E’ in arrivo Netflix che vuol produrre una serie tipo “House of Cards” in Italia come già ha fatto in Francia, e sta arroventando il clima (nella foto Robin Wright e Kevin Spacey)

La banda calda

Stefano Cingolani
Il grande gioco della telefonia comincia con una partita a tre: Telecom, Mediaset e il bretone Bolloré. Poi irrompe Renzi ed entrano in campo Vodafone, Enel e l’immancabile Bassanini. Per avviare il motore bloccato dopo molte false partenze, il governo ha una società piccola ma d’avanguardia come Metroweb.

Che cosa può fare Vodafone per l’Italia?”. Quando Matteo Renzi ha sentito queste parole uscire come farfalle policrome dalle labbra di Vittorio Colao, s’è convinto che era il momento di dare un colpo d’acceleratore. Finora aveva ascoltato solo rampogne, ramanzine, lamentele e proteste. Tanti no, non si può, o al massimo dei forse. Mai una disponibilità così completa. Il capo del governo aveva invitato a pranzo il big boss di Vodafone, gesto inusuale per un presidente del consiglio che si alimenta a pizze come faceva Bill Clinton ai bei tempi, prima di Monica Lewinsky. Da cosa nasce cosa e martedì scorso Colao parlando a Londra ha annunciato: “Vogliamo essere attori della partita sulla banda larga”.   

 

Larga? Di più, extralarge, o magari addirittura extra extra. Venghino, venghino alla fiera delle telecomunicazioni: Matteo Renzi ha esteso gli inviti, ormai ci sono più bancarelle che all’Expo: Telecom Italia, Vivendi, Mediaset, Sky, la Rai, Cassa depositi e prestiti, Fondo strategico italiano, Metroweb, Terna, Ferrovie dello stato, Acea, A2A, la russa Wind (con Infostrada ha la seconda rete telefonica fissa) che si sta per fondere con la cinese Hutchison Whampoa (3G), Enel arrivata per ultima, ma certo non la meno importante e quello che molti considerano il vero asso nella manica: l’inglese Vodafone, guidata da un italiano che piace molto, anche perché è il manager tricolore che ha la posizione più elevata nel giro degli affari globali, cioè Vittorio Colao.
Sembra un caos creativo, anche se è meno caotico di quel che si possa immaginare. Perché da una parte c’è un triangolo magico formato da Vincent Bolloré, Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi, al cui ortocentro si colloca Telecom Italia. Dalla parte opposta tutti gli altri per ora in ordine sparso, ma in via di aggregazione grazie alla regia di Palazzo Chigi. A meno che qualcuno non faccia il salto della trincea, cosa sempre possibile nel bizzarro gioco della banda XXL.   

 

Tutto comincia in Telecom Italia, anche se la storia non è destinata a finire lì. Tra poco più di una settimana il gruppo francese Vivendi di cui Vincent Bolloré è presidente e principale azionista (con il 14,5 per cento), avrà fisicamente in mano l’8,3 per cento dei diritti di voto di Telecom Italia ereditati vendendo a Telefonica la compagnia brasiliana Gvt. La partecipazione grazie alla quale si sostituisce agli spagnoli, se l’è trovata un po’ per caso, ma l’uomo d’affari bretone conosce bene l’Italia dove è ormai un personaggio di primo piano: entrato in Mediobanca nel 2001 e poi nelle Assicurazioni Generali, oggi è il principale socio della banca d’affari fondata da Enrico Cuccia, alla pari con Unicredit. Proprio dalle stanze di via Filodrammatici è venuto l’input a usare la leva di Telecom Italia per un progetto più ampio che arriva fino a Mediaset. Gli analisti della banca scrivono che “Mediaset rappresenta una interessante opzione strategica per Vivendi (che tra l’altro controlla Canal Plus, ndr.), infatti consentirebbe ai francesi di entrare nel mercato dei contenuti italiano o spagnolo con un accordo in contanti o carta contro carta senza spendere troppo”. Dunque, si stanno già facendo i conti, non siamo solo alle beate intenzioni. Bolloré ha detto di voler costruire un gruppo nei media in grado di sfidare il tedesco Bertelsmann. Quanto alla tv di Silvio Berlusconi, potrebbe avere un socio strategico che la faccia uscire dallo stallo.

 

Tra Berlusconi e Bolloré ci sono ottimi rapporti mediati da Tarak Ben Ammar, il quale è al centro di un vero e proprio trivio: siede infatti nei consigli di amministrazione di Vivendi, di Mediobanca e di Telecom Italia. Ma una operazione del genere ha un potente impatto politico (sono società private, tuttavia in questo campo il regolatore pubblico è più potente dell’azionista). Perché mai, dunque, il governo dovrebbe consentirla? Non esiste, almeno ufficialmente, un Nazareno degli affari. A questo punto entra in campo Telecom Italia. La merce di scambio, infatti, potrebbe essere la partecipazione senza se e senza ma al progetto banda extralarge al quale Renzi tiene in modo particolare, come bandiera della modernizzazione e segno del proprio attivismo decisionista. Ben Ammar precisa che Mediaset non è in vendita e Telecom deve distribuire non produrre contenuti. Ma l’obiettivo in questo momento è costringere Telecom a far cadere la strenua difesa della propria posizione dominante nella rete fissa. Poi tutto sarà in movimento.

 

Per avviare un motore che si è bloccato dopo molte false partenze (secondo alcuni si era già ingrippato nel 1997, quando è stata mal privatizzata Telecom Italia) il governo ha in mano una società piccola, ma avanguardista come Metroweb creata da Fastweb e dall’azienda elettrica milanese, che possiede l’unica ampia rete a fibra ottica oggi esistente (concentrata a Milano) ed è controllata dalla Cassa depositi e prestiti presieduta da Franco Bassanini e amministrata da Giovanni Gorno Tempini.

 

Il governo ha proposto a Telecom di mettersi insieme, però l’ex monopolista telefonico vuole la maggioranza che Bassanini non intende cedere. Su questo ostacolo, davvero non da poco, si sta fermi da tempo. Ma il pie’ veloce Renzi è stanco di aspettare, anche perché, nel frattempo, gli altri giocatori si muovono. Se Mediaset si è lanciata all’assalto delle torri di trasmissione Rai, allora nulla è più al sicuro. La stessa Telecom annuncia con gesto di sfida che vuole cablare da sola 400 comuni spiazzando la concorrenza e irritando ancor più Bassanini.

 

Palazzo Chigi le prova tutte. Tira fuori un provvedimento legislativo che obbliga di passare alla fibra ottica entro il 2020. Apriti cielo. In questo modo l’intera rete in rame che Telecom possiede e ha difeso con le unghie e con i denti, non vale più nulla. Sarebbe meglio svenderla ai romeni. L’azienda mette all’opera tutte le sue armi e schiera in prima fila il Corriere della Sera contro “l’esproprio statalista”. Il progetto viene ritoccato, edulcorato, però l’obiettivo resta. E i vertici del gruppo telefonico cominciano a capire che una battaglia di pura resistenza è destinata a fallire. Anche perché nel frattempo spunta l’Enel portando con sé una lunghissima catena di distribuzione.

 

Gli uffici dell’amministratore delegato Francesco Starace, il 14 aprile inviano all’Agcom una missiva in cui si sottolinea che “Enel possiede una infrastruttura esistente, costituita da reti di tipo aereo e cabine di distribuzione in grado di ospitare cavi in fibra ottica”. Grazie a una recente normativa infatti il cavo della banda larga potrà essere “steso” anche sui tralicci elettrici con la cosiddetta “posa aerea”. Una opzione che supera le difficoltà degli scavi e ne riduce i costi. Ma soprattutto consente di raggiungere – come si sottolinea nella lettera all’Agcom – le zone di montagna e le campagne più isolate (i cosiddetti Cluster C e D), oltre a collegare direttamente gli edifici e gli appartamenti con la tecnologia FTTB (fiber to the building) e FTTH (fiber to the home). Per le grandi aree urbane (Cluster A e B) Enel punta ad accordi con alcune delle municipalizzate che detengono la rete elettrica (visto che in sette città, come Roma, Milano, Torino e Genova non è presente), ma anche con Metroweb. Un ritorno al telefono come ai tempi di Tatò quando possedeva Infostrada e Wind? No, è la risposta, “il contributo di Enel sarà sinergico con le reti già esistenti”.

 

Chi paga? La società ha provveduto alla sostituzione dei tradizionali contatori elettromeccanici con quelli elettronici che consentono la lettura dei consumi in tempo reale e la gestione a distanza dei contratti. Secondo dati ufficiali, sono 32 milioni i contatori elettrici della clientela al dettaglio. Ma ulteriori investimenti e sostituzioni potrebbero essere legati alla posa della fibra ottica nell’ambito del progetto da 6,5 miliardi illustrato per sommi capi dal governo. Enel ha ancora 38 miliardi di debiti sul groppone (su 76 miliardi di ricavi) e cerca di ridurli vendendo le partecipazioni all’estero, in Slovenia o nella stessa Spagna dove ha già collocato sul mercato il 22 per cento dell’azienda elettrica Endesa. Le disponibilità di cassa, dunque, sono limitate mentre al contrario Vivendi e Vodafone sono molto liquide.

 

E chi guida la danza? Ciascuno comanda sulla propria rete? O esiste un centro della complessa ragnatela? L’idea del governo è di affidare alla Cdp questo ruolo attraverso una società ad hoc alla quale partecipino tutti gli operatori. Come nel gioco dell’oca, torniamo alla casella di partenza, cioè là dove eravamo una decina di anni fa, quando si discuteva di creare una società che mettesse insieme quel che hanno in mano gli operatori nel fisso e nel mobile, scorporando da Telecom Italia la rete in rame e dagli altri i ripetitori dei telefonini. Il tavolo, al quale partecipavano tanti (troppi) commensali, saltò di fronte alle due domande cruciali: chi comanda e chi paga. Franco Bernabè gestiva una Telecom oberata di debiti e paralizzata da Telefonica (un azionista passivo, anche se il più rilevante), quindi scelse di tenere per sé l’asset materiale più importante e di maggior valore, la rete in rame. Quanto valga il vasto agglomerato di file e cabine non è chiaro. Si è detto “almeno 15 miliardi”, ma Bassanini ha messo in discussione le cifre scritte nei bilanci di Telecom allarmando persino la Consob. Una cosa è certa: oggi in Italia senza quella rete non si va da nessuna parte.

 

L’Enel da sola non è in grado di cambiare il campo di gioco, anche se è uno sfidante di rilievo, tanto che Giuseppe Recchi, presidente di Telecom, mercoledì scorso, durante l’assemblea degli azionisti, ha fatto un’avance proponendo di “lavorare insieme, unire le forze”. Le aziende elettriche possono depositare i cavi e portarli fino ai contatori, ma a girare la chiavetta è sempre chi offre il servizio. E qui arriva il pezzo da novanta: Colao.

 

Vittorio, nomen omen, con il suo metro e 92 centimetri, sta ritto su una montagna di denaro: 130 miliardi di dollari pagati da Verizon per il 45 per cento posseduto da Vodafone nella compagnia telefonica. In cinque anni dal suo arrivo al comando, ha arricchito gli azionisti che si spartiscono qualcosa come 60 miliardi di dollari (lui l’anno scorso ha guadagnato 3,4 milioni di sterline). Nato a Brescia nel 1961, da ragazzo sognava una carriera militare. Il padre, del resto, era un carabiniere, e Vittorio per un breve periodo ha fatto l’ufficiale nell’Arma. La madre, invece, è nobile, la contessa Pellizzari di San Girolamo, chiamata Popi dagli intimi. Dopo l’immancabile Bocconi, il master a Harvard e un passaggio all’Eni, ecco McKinsey che lascia impronte indelebili nei suoi pupilli che oggi, anche grazie a Yoram Gutgeld stanno rimpolpando le fila delle teste d’uovo renziane.

 

La prova del fuoco, dopo spostamenti vari, tra i quali Mondadori quando era direttore Corrado Passera (altro McKinsey boy), è in Omnitel, la mutazione di Olivetti realizzata da Carlo De Benedetti con Elserino Piol. La società esplode con i telefonini, viene venduta a Mannesmann al massimo del suo valore, e poi passa a Vodafone. Proprio Colao è l’artefice dell’operazione che gli assicura un posto di riguardo nel gruppo britannico, dopo una infelice parentesi alla Rcs dove si mise contro una parte degli azionisti, Paolo Mieli e i giornalisti dei quali diceva che “sono un investimento da mettere a miglior reddito”. Un’uscita tanto snob quanto ingenua. Non che l’universo mediatico e politico non attragga anche Colao. Un giorno ha confessato a un amico che il suo sogno è fare il ministro degli Esteri italiano. Renzi lo ha corteggiato a lungo. Per lui pensava all’Eni, certo che non avrebbe accettato nulla di meno.

 

Adesso la stessa Vodafone sta cercando una nuova dimensione. E il futuro corre non sulle onde sonore, ma sul filo. Anche le nuove applicazioni o la tv sul telefonino richiedono un salto nella velocità di trasmissione con tecnologie legate alle reti, all’insegna di una sempre maggiore convergenza tra fisso e mobile, tra materiale e immateriale. Insomma, ci vuole un contenitore più capiente per trasportare contenuti più pesanti e variegati.

 

Dopo l’uscita dall’America, è l’America a voler entrare in Vodafone. Zio Sam indossa le vesti di John Malone, tra i pionieri della tv via cavo e oggi uno dei maggiori operatori con Liberty Global, presente in 12 paesi. Si parla con sempre maggiore insistenza di una megafusione europea e l’ultima intervista del magnate all’agenzia Bloomberg ha riacceso la fantasia degli operatori di borsa che già gustano un succulento boccone. Cosa farebbe Colao in questo caso? Resta con una posizione diversa? O torna, buon profeta in patria, magari alla guida del grande progetto al quale Renzi tiene tanto e che riporterebbe l’Italia in quella posizione rilevante nelle telecomunicazioni, via via appannata e poi perduta negli ultimi quindici anni.

 

[**Video_box_2**]Renzi, dunque, si è messo una nuova freccia in faretra. Può usarla o tenerla di riserva, può andare a segno o fuori bersaglio, però a questo punto non è più lui con le spalle al muro. Banda larga, tv via cavo, Colao, Malone. Minacce serie per il futuro di Telecom Italia e anche per il ruolo che Vivendi vuole interpretare. Bolloré non starà a guardare. Nei giorni scorsi si è limitato a sondare gli azionisti e ha messo in allerta l’amico Tarak. Poi è partito per la California, là dove si danno le carte per il grande gioco. Finora ha detto che in Telecom vuole restare come socio di riferimento, si tratta di un investimento industriale e non di breve periodo. Eppure Vivendi sta uscendo dalla telefonia, possibile che faccia eccezione per l’Italia? Ecco perché prende quota l’idea che sia piuttosto una merce nell’albergo del libero scambio. Al ritorno da Los Angeles forse Bolloré manderà segnali più chiari. Non ha molto tempo. E’ in arrivo Netflix che vuol produrre una serie tipo “House of Cards” in Italia come già ha fatto in Francia, e sta arroventando il clima. Colao ne è innamorato. Sky la teme e ha rafforzato i legami con Telecom accantonando il progetto di fusione con Mediaset Premium che avrebbe incontrato troppi ostacoli da parte dei regolatori sia a Roma sia a Bruxelles. Già la sola intesa commerciale sui campionati di calcio ha scatenato reazioni agguerrite e l’immancabile magistratura. Il ballo Excelsior, insomma, è cominciato.

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