New York un secolo prima: la costruzione del ponte di Brooklyn negli anni Settanta dell’Ottocento

Il default di New York City

Stefano Cingolani
Il sindaco Abraham David Beame aveva riempito almeno due cestini di foglietti scritti a mano e poi accartocciati nervosamente, prima di consegnare una scarna quanto sofferta paginetta alla sua segretaria perché la battesse a macchina. Erano le righe più dolenti che avesse mai redatto nella sua vita.

Il sindaco Abraham David Beame aveva riempito almeno due cestini di foglietti scritti a mano e poi accartocciati nervosamente, prima di consegnare una scarna quanto sofferta paginetta alla sua segretaria perché la battesse a macchina. Erano le righe più dolenti che avesse mai redatto nella sua vita: lui, un contabile diventato politico, sarebbe stato ricordato nei libri di storia come l’uomo che non aveva saputo fare i conti. L’allarme e la disperazione colavano come lacrime amare dietro quelle poche frasi: “Sono stato informato dal controllore dei conti che la città di New York non ha abbastanza denaro liquido a disposizione per pagare oggi i suoi debiti. Siamo così al fallimento che abbiamo tanto lottato per evitare”. Segue la firma e la data: 17 ottobre 1975, una giornata simbolo nella storia della Grande Mela, ma anche nella storia economica degli Stati Uniti.

 

“Facciamo come in America”, gridano gli tsiprioti di ogni età e schieramento politico. Già, ma come fanno in America? “Là il governo federale corre in aiuto delle amministrazione locali per evitare la loro insolvenza”, proclamano gli habitué dei talk-show. E insistono: “La Banca centrale stampa moneta per coprire i debiti”. Davvero la Federal Reserve fa così? Sul serio Washington tappa i buchi? E la California, è formalmente fallita come si sente dire nel circo politico-mediatico?

 

Chi ha i capelli ormai ingrigiti, tristemente o magari orgogliosamente, ricorda che cos’era la New York postsessantottina. La mitica Columbia University, uno dei santuari dei baby boomers, era circondata da quartieri in sfacelo, sommersi da cumuli di immondizie, attraversati da spacciatori e da bande sanguinarie in lotta per il predominio del territorio. Un film di successo, “I guerrieri della notte”, aveva mitizzato il verminaio che si stava mangiando la Grande Mela. Chi arrivava da fuori veniva avvisato di non uscire di notte, di non prendere la metropolitana, di tenere sempre qualche banconota di piccolo taglio in tasca per rabbonire i taglieggiatori. La polizia, corrotta e clientelare, era stata messa sott’accusa nel 1971 da un agente, Frank Serpico, che diventerà un’icona con il film interpretato da Al Pacino. La città, emblema dell’America liberal, la capitale della cultura a stelle e strisce (non solo quella pop di Andy Warhol o del Rolling Stone) era alla ricerca di una nuova identità. Nel frattempo, cresceva la pressione per servizi sociali, assistenza, welfare, scuole pubbliche.

 

La tesi dei repubblicani era che i newyorchesi se l’erano cercata, perché volevano vivere al di sopra delle loro possibilità. Batteva su questo tasto l’economista Alan Greenspan, consigliere del presidente Gerald Ford, e gli dava spago Donald Rumsfeld, capo di gabinetto della Casa Bianca. Non avevano tutti i torti, tanto che The Nation, antico punto di riferimento della sinistra a stelle e strisce, nel ricostruire il crac finanziario di New York ricorre alla stessa analisi: “La città ha provato a mantenere inalterato il suo esteso welfare state nonostante la recessione, il declino industriale e la fuga della classe media”, scrive. Ci sono sempre grandi cambiamenti sociali dietro le crisi finanziare perché la moneta, come ricordava lo storico Marc Bloch, non è un pezzo di carta, ma è “a un tempo barometro di movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse”.

 

Quando arriva l’embargo petrolifero dopo l’attacco a tenaglia della Siria e dell’Egitto contro Israele, il 6 ottobre 1973, festa dello Yom Kippur, le finanze della città sono già sotto stress. Abraham D. Beame lo sa. Ragioniere di mestiere, poi politico di lungo corso democratico, Abe come lo chiamano gli amici, è il primo sindaco ebreo praticante nella storia di New York City. Il suo predecessore John Lindsay era stato eletto come repubblicano per poi passare ai democratici e tentare la nomination nel 1972. Ex ufficiale di marina, avvocato alto e di bell’aspetto, si era messo in politica ai tempi di Eisenhower, riuscendo a entrare in Congresso. Nel 1965 aveva conquistato la poltrona di sindaco contro Beame, ma si era rivelato debole, “esiliato nella sua propria città”, come scrissero i giornali, e venne travolto dallo scandalo Serpico, lasciando la porta spalancata al tozzo e combattivo Abe il quale, messo sotto pressione dalla crisi sociale immanente e da quella economica incipiente, molla la partita doppia e comincia a spendere. Puntando il dito contro l’avidità delle grandi corporation, proclama: “I newyorchesi non debbono soffrire per problemi che sono il risultato di forze economiche che sfuggono al controllo della città”.

 

Per coprire i debiti, l’amministrazione emette nuove obbligazioni e bussa alle porte delle grandi banche di Wall Street. L’apertura del World Trade Center con le Torri gemelle, nel 1972, sembra l’inizio di una nuova èra, senza immaginare che un anno dopo sarebbe scoppiata la recessione peggiore del Dopoguerra. Nella primavera del 1975, i buoni comunali vanno a picco e le banche cominciano a non accettarli più. Abe chiede aiuto a tutti, a cominciare dai fondi pensione dei dipendenti. Poi si rivolge, come è prassi, al governatore dello stato anche lui democratico puro e duro, il primo membro del Congresso a opporsi alla guerra del Vietnam. Hugh Carey e il suo luogotenente Mario Cuomo passano la pratica all’Emergency Financial Control Board, l’agenzia che deve intervenire in caso di emergenza finanziaria. L’Efcb sottrae i libri contabili al comune e comincia a imporre misure draconiane: stipendi congelati, tagli degli organici, assistenza dimezzata, aumento delle tariffe dei trasporti pubblici, chiusura di alcuni ospedali, librerie, persino stazioni dei pompieri. La crisi s’avvita e i sindacati lanciano l’allarme stipendi e pensioni.

 

Entrano in scena a questo punto la banca Lazard e il suo capo Felix Rohatyn chiamato a presiedere una commissione incaricata di districarsi nella giungla dei debiti. Eminente finanziere, gran sostenitore dei democratici, ambasciatore a Parigi nominato da Bill Clinton, spiega che la città fu salvata da tre fattori: “Il senso di responsabilità dei sindacati che accettarono sacrifici pesanti, Wall Street che possedeva gran parte del debito e aveva tutto l’interesse a ristrutturarlo e l’intervento del governo federale”. Perché il sistema privato da solo non aveva abbastanza credito per far fronte alla crisi.

 

Il povero Abe si reca a Washington con il cappello in mano. Greenspan, però, gli risponde secco: “Non ci sono scorciatoie alla responsabilità fiscale”. Non parla solo per se stesso, ma per conto di Gerry Ford, massone dichiarato, l’unico presidente a non essere stato mai eletto nemmeno come vicepresidente (venne soltanto nominato da Nixon dopo le dimissioni del suo vice Spiro Agnew e si trovò solo soletto alla Casa Bianca il 9 agosto 1974 dopo l’impeachment del bistrattato “Tricky Dick”). I valori dei titoli newyorchesi in circolazione cadono in picchiata trascinando anche l’indice Dow Jones e Rumsfeld commenta: “Non è un disastro naturale né la volontà divina, ma un atto autoinflitto dalla gente che ha governato la città per tanto tempo”.

 

Tornato a casa, al sindaco non resta che la resa e comincia a scrivere, finché non gli arriva la prima buona notizia in tanto tempo. Il fondo pensioni degli insegnanti ha deciso di comperare bond per 140 milioni di dollari. Una boccata d’ossigeno che evita l’immediata dichiarazione di bancarotta, ma di quattrini ne servono molti di più, almeno venti volte tanto. Due giorni dopo Ford pronuncia la sua sentenza: New York può cadere morta ammazzata. “Drop dead”, titola a tutta pagina il Daily News. In realtà non ha detto proprio così, sembra che la frase infame non sia mai stata pronunciata e la stampa l’abbia sparata a bella posta. Ma il senso è proprio quello.

 

Per vincere l’intransigenza di Ford, Greenspan e Rumsfeld, interviene persino il cancelliere tedesco, il socialdemocratico moderato Helmut Schmidt, il quale mette in guardia dai rischi che il collasso di New York può provocare sull’economia mondiale già duramente provata dalla crisi petrolifera. La questione viene presa in mano dal Congresso che chiama a testimoniare amministratori e banchieri per capire come si è arrivati a questo punto e cosa fare. Alla fine viene approvata una legge, il “New York City Seasonal Financing Act”, che garantisce 2,3 miliardi di dollari. In cambio l’amministrazione deve abbracciare e attuare un duro programma di austerità.

 

E Greenspan? Ingoia il rospo, ma quando diventa banchiere centrale, nominato da Ronald Reagan nel 1987, il signore del dollaro si toglie qualche sfizio. Dagli anni Settanta a oggi ci sono stati 76 casi di insolvenza su bond municipali, ben 46 dopo il 1986. Nel bollettino dei fallimenti spiccano alcune grandi città come Detroit o San Bernardino in California. Ma nessuno stato, anche se per la verità sia la California sia il Michigan ci sono andati molto vicino. I default statali risalgono alla prima metà dell’Ottocento, esattamente agli anni Quaranta, quando investirono otto stati e il territorio della Florida. L’esperienza dei fallimenti a catena (che ha avuto un’appendice anche dopo la guerra civile) ha spinto gli americani a introdurre regole rigorose come l’obbligo del pareggio di bilancio, oggi in vigore ovunque tranne che nel Vermont.

 

Paul Volcker, il governatore della Fed che stroncò l’iperinflazione nei primi anni Ottanta, ha guidato una task force incaricata tre anni fa di analizzare i bilanci di California, New Jersey e Virginia, tre stati che hanno attraversato crisi finanziarie complesse. Il rapporto è stato appena pubblicato e si conclude con raccomandazioni il cui obiettivo è creare bilanci trasparenti e finanziariamente solidi (oggi non sono né l’uno né l’altro). La ricetta è la più classica, ma raramente viene seguita: usare le risorse ordinarie per coprire i costi ordinari, ogni scorciatoia per coprire i buchi utilizzando mezzi eccezionali – ingegneria finanziaria, derivati, vendita di beni pubblici – porta in un vicolo cieco. L’altra raccomandazione è non indebitarsi per coprire le spese operative, ma solo per investimenti o per affrontare una crisi congiunturale. Tutti e tre gli stati hanno regolarmente violato questi principi di buona finanza e si sono trovati nei guai. Specialmente la California che con i suoi 38 milioni di abitanti e un prodotto lordo superiore a quello italiano è un test davvero speciale.

 

Nel dicembre 2009, l’ufficio statale di analisi legislative a Sacramento, capitale del Golden State, dichiara che ci sono 21 miliardi di dollari in pendenza tra l’anno in corso e il successivo. Secondo l’ufficio di bilancio il debito dello stato ammonta a 68 miliardi. Ma sommando insieme l’intero indebitamento delle città e di tutte le municipalità si arriva a 500 miliardi, un macigno che farebbe crollare l’intero sistema finanziario americano con un colpo durissimo su quello internazionale. La questione è ancor più intricata perché, spiega Bill Watkins del Center for Economic Research and Forecasting, non esiste nessuno schema normativo per gestire una eventuale bancarotta dello stato. Ciò rende la California too big to fail.

 

Per tutto l’anno Arnold Schwarzenegger, governatore a fine mandato, aveva fatto ingoiare ai suoi repubblicani aumenti record delle tasse e agli avversari democratici tagli pesanti alle spese, mandando su tutte le furie entrambi, nonostante fosse chiaro che l’emergenza non era una manovra spettacolare di Terminator. Di fronte all’impossibilità di pagare in biglietti verdi, lo stato è arrivato a emettere dei pagherò. Ma le principali banche hanno rifiutato di scontare quel tipo di cambiali.

 

La California, insomma, si è trovata in una situazione simile a quella della Grecia. Ma la California non è la repubblica ellenica. E gli Stati Uniti non sono l’Unione europea. Prima un bilancio lacrime e sangue con tagli di 15 miliardi di dollari, poi regole ferree e controlli più serrati sulle spese, infine la ripresa economica del 2010. Tutto ciò ha consentito di evitare un default che sarebbe stato catastrofico. Con il nuovo boom post crisi, il successore di Schwarzy, il democratico Jerry Brown, ha potuto persino firmare un bilancio in attivo.

 

[**Video_box_2**]Il grande crac finanziario ha riproposto l’esigenza di un meccanismo federale per affrontare l’insolvenza municipale. Un città può ricorrere al Chapter 9 della normativa sulla bancarotta se gli aiuti che riceve a livello locale non sono sufficienti. Uno stato no. La legge Dodd-Frank che ha riformato il sistema bancario e finanziario, ha glissato perché il Congresso era troppo diviso su un punto ad alta sensibilità politica. Paula Tkac, vicedirettore e senior economist della Federal Reserve di Atlanta, uno dei maggiori centri di ricerca economica nel sistema della Banca centrale, ricorda che “i singoli stati in quanto sovrani non sono soggetti alle leggi federali sulla bancarotta. E non esiste un sostegno del governo federale per gli stati in difficoltà”. Per questo si fa di tutto e di più affinché non falliscano.

 

Quanto alla Fed, il suo intervento riguarda il sistema bancario. O, al limite il Tesoro degli Stati Uniti per conto del quale può stampare tutti i dollari necessari a far fronte ai debiti. Ma non è così per le amministrazioni locali che siedono ancor oggi su una polveriera: i debiti locali per lo scorso anno sono calcolati attorno ai 3.700 miliardi di dollari – spiega Paula Tkac – ai quali si aggiungono tremila miliardi di buco nei fondi pensione. Il 75 per cento dei titoli è nei portafogli delle famiglie e dei fondi pensione. Il mercato dei municipal bond è territoriale: solo gli abitanti della California o di New York, per esempio, possono comprare i buoni emessi dallo stato o dalla città. Buoni che hanno un carattere speciale, tra l’altro sono esentasse. Ma ogni perdita ricade direttamente sui risparmiatori.

 

“La mancanza di un meccanismo di ristrutturazione o risoluzione dei debiti degli stati – conclude Paula Tkac – mette in pericolo la stabilità del sistema”. Insomma, ci vuole un fondo salva stati, qualcosa smile al Mes (Meccanismo europeo di stabilità). La sua non è un’opinione isolata, ma esprime la posizione di una parte della Banca centrale americana ed è sostenuta anche dai pensatoi progressisti come il Roosevelt Institute il cui capo economista è Joseph Stiglitz. Nettamente contrari i conservatori dell’American Enterprise Institute o i neoliberisti del Cato Institute. Nessuno ha la soluzione pronta, si va avanti per prove ed errori. Come scrisse Samuel Beckett: “Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio”.

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