Borsellino chi?
Oggi via D’Amelio sarà un deserto. I figli di Paolo Borsellino risulteranno assenti giustificati, per abuso altrui di retorica. Nel silenzio corrucciato di quella storia, risuonerà l’invettiva granitica e pacata di Manfredi Borsellino: “Il 19 luglio? Non ci sarò. Mi sono messo di turno al lavoro, a cercare di fare qualcosa di concreto, non ho tempo per commemorazioni senza senso”. Quasi le stesse parole della sorella Lucia, che dopo due anni e mezzo di cose confuse e di cose sperate, ha sbattuto la porta e ha definitivamente abbandonato Saro Crocetta e la sua giunta dei miracoli: “Torno a essere la figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti chiedo a tutti di non invitarmi alla commemorazione di via D’Amelio. Non capisco l’antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. La legalità, per me, non è facciata”.
E come avrebbe potuto, Lucia, oltretutto, farsi vedere con Saro, dopo l’intercettazione-fantasma delle centomila polemiche pubblicata dall’Espresso, secondo cui cui Matteo Tutino – il medico personale del governatore di Sicilia, coinvolto in una vicenda penale – avrebbe detto al suo illustre assistito: “Va fermata, fatta fuori. Come suo padre”? Il riferimento – secondo quella cronaca – sarebbe stato proprio a lei, progenie di martire. La procura di Palermo ha seccamente smentito per bocca del suo capo, Francesco Lo Voi, con una presa di posizione che ammette poche repliche: “Non risulta trascritta alcuna telefonata tra Tutino e Crocetta del tenore sopra indicato”. L’intercettazione dunque non c’era, dice il procuratore, ma la ferita resta.
E restano il caso politico, le repliche affannate, la sollevazione popolare come non accadeva dai tempi di Totò Cuffaro e dei suoi cannoli. Resta l’urlo liberatorio che ha accompagnato l’annuncio di autosospensione di Crocetta, con l’ipocrisia dei comunicati di chi si appresta a saltare giù in fretta dal carro del mascariato con la stessa velocità con cui era salito. E tutto racconta un clima di veleni e cicatrici, di cui in questo momento non si può prevedere l’evoluzione. Nel cielo sopra Palermo, spira un venticello radioattivo che ha scoperchiato i sepolcri sbiancati dell’antimafia, di qualsiasi parrocchia, e ne ha mostrato la nudità.
Nonostante macerie e nobili assenze, in via D’Amelio, ci saranno gli altri: i soliti noti. Ci saranno vecchi marpioni in cerca di gocce di consenso, ché viviamo tempi di arsura. I professionisti di antico conio sciasciano. Ci saranno, a battere le mani, i bambini incantati dalla bugia di una rivoluzione, i figuranti della commozione, le miniature dell’indignazione a comando che non vanno oltre un’agenda rossa. Né mancheranno gli esegeti della “Trattativa” che non amano la verità, perché preferiscono la fiction della Gigantesca Cospirazione Istituzionale, della piovra con i tentacoli in forma di coppola e magari con il volto di un grande Capo di Stato. E ci sarà il nuovo presidente della Repubblica, per fare ciò che si fa in casi del genere: la benedizione solenne della Sacra Lotta, come se intorno non piovessero calcinacci. Ci sarà sicuramente il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, a caccia di simpatie da raggranellare per una futuribile candidatura alla presidenza della regione. E ci sarà Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, che abbracciò pubblicamente Massimo Ciancimino, il rampollo fantasista di don Vito. Poi, si giustificò, arricciando il naso al cospetto dell’insolente indignazione popolare: “Lo rifarei. E’ il principale testimone del processo sulla trattativa. Ho manifestato solidarietà a Ciancimino per le scelte che ha fatto, che paga e pagherà, perché non vuole che il suo cognome pesi sul figlio così come ha pesato su di lui. Il giudizio penale lo dà la giustizia. So che è stato condannato in via definitiva per riciclaggio. Ma a un uomo che mi chiede di venire in via D’Amelio con suo figlio bambino non posso dire di no”. Inconsueta moderazione per il supremo ispiratore delle agende rosse e tedoforo del principio intransigente. Per anni, nei cortei giovanili che seguirono la terribile estate del Novantadue la parola d’ordine fu: “Meglio un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino”. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che qualche anno dopo quei ragazzi, assiepati dietro gli striscioni, sarebbero stati testimoni di una scena impensabile: il fratello di Paolo Borsellino e il rampollo di Vito Ciancimino che si abbracciano sotto il flash dei fotografi, rivendicando lo show come un merito.
Ma i figli di Paolo, i martiri viventi, inchiodati al lutto, rimarranno a casa, per via di offese antiche e recenti. Non ci sarà Manfredi che serve lo stato da commissario di polizia: un uomo con i tratti del viso di suo padre. Non ci sarà Fiammetta, né Lucia che ha tentato di tenere alto il vessillo immacolato di famiglia accanto a Rosario Crocetta da Gela, per ritirarsi alla fine con sdegno e dignità.
E ci sarò io, ex giovane entusiasta da corteo, oggi cronista di mezza età. Tornerò in via D’Amelio, nella Spoon River dei siciliani, dei morti legati al loro ultimo gesto. Paolo Borsellino che scende dalla macchina, si avvicina al citofono e sta per accendersi una sigaretta. Antonio Vullo, l’autista superstite, che osserva il mezzo sorriso del giudice nello specchietto retrovisore, prima del boato. Gli anonimi guardiani del prossimo che finiscono sotto la dicitura “gli uomini della scorta”: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Avrò in tasca la foto di Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, studenti come me del liceo classico Meli di Palermo, investiti e uccisi sette anni prima da un’auto di scorta a Borsellino, il 25 novembre 1985. Mi metterò accanto all’alberello che raccoglie gli ex voto depositati da tutta Italia – ritagli di giornali, dediche su bigliettini, fazzoletti da boy scout, santini – e pregherò per quei defunti in processione. Penserò alle vittime innocenti, cadute per mano della mafia maledetta. Ai ragazzi di scuola schiacciati dall’innocenza dell’antimafia. E al giudice Paolo che aveva un cuore generoso e soffrì molto per la sciagura del Meli, il liceo in cui aveva studiato.
E con me vorrei proprio Rosario Crocetta – il presidente nella bufera – seduto ai piedi dello stesso albero. Gli chiederei, senza enfasi, ma senza sconti: Saro, perché hai seppellito la nostra antimafia? Se Manfredi, Fiammetta e specialmente Lucia oggi non sono presenti, non credi che potrebbe essere un po’ colpa tua, della tua antimafietta tascabile? Perché hai mutato la bellezza nata dalla pena in cabaret? Perché hai preso Spoon River e ne hai fatto – sì, anche tu – deserto? Mi piacerebbe una chiacchierata con te, presidente. Nelle vicinanze del luogo della strage ci sono ristoranti e pizzerie che seguono, giocoforza, il marketing della commemorazione e vedono aumentare il fatturato a ogni anniversario. Ci accomoderemmo da qualche parte, alla fine del rito. Tirerei fuori dalla tasca la foto di Biagio e Giuditta – Biagio col sorriso timido di un quindicenne approdato dal suo paese al ginnasio della città, Giuditta con gli occhi immensi dei suoi diciassette anni – e ti spiegherei ogni cosa. Perché sono stato un ragazzo dei cortei, ricolmi di applausi e slogan quando, negli anni Ottanta e Novanta, tra efferatezze e delitti, noi giovani palermitani credevamo di potere cambiare il nostro mondo ed era la reazione dell’adolescenza al sangue. Più se ne versava, più in noi splendeva la certezza di un sol dell’avvenire in una terra liberata da Cosa nostra. Ti racconterei del tramonto dell’illusione: del passaggio dall’antimafia del disinteresse all’antimafiaccia degli affari, delle parentele eccellenti e delle prebende. Una cupola rovesciata, dei buoni, ma pur sempre cupola. E aggiungerei all’ennesimo morso di pizza: Saro, non è solo colpa tua, se i ragazzi di Paolo non sono qui. La degenerazione viene da lontano. Tu sei arrivato dopo – dopo Capaci, dopo via D’Amelio – con le speranze sotterrate fino al collo. Però, un colpetto di vanga l’hai dato. Vasto è il rosario da sgranare dei tuoi errori, a prescindere da Matteo Tutino e dalle intercettazioni più o meno fantasma.
Tu hai trasformato la santità della denuncia, l’azione antimafiosa per eccellenza, in esibizione circense. Ricordi la furia delle tue conferenze stampa col dito puntato, quando davi a ogni esposto, a ogni rigurgito morale, il tono surreale di una pantomima che non conosce confini?
L’hanno apprezzata tutti – pure chi non avrebbe voluto – la tua narrativa, in una recente intervista al Fatto. “Appena messo piede in regione – hai detto a uno sbigottito Antonello Caporale – dove, per capirci, sette presidenti sono finiti in carcere e uno ammazzato, ho revocato 38 appalti a personaggi o ditte inquinate. Quando ero sindaco di Gela ho fatto arrestare la moglie del boss e cacciato altri 825 mafiosi. Vendo fumo?”. Dopodiché, nella fumisteria dei numeri, sarebbe giornalisticamente interessante sentirli uno per uno questi ottocentoventicinque mafiosi, per sapere se sono mai esistiti, come e dove vivono; spulciarli uno per uno i trentotto appalti “inquinati”, almanaccare negli archivi per cercare notizia dei sette presidenti arrestati, chiamarne l’appello, invocarli in una seduta spiritica. E stabilire, alla fine della conta, che forse c’è stato un filino di confusione, fomentato dalla foga.
Tu hai seminato suggestioni e fantasmi nel corpo di una lotta genuina. La tua fantasticheria di rischi e complotti non si ferma davanti a nessun argine. Nemmeno i caselli autostradali ne sono immuni. “Ho dubbi, non posso provare nulla. Penso ogni giorno di morire. Continuo a ricevere minacce dalla mafia ma mi sono abituato a non avere paura”. Senza battere ciglio hai rilasciato questa dichiarazione all’indomani di un incidente stradale che ti colse involontario coprotagonista. La categoria pasoliniana del “Io so, ma non ho le prove”, applicata allo schianto di un’auto di scorta al casello di Cassibile. Non c’è da motteggiare, né da scherzarci su: nessuno sottovaluta le minacce di mafia. La prudenza appare opportuna, pure nella labilità dei riscontri. Ma rimane aperta la ferita dell’antimafia ridotta a strumento per la costruzione di un mito fasullo: l’epos di Rosario Crocetta, l’eroe.
Ed è stato proprio per consolidare il mito del tuo curriculum antimafioso che, appena eletto presidente della regione, hai nominato Lucia Borsellino assessore alla Sanità, baraccone isolano del clientelismo, perché intendevi mascherare la tua inadeguatezza di governatore politicamente impresentabile con la coperta di un nome caro. Quando lei – sopraffatta dal malessere e dalla nausea del “caso Tutino”, il primario sotto accusa per truffa, falso, peculato e abuso d’ufficio – ha dato le dimissioni, hai fatto spallucce. Anzi, hai osato molto di più: l’hai sostituita, prendendo il suo posto, noncurante dell’imbarazzo provocato per le vicende di quel primario a te vicino. Ti sei ravveduto tardi, abbandonando lo scettro assessoriale a danno ormai consumato. Nel frattempo il tuo cerchietto magico, il circoletto di prossimità che si bea delle perline di potere che puntualmente gli concedi, non ha mosso un muscolo della sua coscienza. Neppure Antonio Ingroia – l’ex pm che ripete ai quattro venti di considerarsi l’allievo prediletto di Borsellino – ha trovato alcunché da ridire: ha preferito rimanere buono, quieto e silente in quella poltroncina di sottogoverno dove tu, magnanimo, l’hai insediato dopo il flop della sua avventura politica. E poi ci meravigliamo se i figli di Paolo restano a casa?
Come per rinnovare una promessa di fede, tornerò in via D’Amelio, nella strada imbandierata di buoni propositi e vacuità. Ci saranno farfalloni e mattatori, figuranti e indignati. Non ci saranno Manfredi, Fiammetta e Lucia, piegata dagli ultimi clamori. Ci saranno le agende rosse e i “trattativisti”, gli appassionati della fiction di un processo che, dopo tanti cori e tanti furori, vive ormai solo come una stanca e ammuffita rivisitazione letteraria, annegato in una malinconia di complotti. Ci sarà il fratello di Paolo e chissà se abbraccerebbe ancora il figlio di don Vito, il sindaco corleonese del sacco di Palermo. Ci sarai forse anche tu, Saro, con il tuo pugnetto di terra da pietosa sepoltura. In questa Spoon River delle colpe di tutti, orfana dei vivi e dei morti, sopravvive una sola lapide. Lì dove si legge: “Borsellino chi? E’ da anni che non abita più qui”.
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