Una gita di brividi e favole
Mamma sei sicura? Sì, fidati di me. Non c’è un mostro nell’armadio? No, non c’è. Come fai a saperlo? Lo so e basta, ho controllato, adesso dormi. Mamma ma dalla finestra può entrare qualcuno? No, è chiusa bene e poi siamo in alto. Ma se prendono una scala? Arriva la polizia e comunque cadono prima, li buttiamo giù. Mamma ma se viene uno tsunami e ci porta nel mondo di Oz? A Roma non ci sono gli tsunami, però dormi. Ma i tornado? Ehm, no, e comunque ci salviamo. Mamma ma è vero che arriva l’Isis e ci uccide tutti, che ce lo dice sempre Giorgia a scuola? No non viene. Come fai a saperlo? Lo so e basta, tu fidati di me. Ma noi siamo più forti perché siamo buoni? Sì siamo più forti (a un certo punto, quando i bambini cominciano a formulare ipotesi e a chiedere spiegazioni, non resta che usare affermazioni universali, rassicurazioni parentali vaghe e imprecise ma, ancora per qualche anno, potenti: ho ragione io, tu devi solo fidarti di me). Mamma se viene l’Isis io comunque sono in gita con la classe per tre giorni, sono salva. Perfetto, allora veniamo tutti in gita con te. No! La gita è senza genitori, tu mamma non puoi venire, ma stai tranquilla non ti succede niente, fidati di me, va’ a dormire. Mamma? Amore sei ancora sveglia ma è tardissimo. Mamma volevo solo dirti che in gita devo portare una borraccia. Ma la gita è fra tre mesi. E’ lo stesso, mi serve una borraccia.
Tre mesi dopo, la sera prima della partenza, la valigia era pronta e chiusa da due settimane, con dentro magliette e calzoncini ormai ammuffiti, ma è stata riaperta ed esposta all’aria per infilarci dentro i pupazzi da guardia, quelli per la notte. Il panda e la pecora, e anche il coccodrillo, mamma lo so che è domattina ma mi sembra che manchi ancora tutta l’eternità. I giorni precedenti lei e le sue amiche si erano allarmate a vicenda: e se ci ammaliamo il giorno prima? Se mi viene la febbre? Se vomito e non posso partire? Bambine di nove o dieci anni giravano per le case, giorno e notte, con termometri in mano e sguardi febbricitanti, imploravano vitamine, vaccinazioni, rassicurazioni universali come quelle per il mostro nell’armadio. Mamma mi ammalo prima della gita? No. Come fai a esserne sicura? Non hai niente. Mi fa male un dito. Al massimo te lo taglio e parti lo stesso. Aurora a forza di sgranare gli occhi per controllare se erano lucidi si è fatta venire la febbre, trentasette e due, scatenando il panico nella classe: sarà un virus? Salterà la gita?, e una madre ha creato subito, con un certo gusto per le catastrofi, un gruppo su WhatsApp chiamato FEBBRE per monitorare le condizioni di tutti i bambini. Aurora è guarita nel giro di dieci minuti, ma ha perso due giorni di scuola, il saggio di scherma e tre feste di compleanno per rimettersi in forze prima della partenza. Che era la mattina presto, ma il pullman era rimasto incastrato tra le migliaia di pullman che in questo periodo conquistano la metà di Roma, mentre l’altra metà è bloccata da folle di genitori, bambini, maestre e trolley che aspettano un pullman incastrato. Eravamo tutti lì, poco dopo l’alba, un po’ euforici un po’ spaventati, a fare baldanzose raccomandazioni pubbliche a voce altissima (state sempre tutti insieme, non distruggete le stanze in albergo, ubbidite sempre alle maestre), e preghiere private sussurrate (ti prego lavati i denti almeno la mattina, ti prego non attraversare la strada bendato, ti prego non chiamare la maestra “ehi nonnetta”), mentre i bambini cominciavano già a scartare i panini per il viaggio, a scattarsi fotografie, a scambiarsi i trolley, a programmare il pigiama party e a fare un tale baccano che all’improvviso è stato chiaro a tutti quale fosse il bello della gita: i genitori non ci sono. Ma non è bello solo per i bambini, lo è soprattutto per i genitori: possono per qualche giorno struggersi comodamente su un gruppo WhatsApp chiamato GITA, in cui chiedere informazioni, commentare le notizie con decine di cuori e intanto sorseggiare vini francesi in posti in cui è severamente vietato l’ingresso ai bambini e ai trolley.
In quei giorni sospesi, in cui passiamo le sere a bere vini francesi raccontandoci le nostre gite di trent’anni fa (“mia madre mi fece i panini al formaggio, ero molto felice: mi misero la borsa nel portabagagli vicino al motore e il formaggio si fuse e all’arrivo tutto il mio cibo era un’unica massa di formaggio sciolto che aveva invaso anche le magliette, ho pianto tutta la notte e ho urlato al telefono a mia madre che la odiavo”, “io invece ho pisciato dentro il pianoforte della hall dell’albergo e ho richiuso e non mi hanno mai beccato”, “io ho fumato, poi mi sono riempito la bocca di dentifricio e sono collassato”, “io ho visto per la prima volta le tette di una mia compagna”, “ma alle elementari?”, “sì, era ripetente”), le maestre sono le regine, oltre che le sante, le eroine, le fate, le madri e le martiri. Non possono mai permettersi di avere il telefono scarico, perché i genitori apprensivi devono poter chiamare ogni due ore, non possono non rispondere, perché i genitori apprensivi al quarto squillo senza risposta danno l’allarme su WhatsApp, non possono nemmeno dormire la notte, perché i bambini delle elementari (non fumano canne, non danno fuoco alle poltrone dell’albergo, non si ubriacano, non hanno valigie piene di vodka e non cercano di calarsi dalla finestra per andare in discoteca, non vanno in ventotto tredicenni in gita a Sarajevo e sette tornano incinte), spesso hanno paura di dormire da soli e danno l’assalto al letto della maestra. Il compito dei pupazzi da guardia, stipati nei trolley, sarebbe proprio quello di impedire l’assalto alle maestre, che quindi prima dell’alba si ritrovano nel letto anche coccodrilli di gomma, panda con gli occhi enormi, spiderman di plastica durissima e topi che sembrano veri. Dal ritorno dalla gita, quindi, le maestre meritano una venerazione assoluta, che cresce esponenzialmente per ogni notte fuori in più, e l’applauso che le incorona quando scendono dal pullman zoppicando per le ferite riportate in battaglia non è sufficiente a restituire loro gli anni di vita perduti in un attraversamento pedonale in cui Lorenzo comincia a correre perché ha visto un’edicola e Arianna si perde in un negozio che vende basiliche di gesso che cambiano colore se piove (in una gita di un prestigioso liceo in Marocco, molti anni fa, una ragazza è stata anche rapita nel deserto, senza conseguenze, per qualche ora, ma il professore che accompagnava la classe non è mai più tornato alla normalità). Portano i bambini in gita, e promettono che monitoreranno giorno e notte il diabete di uno dei compagni, e lottano con i genitori per ottenere il permesso, e discutono da sole il pomeriggio tardi con alcuni padri severi del Bangladesh che non vogliono lasciare dormire le bambine fuori casa, e promettono alle bambine che vinceranno loro, che alla fine il papà dirà di sì: quando alla fine il papà dice davvero di sì, e chiede rassegnato se serve la borraccia, e quanti panini, le maestre sono davvero le sfolgoranti regine del mondo.
Ma la mattina della partenza, fra raccomandazioni pubbliche, preghiere private e cali di pressione (bambini tenuti a digiuno per non vomitare in pullman, sotto il sole cominciano a impallidire e si accasciano sulle automobili parcheggiate, le madri paralizzate dal panico gridano al virus, fino a che arriva una maestra con una bustina di zucchero, un panino al salame e il bambino si rianima), tutta l’attenzione era per l’autista del pullman. Noi madri lo fissavamo, riunite in piccoli gruppi fintamente disinvolti, e alcune confessavano di avere fatto molte fantasie su di lui (un marito con il casco in mano e la cravatta già allentata per lo sforzo di tenere trolley e figlio in motorino ha detto: “Ahò, nun ve basta l’idraulico, mo’ pure l’autista?”), ma non fantasie erotiche su camionisti e autostoppiste, piuttosto quel genere di fantasie spaventose che portano registi canadesi a girare film come “Il dolce domani”, fantasie terrificanti che ogni genitore tiene a bada come può e nasconde dietro le raccomandazioni sullo spazzolino da denti. Anche perché ai bambini non importa se i genitori sono preoccupati, i genitori esistono appositamente per preoccuparsi, e non importa nemmeno se i genitori urlano raccomandazioni assurde come “sta’ lontana dai fossi” – mia madre me lo diceva anche quando andavo in gita a Verona –, ma si accorgono immediatamente se i genitori hanno paura, perché la paura è una cosa i genitori non devono avere: una sera, uscite dalla pizzeria di fronte a casa, mia figlia ha attraversato la strada senza guardare, correndo e saltando, mentre arrivava un’auto veloce e piena di ragazzi festanti che hanno inchiodato gridando a venti centimetri da lei: rideva, poi ha visto la mia faccia e ha capito che cos’è la paura, ogni volta per strada mi accorgo che mi spia, per vedere se scoppio a piangere o mi metto a urlare contro le auto.
[**Video_box_2**]Alcune madri quella mattina trascinavano trolley sempre troppo grandi e troppo pieni insieme a un po’ di paura, che tenevano a bada. Si sono avvicinate all’autista, che stava fumando una sigaretta al sole, e l’hanno accerchiato in cinque, sorridendo. L’autista all’inizio era lusingato e attonito da quella mamma bionda e alta che scuoteva i capelli, si toglieva gli occhiali a specchio e intanto gli chiedeva come stava e che cosa aveva fatto la sera prima. Poi ha capito. “Che vi devo dire, ieri era domenica e non ho lavorato, sono andato al mare con mia moglie ma sono tornato presto, vivo all’Eur, c’ho un po’ di preoccupazioni per mia figlia che quello sfaticato non se la sposa, però insomma non bevo, ho dormito otto ore, le scappatelle poi ce le hanno tutti, dobbiamo pur vivere, signò vuole sentire l’alito?”. La signora, in effetti, voleva sentire l’alito. E a un tratto è stato chiaro: probabilmente centinaia di madri davanti a centinaia di pullman sparsi nella città in questo mese di gite scolastiche stavano sorridendo minacciose all’autista chiedendogli di poter sentire l’alito. Per illudersi di avere tutto sotto controllo, per essere coerenti con “fidati di me”, in una confusione tra potere e impotenza che i bambini hanno capito benissimo: mamma se vuoi telefonami, però solo di sera, dài tieni un panino, e poi quando torno ti porto un regalo.
Arene di Verona che passano dal viola al rosa, calamite a forma di s. Francesco che addomestica il lupo, statuine del presepe, un Vesuvio che si accende e fa il rumore dell’eruzione, la penna con dentro la gondola che si muove nell’acqua, anelli a forma di baffi, macchine fotografiche giocattolo con dentro le immaginette di Assisi, cappellini con la scritta: Italia forever, collane con i cuori a metà (una metà va offerta alla migliore amica o al bambino di cui ci si è innamorate in gita, che senz’altro schiferà il cuore e darà il via, da quella gita, all’èra delle sofferenze d’amore), biglietti magici scritti da zingare che prevedono il futuro: “Concediti di essere felice”, mi ha portato in regalo mia figlia (mio marito si è molto rabbuiato per il suo e credo che l’abbia gettato via di nascosto: “Attento al cibo e al fumo, stai proprio esagerando”).
In gita nessuno ha pianto, nemmeno di notte, nemmeno quando è stato chiaro che non si poteva giocare a calcio in albergo, nemmeno quando Sara non si trovava più perché si era incantata davanti a un lupo di peluche in una vetrina, nemmeno quando a Massimo è uscito il sangue dal naso a colazione e gridava: chi vuole un latte macchiato? All’arrivo però, davanti a tutti i genitori fuggiti dagli uffici e raggruppati davanti al punto di ritrovo del pullman (genitori che scrutavano l’orizzonte come cow boy nel deserto mentre dicevano le solite cose: è finita la pacchia, addio pace), qualche bambino è sceso in lacrime. Mamma ho perso tutti i regali, papà ho rotto la macchina fotografica, mamma ho chiesto cinque euro a Erica perché avevo finito i soldi e lei li rivuole subito, mamma ho perso l’ombrello, il k-way, la borraccia, le mutande, il trolley. La magia della gita e della scoperta del mondo era finita, e la maestra si infilava stremata dentro un autobus, incurante degli applausi (la notte seguente, poi, il gruppo di WhatsApp ha avuto ancora una ragione di vita: abbiamo fotografato il contenuto delle valigie dei nostri figli, per cercare di redistribuire le proprietà di mutande, felpe, pupazzi). L’autista è sceso, si è acceso una sigaretta, noi in mezzo alle lacrime e alle statuine di s. Francesco ci siamo dimenticate di dirgli grazie ma lui, risalendo, ci ha strizzato l’occhio e ha detto: ciao signore, finché in giro ci sono uomini come me potete stare tranquille.
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