Web reputation
Chi è? Che cosa ha fatto? Google il moderno oracolo da interrogare. Ma è facile farsi cattiva fama online. E l’oblio non si può comprare. Per valutare un candidato politico o un avvocato, prima di scegliere un albergo o un ristorante, ne “googliamo” il nome.
Nell’èra predigitale, fino alla fine del Novecento, era il soprannome a qualificare la reputazione di una persona. C’era “Bocca di rosa”, passata alla storia grazie alla canzone di De André; “Tiradritto” per il boss della ’ndrangheta Giuseppe Morabito, che con il mitra non sbagliava un colpo; “il Picconatore” per il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. “Serpico”, che in origine era il cognome di Frank, il coraggioso poliziotto americano, ha poi indicato gli incorruttibili e i dotati di fiuto: l’Agenzia delle entrate, giocando sull’acronimo di “servizi per il contribuente”, ma con chiaro intento intimidatorio, ne ha fatto un brand e ha chiamato proprio Serpico un temuto computer che scova le truffe fiscali.
I siciliani, sapienti, chiamavano i soprannomi “li ’ngiurii” – da ingiuria – perché lì, nell’isola, si era capito presto quanto una reputazione, esattamente come una benedizione o una maledizione, una volta cristallizzata nel nomignolo, potesse danneggiare la vita a una persona, o addirittura a una famiglia, per intere generazioni.
Nell’èra veloce di internet, Google è il moderno oracolo da interrogare prima di agire, e la reputazione è diventata la nuova moneta globale. Prima di un colloquio di lavoro; prima di scegliere un prodotto, un albergo, un ristorante; prima di investire in azioni di questa o quella società; per valutare un candidato politico, un avvocato, un commercialista, tutti noi, per dirla con uno sgraziato neologismo, ne “googliamo” il nome. Avere una buona reputazione online è moneta sonante. Al contrario, averne una pessima, o semplicemente avere un omonimo sbagliato, può renderci la vita un inferno.
Il nostro passato, quello che abbiamo immesso in rete, le nostre tracce digitali, ma anche quello che gli altri dicono di noi, rimarrà scritto per sempre. Pronto a essere tirato fuori al momento giusto. O, più spesso, al momento sbagliato. Già, perché siccome l’intelligenza è artificiale, Google valuta con criterio squisitamente matematico cosa mostrare nella prima fondamentale riga della prima pagina di ricerca, che è il biglietto da visita più letto. Quello fatale.
Per persone, governi, aziende e istituzioni, l’algoritmo favorisce le voci più visitate. Così, nella ricerca sulla secolare “Guardia reale di Buckingham Palace”, domina il racconto di quell’unica volta in cui dopo anni di onorata carriera l’integerrimo soldato in giacca rossa e colbacco scivolò davanti a centinaia di turisti e cadde a terra durante la cerimonia del cambio della guardia. Per la voce “Madonna” Google riconosce nelle prime pagine solo la cantante (la Vergine Maria compare solo a pagina 7, ben oltre Madonna di Campiglio).
Che dire poi di quel bravo poliziotto, uno dei migliori capi della Mobile d’Italia il cui nome, dopo vent’anni di onorata carriera e centinaia di casi risolti, verrà d’ora in poi identificato solo con l’unico errore giudiziario (forse neanche suo, ma più probabilmente del magistrato)? Chiuderà la sua carriera in polizia aeroportuale e i suoi pronipoti, cercando notizie dell’avo in rete, si vergogneranno di lui.
Tutto il glorioso passato e l’edificante futuro prima e dopo questi episodi buffi, gonfiati, o anche gravi, insomma “cliccati” – tanto per piegarci a un altro termine dal suono poco musicale – verrà dimenticato; sepolto in quinta o sesta pagina di Google. Quelle che nessuno arriva mai a leggere.
I danni possono essere gravissimi, irrecuperabili (come nel caso di Strauss-Khan, che vede comparire solo dopo pagina 25 le prime voci che ricordano la sua abilità professionale da direttore generale del Fondo monetario internazionale, sepolta addirittura dopo un link sul Viagra), o solo terribilmente fastidiosi.
Con una cattiva reputazione online un uomo, anche bello, non avrà con chi uscire a cena, quando la donna incontrata in Facebook o in fila alla posta digiterà il suo nome prima di concedere l’appuntamento. Non potrà diventare autista di Uber, aprire un’attività di ristorazione in casa, trovare amici o soci in una nuova città.
Lo sa bene la Corte europea che con una singolare sentenza ha di fatto abdicato in favore del motore di ricerca, ammettendo implicitamente di non controllare più le politiche nazionali, o sovranazionali, nella controversa questione del diritto all’oblio e forzando Google a entrare in una decisione quasi giuridica. Ora c’è dunque la possibilità di cancellare dai risultati di ricerca link a contenuti lesivi della reputazione; ma a determinate, ferree condizioni. Sia chiaro, il link rimarrà nel web, ma non nei motori di ricerca europei (a che pro, se comunque entrando in Google americano o canadese, senza muoverci dalla sedia di casa, ritroviamo esattamente le informazioni rimosse?).
Una potente azienda italiana, quando i motori di ricerca muovevano i primi passi, immaginò che pagando, o comprando azioni di Google, si potessero “persuadere” i suoi dirigenti a far eliminare per sempre i link ai contenuti poco edificanti riguardanti il suo amministratore delegato. Fu grande lo stupore quando si capì che l’algoritmo non scende a compromessi, e non fa sconti. Insomma non accetta “spintarelle”. E non solo: ogni modifica lascia traccia.
Nel mondo anglosassone il problema viene aggirato tramite la cosiddetta “ingegneria reputazionale”: nell’Università di Oxford, ad esempio, è nato un dipartimento in cui si studia come creare, sostenere, ricostruire una reputazione. “Ogni azienda ha una reputazione multipla. Ognuna di queste reputazioni è riferita a un ambito e recepita da un target circoscritto. Possono essere scisse, isolate e valutate economicamente una per una”, spiega Rupert Younger, direttore del centro di Corporate Reputation. Come si agisce? “Nel caso di gravi danni reputazionali, invece di tentare di rispondere a tutti gli attacchi nei socialnetwork si produce ad hoc una massiccia dose di contenuti positivi”. Talmente tanti e condivisi, da arrivare nel tempo a spingere quelli negativi più in basso e nelle pagine meno lette di Google.
Ma qualcuno punta il dito contro chi monda anime a pagamento. Contraddicendo qualsiasi reputazione che vuole gli inglesi integerrimi e i napoletani truffaldini, a insorgere contro l’ingegneria reputazionale che spopola nel mondo anglosassone è un avvocato napoletano, Eduardo Marotti. “E’ una trappola. In questo modo non si saprà mai veramente con chi si ha a che fare. La reputazione diventa un business nelle mani di soggetti senza scrupoli”. Marotti sostiene che la reputazione si deve costruire lentamente, come una casa. E quando si è proprietari di una casa, su cui si può iscrivere un’ipoteca, è più facile ottenere dei prestiti. “Il maquillage alla reputazione online è dannoso perché chi pensa di investire su una cosa o una persona, in realtà ne ha di fronte un’altra”.
L’avvocato napoletano ha fondato la Banca della reputazione. A sessant’anni ha avviato una startup europea oggetto di brevetto negli Stati Uniti che propone un rating reputazionale. Un codice alfanumerico che indica la reputazione del soggetto o dell’azienda solo dopo che professionisti (notai, avvocati, commercialisti o revisori legali) abilitati hanno richiesto e ritirato, autorizzati, certificati su formazione e titoli di studio, profilo penale, fiscale e una valutazione dell’impegno civile. In questo modo il capo dell’ ufficio appalti o dell’ufficio del personale, ma anche una ragazza che vuole prendere un passaggio su una BlaBla car, possono consultare online il profilo “Mevaluate” della persona o dell’azienda e avere certezza quantomeno dei fondamentali. A garanzia del tutto, un Comitato etico mondiale il cui segretario generale è Mariarosaria Taddeo, filosofa anche lei di Oxford e consulente Nato.
Quella che si sta scatenando intorno alla reputazione è una vera e propria guerra, che non esclude colpi bassi, come immettere in rete maldicenze su aziende concorrenti; o filmati, fotografie e falsità sui soggetti odiati.
Anche a Mountain View, sede di Google in Silicon Valley, se ne sono resi conto e hanno adottato un software “antibufala”, che penalizzerà i contenuti inattendibili spingendo in basso i risultati di siti web che più spesso di altri si sono rivelati menzogneri.
Virtuale e reale ormai sono vasi comunicanti. Anzi, un unico vaso. Un ambiente connesso che il filosofo Luciano Floridi, direttore dell’Internet Institute di Oxford, ha battezzato “infosfera”, in cui le azioni compiute nel reale hanno immediate conseguenze nel virtuale e viceversa. I più scaltri, consapevoli di essere uomini “onlife”, cominciano a pensare e valutare bene le conseguenze reputazionali prima di agire. Si comportano non più come sarebbe nella loro natura, ma nel modo in cui vogliono essere considerati, orientando l’identità verso il proprio ideale. Un fortissimo condizionamento autoimposto che secondo gli anglosassoni, può portare a migliorare se stessi.
Come Pollicino i più disciplinati lasciano continuamente tracce digitali nel solco prescelto che poi ripercorreranno. Aiutati dagli algoritmi – che propongono spontaneamente contenuti nuovi basandosi sulle orme delle ricerche del passato – otterranno così un doppio risultato, nella reputazione e nella formazione.
La questione reputazionale investe anche l’Aldilà. Se Cecilia Metella, nobildonna romana, nel suo mausoleo funebre fece incidere la storia (rivisitata) sua e della sua famiglia, privilegiando gli aspetti che intendeva tramandare ai posteri, Facebook sta pensando alla gestione delle bacheche dei defunti, che tra pochi decenni saranno più numerose di quelle dei vivi. Passeranno da “pagine del diario” a “pagine del ricordo”. L’“interramento digitale” prevede la cancellazione di dati sensibili e poco edificanti, per le visite dei posteri.
Tuttavia può essere più semplice accogliere l’idea che la rivoluzione che stiamo vivendo impone una rielaborazione dei valori e la riconsiderazione del concetto di perdono. L’onta da lavare, l’onore leso per sempre, la disperata vergogna sono tali infatti solo se riferiti a valori legati a un’èra in cui si era portati a vivere una sola vita, un solo matrimonio, un solo mestiere e l’identità si cristallizzava nel tempo e nello spazio. Nell’iperstoria è superato. I nativi digitali sono naturalmente allenati ad accettare, inglobare e ricomporre ricordi belli e brutti all’interno di repentini cambiamenti di vita e identità. Addirittura valorizzano gli errori commessi. Gli abitanti della Silicon Valley hanno scoperto che “chi sbaglia impara” e, pensa un po’, ci fanno intere lezioni a Stanford. A Napoli invece resilienti lo sono sempre stati. Infatti, la pizzeria in cui fu ucciso un boss che cadde “con la faccia nella pizza” (ormai diventato un detto napoletano), anziché essere stata chiusa, come sarebbe successo in qualsiasi altra parte del mondo, è oggi tra le più gettonate della città proprio a causa di quell’episodio. Ugualmente, per una fiction sulla vita in carcere, un passato da galeotto è stato utile a ottenere il contratto da sceneggiatore.
E anche i famosi “influencer” del web, ricercati soprattutto dalle aziende e dalla politica per orientare i flussi delle masse, ricordano assai i nostri “faccendieri” , gli “hommine ’e mesu” (mediatori) come il famoso Antonio Piras di Gavoi, soprannominato “l’Avvocatone”, sia per la stazza che per l’abilità nel gestire le vicende umane, finanziarie e professionali di tutta la Barbagia, e anche oltre, tramite consigli richiesti dai tanti che facevano la fila alla sua porta per essere ricevuti.
La sua dimora era nota come “la Farnesina”, per le relazioni con le banche, la politica, le forze dell’ordine. Veniva omaggiato da ognuno secondo le sue possibilità. A nessuno negava un favore e nessuno lo negava a lui. “Questa casa è aperta a Dio, al sole, agli amici sinceri e a tutti coloro che posso aiutare” aveva fatto incidere su una targa all’ingresso. Aveva centinaia di figliocci e si vantava di non chiedere a nessuno la fedina penale. C’è chi lo rimpiange e chi lo rinnega. Fu adorato e temuto dal padre della rapita Silvia Melis, che lo accusò di avergli estorto un miliardo. Indagato, e poi assolto. Lui era l’hub e l’influencer, l’oracolo.
[**Video_box_2**]Anche Pizia – la sacerdotessa dell’antica Roma che pronunciava oracoli in nome di Apollo nel santuario di Delfi – in cambio delle sue visioni sul passato e sul futuro, riceveva offerte dai pastori. Ora che Google sta per cambiare il proprio metodo di interrogazione, gli esperti del marketing hanno recuperato il termine “Oracle” per definire il nuovo sistema di gestione.
Knowledge Vault è l’evoluzione dell’algoritmo che Google definisce “oracolo digitale”. Abbandona le interrogazioni basate su parole chiave e compone i dati in vere e proprie porzioni di conoscenza, interpretando le “entità”, cioè le relazioni e i collegamenti, temporali o di causa-effetto tra oggetti e concetti del sapere umano. Promette inedite interpretazioni di eventi e personaggi della storia alla luce delle connessioni tra i documenti e i dati a disposizione in un database valutato come corretto e affidabile al 90 per cento. In pratica indaga, valorizza e potenzia i sistemi relazionali, più vicini a quelli umani, fornendo informazioni automatiche. Potrebbe essere dunque in questo nuovo algoritmo la soluzione per una reputazione più conforme a quello che realmente siamo e che dovremmo forse accettare di vedere riconosciuto. Cioè persone con una vita e una personalità non sempre coerente e spesso anche contraddittoria; riprendendoci il diritto di avere più sfaccettature. Anche “Bocca di rosa” potrebbe così vedere riscritta la sua intera storia.