Siamo uomini o robot?
"Siete pronti per la robotica a gravità nulla?”. E uno si immagina subito Sandra Bullock che galleggia alla deriva nello spazio in “Gravity”, film di insopportabile lentezza fantascientifica, invece è realtà. Trattasi del concorso “Zero Robotics 2015”, con finale nel gennaio 2016, a bordo della Stazione spaziale internazionale, e di una sfida lanciata dal Politecnico di Torino, dal Massachusetts Institute of Technology, dalla Nasa e dall’Agenzia spaziale europea agli studenti delle scuole superiori (quelli capaci di progettare intelligenze artificiali). C’è un campionato estero e c’è un campionato italiano, e chissà se si affolleranno a concorrere schiere di mini-ingegneri con gli occhiali da nerd e il sogno di inventare un “piccolo robot spaziale” – questo chiede il concorso – che magari un giorno partirà per Marte con (o al posto di) Samantha Cristoforetti, astronauta appena tornata sulla terra e subito bersagliata, sul Corriere della Sera, dai consigli per reduci dall’orbita stilati da Beppe Severgnini (tipo: stai attenta ai talk-show).
Sandra Bullock in una scena di Gravity
Magari ci si è distratti un attimo, ma si pensava di essere rimasti, a livello di robot umanoidi o comunque dotati di umane capacità, ai modelli vintage di C1P8 e D3BO, rispettivamente il simpatico barattolo computerizzato e l’ironico “droide protocollare” di “Guerre stellari”: due certezze della robotica dei sogni, presenti anche nel sequel della saga, l’“Episodio VII” in arrivo nelle sale nel dicembre del 2015. Invece la robotica vera ha superato gli amici di Luke Skywalker e Han Solo, le evoluzioni cibernetiche del caro, vecchio Omino di Latta del “Mago di Oz”, uomo triste imprigionato in un’armatura, arrugginito nel cuore e nelle giunture. D3BO e C1P8 oggi esistono davvero: sono i robot antropomorfi e non antropomorfi che giocano con i Lego (lo fa “Brett”, appena presentato a Berkeley) e intervengono al posto dell’uomo quando la situazione si fa catastrofica. Esseri d’acciaio e alluminio anche quadrupedi e “insettoidi”, capaci di volare, saltare, arrampicarsi, resistere alle alte temperature e prendere piccole “decisioni” operative. E qualche giorno fa, negli Stati Uniti, durante la sfida tra umanoidi robotici, la Darpa Robotic Challenge, con premio finale di due milioni di dollari vinto da un team di progettisti coreani, sciami di automi d’avanguardia hanno gareggiato lungo un percorso a ostacoli che simulava un ambiente simile a quello post-incidente nucleare di Fukushima.
Anche se i “droidi” veri non sono baciati dallo humor inglese alla maggiordomo Jeeves del “droide” di fantasia D3BO, il robot di oggi lava e spazza pavimenti al posto tuo (si chiama “Roomba”, forse gemello del “Bimbi”, il famoso robot-cuoco per imbranati del fornello) e, potenzialmente, può essere anche una tata per i bambini: l’ultimo modello è I-Cub, recente creatura dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova, tenero robot con gli occhioni, alto come un bambino di cinque anni, probabilmente capace, in futuro, di accompagnare a scuola i pargoletti e preparare il caffè anticipando il tuo bisogno. Forse tutti avranno un I-Cub in casa, nel 2050, terza via tra umano e smartphone: I-Cub, infatti, non soltanto tutto sa e tutto comunica, ma gira, va, vede gente e fa cose. Il robot, già “chirurgo” in sala operatoria, potrà diventare, nei prossimi decenni, anche un affabile e non spazientito badante per gli anziani, in una società sempre più anziana: i giapponesi stanno studiando forsennatamente il modo per produrre il perfetto robot-badante, con risparmio energetico e sembianze rassicuranti da automa-infermiere di “Robot e Frank”, film del 2012 in cui il robot fa amicizia con un nonno malato di Alzheimer.
Non a caso si chiama “Umani e Umanoidi” il libro (appena uscito per Il Mulino) di Giorgio Metta e Roberto Cingolani, uno ingegnere, l’altro fisico, entrambi studiosi di robotica e ora anche di robo-etica: “Macchine che sanno decidere, scegliere, pensare hanno anche delle responsabilità nei nostri confronti? E noi, a nostra volta, abbiamo responsabilità verso di loro?”, è la domanda che apre il libro, assolutamente non fantascientico nell’impianto. Si parla di assemblaggi, strutture, cervello robotico “bioispirato” a quello dell’uomo e possibilità di rendere il robot sempre meno robotico e sempre più umano, il che non vuol dire capace di provare sentimenti umani, scrivono gli autori sapendo di deludere i romantici che da piccoli hanno letto troppo Isaac Asimov e Philip K. Dick, abituandosi a immaginare il robot come una creatura pensante e senziente che si innamora, si dispera, si arrabbia, si ribella, cade in trappola come in “Blade Runner” proprio per essere – lui replicante – più umano dell’umano, e più filosofo nel chiedersi, durante il terribile test della verità: “Da dove vengo?”, “che ci faccio qui?”, “quanto tempo ho davanti?”. E però, anche in assenza di sentimento robotico, scrivono Metta e Cingolani, una “robo-etica” servirà lo stesso, al pari di una regolamentazione giuridica (per esempio: di chi è la responsabilità se un robot-automobile investe qualcuno?). Serve dunque anche un “codice etico”, si legge nel libro. E qui già si prefigurano scenari da lotta all’ultimo coltello tra oltranzisti della pulizia morale robotica e garantisti del robot “impresentabile”, versione futuribile dello scontro Bindi-De Luca alle ultime Regionali, e s’immaginano editoriali indignati sul Fatto quotidiano. Magari pure un sindaco-androide al posto del “marziano” Ignazio Marino a Roma, una sorta di presidente-robot de “I simulacri”, racconto scritto in piena Guerra fredda da Philip K. Dick, con trame alla “House of Cards” ordite dalle industrie che progettano i simulacri, politici replicanti.
Attenzione a non far diventare il robot una proiezione dei nostri desideri, rancori e sentimenti, dicono gli autori di “Umani e umanoidi” al lettore, a suo tempo suggestionato da film in cui il robot si ribella all’uomo, uno per tutti l’Hal 9000 di “2001: Odissea nello spazio”. Tra le righe del saggio traspare infatti una certa inquietudine, oltre all’ottimismo, per il futuro di creature di fibra e alluminio che non sono semplice accozzaglia di ingranaggi: sempre più simili a noi, anche se non “uomini bicentenari” come quelli di Asimov che volevano disperatamente farsi umani. Si apprende che la “pelle” del robot diventerà sempre più sensibile, quasi come la pelle umana. Che il robot potrà “vedere”, “sentire”, “rielaborare” e, in un certo senso, attraverso sensori sofisticatissimi, “prevenire” i desideri degli umani che di lui si servono. E allora non ci si può fare niente: irrazionalmente rifà capolino nella mente il topos del robot problematico, in pieno “Sturm und Drang”.
Non solo, dunque, grandi domande esistenziali dei suddetti replicanti di Ridley Scott, ma anche dispetti e ripicche e disperazioni iper-umane di robottini amorosi e capricciosi, come Edgar, computer-Cyrano di “Electric Dreams” (film del 1984), un cervellone dal cuore tenero nutrito a soap opera e capace di far innamorare con le sue melodie la bellissima violinista della porta accanto, la quale crede che l’autore delle musiche sia Miles, il “padrone” di Edgar. Bisogna dire che Miles sfrutta la situazione, fingendosi autore dei suoni meravigliosi che fanno palpitare la violinista, tanto che i due si fidanzano – a quel punto son dolori, ché il computer, prima di rinsavire e morire di crepacuore suicidandosi, si vendica azzerando conti in banca e imprigionando in casa l’umano impostore. E oggi l’amor robotico cinematografico, in tutte le sue sfumature, non può prescindere dalla voce senza volto di Scarlett Johansson in “Her”, film di Spike Jonze del 2013 dove il protagonista, trentenne in crisi, è travolto da insolita passione per la sensuale e non-corporea Samantha, sistema operativo anche molto infedele nonché fan del “poli-amore” che tanto piace ai sociologi da società liquida alla Zygmunt Bauman.
Ma Samantha ha le sue antesignane, comiche e tragiche. C’è “un precedente a chilometri zero” di “Her” in “Io e Caterina” di Alberto Sordi, faceva notare Michele Masneri su Il del Sole 24 Ore all’uscita del film. E la Caterina uscita (nel 1980) dalla penna dello sceneggiatore Rodolfo Sonego mostrava tutti i sentimenti da robot-donna un po’ bisbetica, che sta stretta nel ruolo di bambola elettronica comprata in America da un Sordi esportatore di vini, con Rossano Brazzi amico americano che fa da guida tra creature-ogggetto. A Roma, dunque, il Sordi-esportatore scopriva che la robotica Caterina non era robotica per niente, e dalla tv aveva imparato tutto: a ballare il tango, a ingelosirsi, a fare il broncio, a dire “io amo, quindi esisto”.
Molto prima, nel 1927, la donna-robot (ma malvagia) imperversava nel capolavoro del cinema muto “Metropolis”, per mano del regista Fritz Lang e del suo personaggio più nero, l’inventore Rotwang, demiurgo che crea dal nulla il clone-robot, rovesciamento della buona, profetica e operaista Maria. La finta Maria, lussuriosa e tentatrice, si aggira nei bassifondi della fantasmagorica città del futuro divisa in caste, tra spaventosi Moloch, allagamenti, caverne, preghiere, esecuzioni, grattacieli sfavillanti e visionarie autostrade sopraelevate.
[**Video_box_2**]L’amor robotico ha poi colpito, anche se in forma non tragica, persino l’automa pulisci-discariche “Wall-E”, protagonista di un fortunato film Disney del 2008, ora superato dalla realtà: sono allo studio, si legge in “Umani e umanoidi”, robot sofisticatissimi per emergenze ambientali e dei rifiuti. Sia come sia, non appena uno scienziato dice “qui non siamo nella fantascienza, il robot potrà decidere ed essere ancora più simile a noi ma non potrà mai avere la struttura biochimica che sta alla base dell’emozione umana”, arriva sempre un futurologo a smentirlo. Qualche mese fa, infatti, David Wood, presidente dei futurologi di Londra, come scriveva sulla Stampa Claudio Leonardi, dichiarava tutto il suo “scetticismo” per i negazionisti del sentimento robotico: “E’ una visione popolare che gli esseri umani siano fondamentalmente diversi dalle intelligenze artificiali perché possiedono la creatività”, diceva Wood, “… ci sono robot che già manifestano rudimentale intelligenza emotiva e computer che possono già scrivere con ispirazione musicale”. Sempre nel mondo anglosassone fece discutere, nel 2008, il saggio del ricercatore David Levy, intitolato “Relazioni intime con un partner artificiale. Amore e sesso con un robot” (ed. Harper Collins), in cui si faceva balenare la diffusione di androidi fisicamente indistinguibili da noi, e soprattutto perfetti: androidi che capiscono, percepiscono paturnie, si mettono in sintonia (e qualcuno, allora, sui giornali, aveva azzardato: androidi che magari telefonano il giorno dopo, non tradiscono, sono galanti ma discreti, Principi azzurri e Principesse Rosa in grado di surclassare l’umano e magari volubile pretendente). E ci si era interrogati, tra osservatori esterni, e tra il serio e il faceto, sulle possibili conseguenze di una simile invasione di replicanti gentili, a fronte dell’invariata imperfezione umana.
Oggi si preferisce restare con i piedi per terra, tanto più che siamo già molto oltre la fantasia, se è vero che il suddetto vero robot I-Cub “impara ogni giorno cose nuove” ed è in grado di “giocare con gli umani, scrivere e riconoscere oggetti”. In un futuro non lontano, prevedono gli autori di “Umani e umanoidi”, si potranno avere in casa robot-governanti e baristi, si teme più disciplinati dello scombiccherato e irresistibile Bender, il robot alimentato a vino e superalcolici di “Futurama”, cartone animato politicamente scorretto di David X. Cohen e Matt Groening, anche autore dei “Simpson” – un robot che sta male e va in panne quando è sobrio.
Una scena di Futurama
Si potrà anche avere, dicono gli scienziati, il robot che mentre si dorme mette a posto la cucina e di giorno paga tasse e bollette. E forse può bastare, questa creatura abbordabile che non investe la sfera sentimentale come una “Her” impazzita, e non provoca crisi di identità. Si spera infatti di non doversi tutti sottoporre, un giorno, al test di Turing, quello che il famoso matematico inglese inventò per delimitare i confini tra intelligenza umana e intelligenza artificiale (siamo uomini o robot?, sarà magari la domanda). E si spera che le leggi della robotica o dell’umana gente evitino ai futuri robottini domestici destini cinici e bari come quello che tocca all’antropomorfo David in “Intelligenza artificiale” di Steven Spielberg, film dove il piccolo replicante viene ripudiato dalla mamma umana all’arrivo del fratellino in carne e ossa, e finisce in fondo al mare con il suo orsacchiotto (robot come lui), a vagheggiare una Fata turchina che possa tramutarlo in bimbo vero.
Il Foglio sportivo - in corpore sano