I grillini salvati da Lenin
Il tweet rivelatore non è quello dei topi, la mutazione della specie sta in un paio di tweet finto ingenui di Antonella Laricchia, candidata sconfitta in Puglia, a Michele Emiliano, l’eletto. Parliamone, gli ha detto. Emiliano, che ha più pelo sullo stomaco di una vasca di cozze pelose, l’amo gliel’aveva già lanciato un minuto dopo aver vinto le elezioni: che state a fare lì fuori da tutti i giochi?, venite che vi do l’assessorato all’Ambiente. Loro come al solito facevano i profumieri, facciamoci annusare ma giù le mani, però siccome l’eterno dissidio – sfasciare tutto in purezza o infilarsi dove conta infilarsi – corrode più della ruggine che non dorme mai, adesso dicono: “Nelle ultime settimane noi consiglieri M5s abbiamo iniziato a incontrare cittadini e associazioni…”. Come unni che escono quatti quatti dalla foresta, tastano il terreno. Entrano nelle capanne vuote, nei palazzi abbandonati, il re padre e padrone che li teneva alla catena nella caverna, a guatare di lontano il teatro delle ombre, non li tiene più. E non ha lasciato testamento. Andiamo a prendercelo, il porco mondo.
Il tempo indistinto del “moVimento” è passato, volti e nomi hanno ora profili riconoscibili, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Roberta Fico. Quelli che menano la danza, che vanno in tv. Che hanno imparato a parlare, a usare i media e non solo i social. L’importante è che l’ombra del capo, quello che da anni incute terrore ai politici asserragliati nel palazzo, e ha sempre trovato un editorialista o un costituzionalista o un ottuagenario pret à porter disposto a dargli spago, se ne stia sempre là, con la sua ombra. Che lo credano sempre vivo, e pronto ancora a guidare la rivolta.
“Rapido come il vento… Silenzioso come una foresta… Impetuoso come il fuoco… Immobile come una montagna”. (Akira Kurosawa, “Kagemusha, l’ombra del guerriero”)
Come il sosia del daimyo Takeda cui bastava sedere in cima alla collina e guardare immobile la battaglia affinché i nemici fuggissero in rotta, Beppe Grillo è da tempo diventato l’ombra di se stesso. Da quando si scoprì “stanchino”. Ma anche prima. Da quando s’è accorto che fare la rivoluzione è un duro lavoro di merda. Cercare di mettere in zucca le sue massime a un branco di imitatori del vaffa, cercare di prendersi tutto e subito, ma l’apriscatole non apre il Parlamento. Non scendere a patti, ma poi contare solo a Parma o a Livorno. A Quarto. Due palle. Il suo blog non è silente, ma silenziato. I suoi proclami roteano nell’aria come foglie secche d’ortica. I nomignoli li azzecca ancora, “Ignaro Marino”, ma è vecchio mestiere. La spinta della rivoluzione è spenta, anzi è trapassata altrove. Ha perso il profumo di Dada, ha assunto i caratteri dell’odiato scopone politico. I suoi lo adorano sempre, come i leghisti Bossi, come i milanisti Berlusconi. L’importante è che stia lì, Kagemusha, ombra che fa paura. Oppure c’è l’altra leggenda, quella dell’eroe dormiente, l’imperatore Barbarossa. Che non è morto, no, se ne sta con i suoi cavalieri addormentato in una caverna in Turingia, o forse in Liguria chissà, ma un giorno si desterà con la sua barba tornata rossa e combatterà la battaglia finale. Però la palla intanto sta nell’altra parte del campo, nelle regole e nel movimento, che ormai è cresciuto, s’è fatto partito.
“Guarda i Gracchi, Saint-Just, la Comune di Parigi. Fino ad ora, le rivoluzioni sono state fatte da dilettanti moralisti. Sono sempre stati in buona fede e sono periti per il loro dilettantismo. Noi, per la prima volta siamo conseguenti”. (Arthur Koestler, “Buio a mezzogiorno”)
Quando è sceso l’ultima volta a Roma, pochi giorni fa, ha tenuto una lunga concione al gruppo, nella stanza di Luigi Di Maio, che è il vicepresidente della Camera. Degli unni, quello che ha fatto maggiore carriera e più ha cambiato pelle. “Parteciperemo alle prossime elezioni per vincere”, ha detto Gianroberto Casaleggio. Ma intanto non si scende a patti, si sta coperti e soprattutto allineati dietro alla linea, e la linea la traccio io. Volete Di Battista sindaco di Roma? Non è il tempo del salto in alto, e prima finisca il mandato da parlamentare. Così vuole il Regolamento, il libretto rosso che tutto prescrive, tutto prevede. Nel frattempo strategia, disciplina e comunicazione. Con Di Maio s’era scazzato duro, qualche settimana fa. Questioni di organigramma e persone, perché dentro il movimento si stanno riassestando i poteri, o per meglio dire costituendo, e quel che era prima il mucchio selvaggio ora si sta strutturando in partito: quasi più primo che secondo-repubblicano, wannabe leninista. Però molto, molto organizzato, accentrato. Votato allo conquista del potere, stavolta. Casaleggio, a differenza di Kagemusha Grillo, quel partito lo vuole comandare.
Le selezioni e le primari sul web, i meetup, le quirinarie, quelle pagliacciate della democrazia diretta che tanto ci hanno fatto sganasciare per quasi cinque anni, e che qualche utile idiota ha sempre preso sul serio, sono oggetti di modernariato, come le corna dei celti a Pontida. La trasformazione che molti avevano previsto, da movimento spontaneista in partito-partito, in una arrembante e sgomitante nomenklatura, sta avvenendo. E’ ancora crisalide, ma sulla via di indossare il vestito nuovo, atto alla bisogna. Il non-statuto, la comunicazione decisa da dietro un computer a Milano e teletrasmessa ai cittadini-ripetitori in Parlamento non reggono più. Si decide nei gruppi, nel “direttorio”. Al cittadino (“chiamateci cittadini”) s’è sostituito il professionista. Ci sono i preparati per la tv, quelli che fanno il lavoro nelle commissioni, chi zappa l’orto del territorio. Le grandi adunate di massa, i vaffa-day (sono passati otto anni, solo “Grey’s Anatomy” è più vecchio) chi se li ricorda più?
“Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco… Fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione”. (Vladimir Ill’ic Ul’janov Lenin, “Che fare?”)
C’è poi questo, che continuano ad arrivare terzi. All’ultimo giro delle amministrative, quello in cui hanno lasciato in mezzo alla strada il compagno di strada Felice Casson – tanto per ribadire che il partito è il partito, e non guarda in faccia a nessuno – hanno conquistato un pugno di comuni. Gela, Venaria, Porto Torres. Per il resto, finora, è confermata la regola che il bipolarismo li ammazza in culla, l’area del voto antisistema non diventa sistema, e il 25 per cento è sempre la carta che perde. Certo, si può leggerla anche in modo diverso. Pigi Battista sul Corriere della Sera, qualche giorno fa, ha fatto un ragionamento controdeduttivo: “Abbiamo sbagliato tutto perché pensavamo che il Movimento cinque stelle fosse interamente identificabile con la figura di Grillo”. E invece “finché l’area della protesta antisistema sarà così estesa, stabile, radicata, non sarà un’apparizione in più o in meno di Grillo in un social network o in televisione a stabilire se il suo partito avrà un futuro”. Il ragionamento tiene solo a patto di passare la prova del nove: il sindaco di Roma. Un pensierino su Roma hanno iniziato a farlo. E il consigliere (già trombato candidato sindaco) Marcello De Vito è lì pronto, se il guru non mollarà sulla deroga al Regolamento per Dibba. Roma o morte, se Renzi sarà così sciagurato da lasciarli votare.
Il problema dei grillini (prima o poi li chiameremo post-grillini?), è che l’apriscatole s’è dimostrato strumento incongruo e desueto. E ora sanno che sul loro campo di gioco preferito, il populismo sloganario, il no permanente e lo sfascio, hanno un pericoloso rivale: il lepen-leghismo di Matteo Salvini. Allora urgono nuove parole d’ordine, su cui pure con la Lega si inseguono: il reddito di cittadinanza è la prima, la più facile a spendersi. L’altra, più recente, è abbasso l’Europa e il regolamento di Dublino. Infine puntano al governo, guardando alle prossime politiche con lo sguardo lungo di Casaleggio, che però deve tenere a bada il partito.
E’ in tutto questo che l’anima del movimento e il suo nerbo sono cambiati. Con le nuove star, risciacquate nella politica politicata in perfetto stile autunno-inverno della Seconda Repubblica. Ci sono i minaccosi capi del Direttorio: Di Maio, Di Battista, Carla Ruocco, Carlo Sibilia. Poi c’è la truppa scelta dei volti noti, perché l’antico misticismo antitelevisivo, roba da quaccheri internettiani, o forse solo da nerd, è svanito da tempo. C’è Barbara Lezzi, senatrice di Lecce, vicepresidente della commissione Bilancio, detta “la leonessa”, anni luce dalla ruspante Paola Taverna, pasionaria della prima ora. C’è Carla Ruocco, deputata napoletana “a metà dal guado tra Cinque stelle di piazza e Cinque stelle-aspirante di governo”, secondo l’implacabile tassonomia di Marianna Rizzini. C’è Danilo Toninelli, già vicepresidente della commissione Affari costituzionali alla Camera, l’unico, pare, ad aver capito il “democratellum”, la proposta di legge elettorale dei Cinque stelle sondata come un blob dai meandri della rete. C’è Giorgio Sorial, deputato di contenuti savianeschi, fissato con la Costituzione le mafie e le coop corrotte. #Mafiacapitale.
“Io bercio per principio. Ecco tutto”. (Louis-Ferdinand Céline, “Bagatelle per un massacro”)
[**Video_box_2**]L’ultima che ha combinato è che ha sbagliato un tweet, e non ha fatto in tempo a correggerlo, e il social non perdona: “Elezioni per Roma il prima possibile. Prima che la città venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai clandestini #marinodimettiti”. Poi “i clandestini” sono diventati “i campi dei clandestini gestiti dalla mafia”. Ma ormai era andata. Ma non è la prima volta, non sarà l’ultima. Il fuori misura, il fuori registro è la sua specialità, quando non domina dal palco, che è la sua dimensione naturale. Come quando andò a concionare gli alluvionati di Genova, e quelli gli dissero stronzo, prendi una pala, dove ti ieri inguattato? Il razzismo che esonda dalla cattiva battuta è comunque più ruttante di quello di un Salvini, che almeno ce l’ha nel dna di una lunga storia di partito. Nel 2013 Grillo pubblicò una lista degna del Viminale degli immigrati che hanno compiuto reati in Italia. Solo che disse: “Quanti sono i Kabobo d’Italia? Centinaia? Migliaia? Dove vivono? Non lo sa nessuno”. Dopo il ghanese col piccone, Ebola: “Chi entra in Italia ora deve essere sottoposto a una visita medica obbligatoria all’ingresso per tutelare la sua salute e quella degli italiani”. Su Dublino ha guidato un meetup, e ha detto: “La convenzione di Dublino va disdettata”, quasi fosse un bilocale in affitto, “voli low cost da Lampedusa per tutta Europa”. Basta col “bivacco permanente”. Ma anche il vicepresidente della Camera Di Maio ebbe a dire: “Dobbiamo mettere in condizione questi disperati di non trovare più l’Italia, ma l’Europa”. Moti dell’anima, pas d’ennemis a droit.
“Una questione sollevata molto spesso e che merita un esame particolareggiato: quella del rapporto fra lavoro locale e lavoro nazionale… La costituzione di un’organizzazione centralizzata – ci si domanda con qualche inquietudine – non farà spostare il centro di gravità dal primo sul secondo? E ciò non danneggerà il movimento?”. (Vladimir Ill’ic Ul’janov Lenin, “Che fare?”)
Fa parte della trasformazione in partito del movimento, nato anche da un rigurgito di localismo contrabbandato per orizzontalità internettiana. Uno vale uno, dovunque si sia cacciato. Ora i Cinque stelle raccattano anche un tipo di voto diverso, quello che entra ed esce dalle porte girevoli dello scontento dei partiti. Ma è chiaro che, dentro, la periferia non comanda più, se mai ha comandato (ma forse erano tutte balle, uno non vale mai uno, è solo merda d’artista rigorosamente chiusa nella scatola, che nessuno l’ha mai vista, di cui nessuno ha l’apriscatole). Ma siccome il livello territoriale è quello su cui alla fine attecchisci, ora i grillini vogliono fare anche riunioni di sindaci e amministratori sul territorio. Sono le cose che diceva il sindaco di Parma Federico Pizzarotti un anno fa, sbertucciato da Grillo, anzi trattato come un trotzkista da epurare. Ora invece vengono considerate accettabili. Persino Filippo Nogarin, l’uomo che fece l’impresa a Livorno affossando un secolo di comunismo, s’è trovato contro i Cinque stelle livornesi. Conquistare una cittadina qua e una là, o i piccoli comuni, non servirà. Amministrare, per il grillismo, è sempre un po’ soffocare. Se invece voglio conquistare prima le campagne per poi accerchiare le città, allora è meglio che prendano ripetizioni da Pol Pot. Ma in fretta.
“Tanto ci sarà sempre lo sapete / un critico fallito, un pio, un teorete / un Pistolazzi o un prete / a sparare cazzate”. (Francesco Guccini, “L’avvelenata”)
Carlo Sibilia siede nel Direttorio. Lui è quello per cui lo sbarco sulla Luna non è mai avvenuto, e lo sbarco dei Mille è avvenuto ma a Quarto: forse erano partiti da Marsala, il marsala che ha bevuto. Sarebbe pure il responsabile Scuola e Università. Nonché quello che con Claudio Cominardi e Paolo Bernini è andato in Austria, a tallonare da vicino quelli “der Bildebbberg”. Tomo tomo, cacchio cacchio, sono partiti. Tali e quali a quando ci andò Mario Borghezio, però lui nella Svizzera verde, e quelli della security lo picchiarono come un tamburo. Pure loro: “Mentre stavamo cercando di andare al nostro B&B, situato nelle vicinanze del Bilderberg, siamo stati fermati da un posto di blocco, quindi abbiamo dovuto fare un percorso trekking”. Cominardi: “Io e Sibilia abbiamo chiesto alle forze dell’ordine di poter parlare con Henry Kissinger. Nulla di fatto”. Sibilia è anche quello che aveva un decalogo, in 20 punti, su Facebook: “1. Berlusconi è politicamente finito grazie al Movimento 5 stelle. 2. Berlusconi è esistito perché nessuno gli si è mai opposto tranne il Movimento 5 stelle. 3. Il Pd è il miglior alleato di Berlusconi. (…) 20. Il vero potere risiede solo nelle tue mani e nella tua mente”. Per quanto ci si metta il professionale Di Maio, per quanto ruggisca numeri Barbara Lezzi, definirla proprio una classe politica pronta a rivoltare il paese come un calzino resta un’affermazione azzardata. Ciò nondimeno, tre mesi fa Grillo rilasciò un’intervista al Corriere della Sera. Sembrava il suo sosia (ne avrà di scorta). Raziocinante, dialogante, dissero. Persino costituzionalizzato. Certificò Aldo Cazzullo: “Prova di dialogo Pd-M5s, “una trattativa esiste”, “sarebbe sbagliato sottovalutare il suo nuovo atteggiamento”. Se ne perse subito traccia. Ma qualcuno disposto a prendere sul serio, alternativamente, la forza d’urto del movimento antisistema o la nuova geometrica potenza del partito leninista, disciplinato e interessato solo alla conquista del Palazzo, di tutto il Palazzo stavolta, si troverà sempre.
“‘E’ più facile arrestare una decina di teste forti che un centinaio di imbecilli’. Questo magnifico assioma (che vi procurerà sempre gli applausi del centinaio di imbecilli) vi sembra evidente solo perché, nel vostro ragionamento, siete saltati da una questione a un’altra”. (Vladimir Ill’ic Ul’janov Lenin, “Che fare?”)
Non resta dunque che rivolgere un appello a tutti quelli che temono con terror panico la decina di “teste forti” del post grillismo che avanza: ridateci Lenin, per favore.
Il Foglio sportivo - in corpore sano