 il “processo del secolo” vide condannato Giorgio Armani, nove mesi di carcere e cento milioni di lire di risarcimento, per aver pagato tangenti a ispettori particolarmente assidui delle Fiamme gialle; Armani patteggiò, mentre i colleghi Mariuccia “Krizia” Mandelli, Gianfranco Ferré , Girolamo Etro e Santo Versace, fratello di Gianni, vollero andare in giudizio per dimostrare che dare soldi agli ispettori troppo solerti era l’unico mezzo per toglierseli di torno. In quell’occasione Armani dichiarò: “Non mi sento in colpa con la mia coscienza, mi sembrava di aver pagato una sorta di conto al ristorante”. Il prezzo dovuto “se non volevo che chiudessero i miei negozi e i miei stabilimenti”. E Santo Versace: “Ma sì, facciamola l’elemosina; facciamo contenti ’sti morti di fame”. Forse una certa übris favorisce l’accanimento.

 

Altri indagati più recenti: Luigi Maramotti, patron di Max Mara, fu accusato per la solita esterovestizione ma poi fu assolto da tutte le accuse (il fatto non sussiste). L’unico che abbia fatto il carcere vero fu Giovanni Burani, figlio di Mariella Burani, marchio in ascesa per casalinghe disperate e no degli anni Novanta che sbarcò in Borsa e ivi repentinamente crollò, portando a San Vittore il Burani jr che già era stato premiato come “manager dell’anno”, per “l’utilizzo sapiente della leva finanziaria”. La leva finanziaria l’aveva portato in cella (sei anni, come il padre, però ai domiciliari), e non l’evasione. Perché l’evasione esterovestita alla fine è un venticello, nessuno ci finisce mai in galera, è più una sorta di rito di passaggio per ogni stilista un po’ famoso.
Nella morfologia della fiaba di ogni griffe che si rispetti, è il momento di “down” narrativo che porta poi la medesima griffe alla rinascita; dopo le origini umili e appassionate, la prima sfilata, il boom rapido di fatturati e onori, ecco il momento della manetta, quasi sempre solo prospettata, che funge da lavacro di invidie sociali, forse di ribellioni di un popolo a scarso valore di acquisto verso una casta di creativi che non solo ti determinano il colore e la foggia della mutanda ma possono offrirti famiglie e barche e stili di vita inarrivabili, sproloquiando sui massimi sistemi con punti di vista normalmente deprimenti. Dunque, il popolo vuole mandarli una seratina in carcere, un bagno di umiltà non gli farà male; come quando si mandò brevemente Sofia Loren negli anni Ottanta a Poggioreale.

 

La manetta poi dev’essere nemesi pure di tutto un armamentario fetish, a cui la moda, alta o media o bassa tanto ha attinto: dai corpetti sadomaso di Jean-Paul Gaultier per i primigeni tour di Madonna, alla fotografia di Helmut Newton con signore alle prese con fruste pugnali e pistole, a Lady Gaga carcerata molto chic in un video di massimo successo e senza 41 bis ma anzi grandi facoltà di comunicare con l’esterno, “Telephone”, con abito regolamentare a strisce, e pronta per fare da testimonial poi a Versace e a Alexander McQueen che le farà delle famose scarpe non molto ortopediche.

 

Tanta follia creativa, che a volte si rifà sui suoi creatori. La manetta non sadomaso ma poliziesca si è stretta ai polsi di uno dei couturier più trasgressivi, John Galliano, in occasione di un già celebre sbrocco pre-salviniano, quando in un baretto del Marais il 25 febbraio 2011 prese a insultare dei vicini di tavolo vituperando le loro presunte origini semitiche, e fu sottoposto poi ad arresto ma soprattutto a character assassination e damnatio memoriae. Cacciato su due piedi dalla fondamentale maison Dior, perse anche la causa di risarcimento contro la capogruppo Lvmh, secondo lui “consapevole che io prendessi Valium per stare dietro ai ritmi delle sfilate”. Per gli appassionati, si segnala in Rete una favolosa parodia di Costantino della Gherardesca urlante a una vicina di tavolo: “Le tue nonne hanno fatto benissimo a uccidere Gesù Cristo, ma che scarpe di merda hai, sono di quel burino di Diego della Valle!”. E altre frasi pochissimo corrette, però utili a sollevare un tema anche urgente, forse. La storica critica dell’Herald Tribune, oggi a Vogue, Suzy Menkes, affrontò infatti la questione degli stilisti a rischio-sbrocco sostenendo che nonostante appartamenti di prestigio e viaggi in aereo privato e tutto l’apparato, costoro erano trattati in fondo come materie prime dai grandi gruppi del lusso, costretti a ritmi sempre più intensi di lavoro col moltiplicarsi delle collezioni, sostituiti e sostituibili peggio che operai di Mirafiori senza più articolo 18.

 

[**Video_box_2**]Oggi comunque Galliano è direttore creativo della maison Martin Margiela, marchio di proprietà di Renzo Rosso, il patron di Diesel, e continua la sua riabilitazione: anzi si sa che il 28 maggio parlerà di moda nella Sinagoga Centrale di Londra. Come anticipa il Telegraph, il designer sarà “keynote speaker” durante un incontro sul tema “L’abito fa l’uomo”, moderato dal rabbino Sam Taylor. Se Philip Roth è in città, o al limite anche Alessandro Piperno, vorremmo leggerne una cronaca. Altri arresti celebri non se ne ricordano: non è andato in carcere Dov Charney, fondatore dell’impero delle magliettine striminzite American Apparel, che però entra ed esce dalle aule di giustizia per cause generalmente relative a molestie nei confronti di dipendenti e/o giornaliste (coerentemente con un’estetica di smutandamenti giovani in puro cotone che ha fatto la fortuna del marchio, peraltro). Più spesso i processi sono mediatici: ecco lo spiumaggio televisivo recente di Moncler, marchio rilanciato dall’imprenditore Remo Ruffini e sottoposto a novembre al trattamento “Report”, lì dedicato al peeling cruento ed esterovestito delle oche di fascia alta, con conseguente crollo in Borsa del gruppo.

 

Ma se gli stilisti raramente varcano le porte carcerarie, l’universo carcerario sogna tantissimo la moda: non si contano le iniziative di taglio e cucito organizzate per detenuti e detenute (anche corsi di modelle) che forse tramite la couture vogliono riabilitarsi per reati gravi e no. Il mese scorso, presso la Casa circondariale di Pozzuoli, vasta eco per un défilé di detenute che “sfilano con abiti firmati da stilisti d’eccezione in un evento organizzato dalla P & P Academy in collaborazione con l’assessorato alle Politiche sociali del comune di Pozzuoli” secondo lanci di agenzie; mentre lo stilista Alviero Martini in passato si recò meglio di un deputato Radicale dai carcerati di Bollate a raccontare la sua vita di uomo e di imprenditore (forse volendo giustamente espiare per le sue carte geografiche).

 

E in carcere, poi, tante stiliste mancate, anche: si sa che Katharina Miroslawa, protagonista di uno dei delitti più chic degli anni Ottanta, avendo assassinato tra l’8 e il 9 febbraio 1986 il suo amante, l’imprenditore Carlo Mazza, che le aveva inopinatamente intestato una assicurazione sulla vita, si è emendata in carcere a Venezia trovando Dio e una passione per la moda, annunciando che una volta uscita avrebbe disegnato una linea di borsette. Non aveva incontrato né Dio né la voglia di lavorare invece un’altra detenuta assai elegante, Patrizia Gucci, condannata a 26 anni per aver fatto sparare al marito Maurizio Gucci, erede della dinastia della pelle. Celebre anche per essere stata consigliata nel delitto da Giuseppina (Pina) Auriemma, maga in proprio dopo aver gestito un punto vendita Gucci a Napoli (condannata a 19 anni), Reggiani in carcere non si dette molto da fare. “Si dava arie. Da fuori si faceva portare profumi costosi, vestiti attillati. L’estate scorsa, le ore d’aria le ha passate a prendere il sole. Era nerissima” (Corriere della Sera, 8 marzo 1998). Nel 2011 rinunciò alla semilibertà, che pure le sarebbe stata concessa, sostenendo che è meglio il carcere che lavorare.

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