Un’illustrazione di Norman Rockwell, il pittore che ha ritratto gli anni felici dell’America

Il rimorso dell'occidente

I migranti li abbiamo caricati noi sui barconi. Metaforicamente, ma nemmeno poi troppo. Il terrorismo islamico è colpa nostra, sia che propendiamo per lo schema interpretativo coloniale, sia che preferiamo quello dell’élite finanziaria senza volto che affama i popoli e scatena rivolte.

I migranti li abbiamo caricati noi sui barconi. Metaforicamente, ma nemmeno poi troppo. Il terrorismo islamico è colpa nostra, sia che propendiamo per lo schema interpretativo coloniale, sia che preferiamo quello dell’élite finanziaria senza volto che affama i popoli e scatena rivolte. Sempre di una nostra creatura si tratta. Le diseguaglianze economiche sono colpa nostra, e così il collasso finanziario, la stagnazione, la povertà africana, la crisi della classe media, la perdita dei valori, l’attaccamento fanatico ai valori. L’anarchia della Libia è colpa del nostro intervento militare, ma anche il regime di Gheddafi era il prodotto di nostri errori. L’Iran vuole dotarsi di armi nucleari – un accordo non basta certo a piegare la volontà suprema della Guida Suprema – non perché è guidato da teocrati apocalittici e antisemiti, ma per la politica estera americana, che ha alternativamente sostenuto e oppresso il fiero popolo persiano nel corso dei decenni. Vogliamo parlare di Saddam Hussein e dello Stato islamico? Di Bin Laden addestrato dalla Cia? Dell’11 settembre organizzato da Bush? Per sporgersi sull’oceano nero delle teorie del complotto servono buone dosi di dramamina o un’infinita nostalgia degli anni Zero, ma la premessa che dà sostanza psicologica al complotto è sempre più interessante del complotto stesso. E dietro a ogni tesi sull’inside job, così come ai sit-in contro il Bilderberg e la Trilateral, dietro a ogni protesta contro la Monsanto si staglia l’onnipresente sagoma del senso di colpa. Senza i segni di una colpa pregressa, una macchia che affligge, complottare contro se stessi è molto più difficile. Pure il destino mesto della Grecia è colpa nostra, e per nostra s’intende dell’Europa, ovvero della Germania, che di sensi di colpa ne sa qualcosa ma in questo caso – eccezione – gira alla larga dalla liturgia dell’autoaccusa riproponendo un’aria a sfondo luterano come un disco rotto: il debito, la Schuld, la colpa, è tutta di voi greci pigri e inefficienti. Siete voi che dovete pagare, espiare. La primavera araba è stata scatenata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e poi l’occidente ha mollato le piazze al loro tirannico destino, così che già ribolle un nuovo pentolone ricolmo di senso di colpa. Dannati noi che abbiamo perso l’occasione di soccorrere i popoli che noi stessi abbiamo oppresso. Qualcuno, sfidando il consenso liberale sulle relazioni internazionali e abbracciando la scuola realista, dice che perfino l’aggressività di Vladimir Putin, che invade e annette territori a piacere e fa spallucce quando la comunità internazionale gliene chiede timidamente conto, è in realtà un altro pezzo della colpa occidentale. Chi, se non l’occidente imperialista, dopo il collasso dell’Unione sovietica si è spinto sempre più a est con la Coca-Cola in una mano e un modulo di adesione alla Nato nell’altra? Chi ha creduto di poter tramutare con l’imposizione delle mani l’Europa orientale in una dependance atlantica? Il prezzo di questo gaio espansionismo è che la Russia si è sentita minacciata, ed eccoci qui ora a dire quanto è autoritario e ottocentesco questo leader. In realtà lui è il difensore e noi gli aggressori.

 

Esiste in occidente un noto senso di colpa radicato nel passato coloniale, rilanciato poi con l’Olocausto e pure con la dominazione globale del Secondo dopoguerra. E’ quel complesso che ha trasformato il fardello dell’uomo bianco nel suo singhiozzo, per dirla con l’intellettuale francese Pascal Bruckner, che nel 1984 ha scritto la prima di una serie di riflessioni sul senso di colpa dell’occidente. In America il complesso originato dal colonialismo è stato sostituito dalla “white guilt” per la tragica epopea della schiavitù e della segregazione, storia mai del tutto sepolta e incredibilmente attuale nelle cronache, da Ferguson a Baltimore fino a New York e in decine di altre città. Probabilmente la reazione pubblica e politica alla strage di Charleston in cui un ragazzo bianco ha ucciso nove afroamericani in una chiesa locale è il caso più esplicito in questo senso. Non soltanto l’America ha reagito con orrore di fronte alla feccia da supremazia bianca di cui la mente dei Dylann Roof era imbevuta, ma ha sentito l’esigenza di un rito di espiazione collettivo di uno dei simboli che il ragazzo farneticante teneva fra le mani in alcune fotografie: la bandiera confederata (che poi è in realtà la bandiera dell’esercito della Virginia, ma comunque esprime l’orgoglio del sud schiavista). Non c’è stato il tempo né lo spazio per dibattere, fare distinzioni, per avventurarsi nella separazione fra il simbolo culturale, quello che gli scanzonati fratelli Duke della serie “Hazzard” avevano fatto aerografare sul tettuccio del Generale Lee, e il marchio infame della schiavitù; non si è nemmeno provato a formulare un argomento di questo genere: forse la colpa è più del pazzo omicida che della bandiera che tiene in mano, variazione sul tema “people kill people” caro ai difensori del Secondo emendamento. Anche loro, anzi specialmente loro, erano fra i più zelanti avvocati della rimozione del simbolo della colpa, come se anche loro stessi avessero avuto un ruolo nella creazione del mostro razzista che ha sparso morte a Charleston. Una specie di mandante morale collettivo. Può darsi anche che la distinzione non abbia cittadinanza nella regno delle cose reali e chi la propone sia in realtà un razzista che fa dei sofismi capziosi, come l’intera famiglia Duke del succitato telefilm di culto, ma il senso di colpa latente ha tagliato la questione prima del nodo, e la bandiera è stata rimossa fisicamente dagli spazi pubblici e dagli store, specchio della rimozione psicologica dalla coscienza che va costantemente candeggiata, ché lo sporco ritorna sempre su. Dopo la strage è stato un pullulare di statistiche che ricordano come la prima causa di morti per mano di terroristi in America – e in tutto l’occidente – sia la supremazia bianca, altro che il Califfato. La bandiera della Rhodesia invece non è stata ripudiata, nonostante comparisse anche lei nelle fotografie incriminate dello stragista, ma quel vessillo evoca le colpe della madrepatria britannica, toccherà ad altri contrirsi ed espiare.

 

L’idea della società americana fondata sulla colpa è antica, e la formulazione più affermata si trova nel “Crisantemo e la spada” di Ruth Benedict, dove però l’antropologa proponeva l’occidente come un consesso di sfumature, non un monolite della colpa. La società britannica era basata sulla vergogna, così come quella di alcuni paesi cristianizzati ma eredi di civiltà precristiane molto radicate, ad esempio il Messico; gli Stati Uniti puritani erano invece l’archetipo della cultura della colpa, con la tipica tendenza a internalizzare la colpa finché una punizione o il perdono non ristabilisce l’ordine morale violato. Nell’idea di Benedict la colpa è un fiume carsico, scorre nei sotterranei dell’inconscio per poi affiorare quando alcune circostanze specifiche scatenano le forze della colpa in superficie. E’ così che il rituale della messa al bando della bandiera confederata, con processo politico per direttissima e severa cerimonia militare, assume un valore catartico.

 

Sembra però che la frammentazione del mondo, l’incapacità di risolvere o spiegare gli scenari secondo formule sintetiche, abbia lasciato enormi spazi di manovra al senso di colpa occidentale per espandersi, aggrappandosi a qualunque cosa. Con il tipico discettare tranchant, Bruckner nel suo “La tirannia della penitenza” suggerisce addirittura che il senso di colpa è la caratteristica fondamentale della sensibilità occidentale, il suo tratto antroplogico-morale dominante: “Niente è più occidentale dell’odio per l’occidente”. E ancora: “L’occidente è come un carceriere che ti mette in prigione e poi ti passa fra le sbarre la chiave per evadere”. Quando un qualunque regime autoritario bolla l’imperialismo americano ed europeo come il massimo dell’ipocrisia perché combatte a parole l’oppressione dei popoli mentre la alimenta nei fatti, tocca un fascio nervoso estremamente sensibile della coscienza occidentale. Le scuole di pensiero si spaccano a proposito dell’origine di questo ricatto assurto a dimensione dell’essere: è alternativamente colpa (appunto) del cattolicesimo nella sua versione agostiniana, del moralismo protestante, oppure della modernità secolarizzata che si credeva onnipotente e si è scoperta violenta e non particolarmente illuminata. Anche gli eventi che portano il segno di responsabilità extraoccidentali precise sono comunque psicologicamente ricondotti a qualche malefatta pregressa. Un generico e vago senso che il terrorismo islamico nasca dalle angherie subite dai popoli colonizzati resiste, anche per i terroristi che vengono da paesi mai occupati, anche per i popoli mai stritolati dal calcagno dell’uomo bianco. In questi casi si sfoggia l’argomento della dominazione indiretta: non c’erano le truppe in abiti coloniali a dettare legge, ma c’era una sfera d’influenza, un giogo diffuso fatto di condizionamenti, controllo dei processi economici, dei commerci, un soggiogamento materiale messo in atto con tecniche occulte e tenuto insieme con filamenti invisibili. A ben vedere, il movimento no global non combatteva che questa maligna capacità di controllo occidentalista estesa al globo intero, tramite i grandi poteri finanziari e le multinazionali affiliate. Non è un caso che quella stagione antisistema fosse strettamente imparentata con l’ideologia ambientalista, fondata sulla madre di tutte le colpe, la progressiva distruzione del pianeta. Che si collochi il pianeta nell’orizzonte della creazione intelligente o della meravigliosa casualità, l’uomo può egualmente autoaccusarsi di contribuire costantemente alla distruzione del bene più prezioso. L’ambientalismo rigoroso e ateo, non francescano né benedettino né giovanpaolino, arriva fino a concludere che l’uomo non è che un ignobile parassita. Il maschio occidentale, che si crede l’uomo per eccellenza, è per definizione più parassita e malvagio del coltivatore di caffè alle pendici delle Ande che vende la merce ai mercatini equosolidali, ma nella sublimazione verde del senso di colpa il vero e unico imputato è il genere umano. Generalizzare di più non si può.

 

[**Video_box_2**]Ci sono frotte di scienziati, climatologi, antropologi, biologi e tuttologi che prefigurano l’apocalisse per mano d’uomo. E’ uno schema antropologico che rovescia la figura del buon selvaggio, opponendo quella del cattivo civilizzato, ma ci si muove pur sempre nel perimetro dell’antropocentrismo: buon amministratore del creato o malvagio distruttore, la figura umana è comunque titanicamente al centro della scena cosmica, si tratta solo di stabilire se il canovaccio che interpreta è una commedia o una tragedia. Anche il senso di colpa come lente attraverso cui leggere qualunque fenomeno sociale, politico, ambientale può essere collocato nell’alveo di una modernità in cui l’uomo è l’alfa e l’omega. Così l’imputato è allo stesso tempo pubblico ministero e giudice, e a guardar bene la sentenza di colpevolezza è già stata scritta prima di andare a processo. Il filosofo australiano Thom Van Dooren nel suo recente libro “Flight Ways, Life and Loss at the Edge of Extinction” sostiene che il genere umano sta lavorando attivamente alla sua stessa estinzione, e questo avviene perché “anziché pensare a noi stessi come a degli animali, abbiamo una lunga tradizione che ci porta a considerarci gli unici esseri dotati di anima immortale o come delle creature a sé, per la nostra razionalità, per la nostra abilità nel manipolare e dominare il mondo”. La terra ha conosciuto cataclismi ed estinzioni di massa, ma i dinosauri non si sono autodistrutti emettendo anidride carbonica, mentre l’estinzione umana che Van Dooren prefigura in modo apodittico “è un’estinzione antropogenica, di origine umana. La causa principale sono gli uomini”. Biologi, geologi e scienziati di ogni risma si affannano da decenni per definire e perimetrare l’antropocene, l’epoca della vita della terra la cui caratteristica prevalente è l’influenza umana. Qualche mese fa un team di ricercatori chiamato Anthropocene Working Group ha proposto il 16 luglio 1945 come data di inizio dell’antropocene: è il giorno in cui l’uomo ha testato per la prima volta una bomba nucleare, e la scelta suggerisce piuttosto chiaramente il legame fra antropocentrismo moderno e senso di colpa occidentale. E’ con un’esibizione della sua tremenda capacità distruttiva che inizia l’era della malvagia dominazione dell’uomo sul pianeta. Un articolo apparso su Nature propone invece contorni più vaghi, sostenendo che l’inizio dell’antropocene potrebbe esser collocato nel 1610 così come nel 1964, comunque all’interno dei confini di una modernità che ha messo l’uomo su un piedistallo. Il crollo delle fantasie positiviste di dominazione illuminata di ciò che esiste non ha buttato giù l’uomo dal piedistallo, semplicemente lo ha sostituito con un piedistallo di un metallo molto meno pregiato. Il podio del vincitore s’è trasformato nello sgabello che viene tolto sotto i piedi dell’impiccato. Da quel disperato punto di osservazione l’uomo, in particolare l’uomo occidentale, guarda il mondo in tutte le sue sfaccettature, dal riscaldamento globale allo Stato islamico, e pensa una sola cosa: me lo merito.

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