Maurizio Bertelli e Miuccia Prada. “Litigano come animali”, dice Germano Celant. “Io sono una santa. Ci sono più cose belle che brutte nel nostro rapporto. Non mi annoio mai e ci rispettiamo”

Un'antipatica d'alta moda

Le lacrime amare di Miuccia Prada von Kant

Michele Masneri
Il negozio del nonno in Galleria, il circolo del Pci, l’incontro con “il Bertelli”, gli abiti e le borse, il cinema (Fassbinder e Godard, però). Ecco la dinastia della zarina milanese che con il suo marchio e con l’arte ha costruito un’egemonia.

"Non ne so niente”, “non saprei che dire, non frequenta nessuno”, “sì, son stata a casa sua, ma era tantiiissimi anni fa, non mi ricordo niente; “è off the record, vero?”. Il pezzo su Miuccia è più scomodo e rischioso di quello su Scientology. Il tema, cioè essere Miuccia, cioè Miuccia Bianchi Prada, nata nel 1948, massima icona di immaginario non solo sartoriale, è naturalmente arduo. Non solo per il solito lessico da ufficio stampa della moda a base di camouflage-iconico-contaminazione e per i timori e tremori di leggendarie riprovazioni e ripercussioni, ma perché nessuno riesce bene a spiegare come si può essere icona globale, seppur riflessiva, vestendosi e apparendo un po’ come la figlia della portinaia, col capello sfibrato e il mocassino e il calzino bianco.

 

Venendo dai bauli e dal Pci milanese, oltretutto. Le origini sono note: il negozio del nonno Mario Prada, aperto nel ’13 in Galleria col fratello Martino. Più in là col casato non si va, forse antenati spagnoleschi dunque manzoniani, ma c’è anche un conte Prada speculatore nel “Roma” di Emile Zola. Le origini certe danno però questo negozio, negozio non di pelletteria come si vorrebbe ma piuttosto di sfizi coloniali, di bauli e nécessaire dannunziani – di pelle di elefante, tricheco, serpente e alligatore; perché il sciur Mario non è pellettiere, è personaggio curioso, già militare di Marina, e il suo core business diventa presto il baule da piroscafo, baule dei più eccentrici, con inserti in argento e cristallo, e piace subito molto, tanto che sei anni dopo diventa già fornitore della Real Casa (e intanto, nel negozio in Galleria, ecco queso gran piroscafo affrescato, affresco teatrale un po’ salgariano, dello scenografo della Scala Nicola Benois). Anche partigiano, il Mario Prada, e infatti in queste borse, non si sa se di tricheco o elefante, porta su delle carte a Londra a don Sturzo, mentre il fratello Martino è nell’Azione cattolica e lascerà i pellami per fare politica attiva nel Partito popolare.

 

I Prada sartoriali, spiega Gianluigi Paracchini nel fondamentale “Vita Prada” (Baldini e Castoldi), libro non agiografico come i molti del genere maestri dell’ago e filo, derivano poi dal Mario, e il Mario ha due figlie, una Luisa e una Nanda; la Luisa sposa un Bianchi e produce una Maria Bianchi, e questa Maria Bianchi è Miuccia Prada. Miuccia è un diminutivo infatti di quelli cui solo la scienza milanese del nomignolo può arrivare. Il cognome Prada invece arriverà solo negli anni Ottanta, quando la Nanda, che è rimasta signorina e zia molto amata dai ragazzi Bianchi, li adotterà tutti per dare una continuità col casato e col pellame. Oltre a Maria e Miuccia, infatti, ci sono un Alberto e una Marina (Maria-Miuccia, in mezzo).

 

Poi ci sono gli studi della Maria-Miuccia al Berchet, con don Giussani professore di religione, poi la militanza nel Pci, sezione Porta Romana, circolo “Carlo Marx”. Circolo che nasce già griffato perché ad aprirlo è Giò Pomodoro nel 1972, e presto frequentato da Eva Cantarella, Paola Capriolo, Salvatore Veca, Barbara Pollastrini. E poi naturalmente dalla Miuccia-Maria, che “era molto attiva, molto atletica. Animava il circolo dell’Udi, l’Unione donne italiane. Partecipava a tutte le attività che si facevano allora, le danze, la ginnastica”, dice al Foglio Chicco Testa, che di quel circolo era presidente. E a trovarle oggi, le sciure che han fatto autocoscienza con la Miuccia, che scoop; ma forse sono state decimate o raccolte in una località segreta. “Miuccia veniva sempre con questi Saint Laurent che comprava ai saldi, e il lunedì non avendo orari d’ufficio veniva a lavare le pentole al nostro festivalino dell’Unità che si organizzava nei giardini di Porta Romana”, dice sempre l’ex deputato Pci. Il Saint Laurent in sezione è un classico della narrazione pradesca di Miuccia-Maria.

 

”A Milano si era del Movimento studentesco, non del Pci”, dice però un’altra signora naturalmente anonima dei bastioni, sostenendo insomma che quella pradesca era una sinistra all’acqua di rose, e del resto il prozio Martino era un democristiano in purezza, e insomma forse la storia dei Bianchi-Prada è una storia del Pd? Il centrosinistra italiano come proseguimento del baule da piroscafo con altri mezzi?

 

A suffragare questa tesi ci sarebbe anche l’innesto di toscanità. Come in ogni morfologia della fiaba stilistica, c’è sempre il momento primario in cui l’anima tutta sensiblerie e ispirazione incontra Il Bruto Organizzatore. Ecco Valentino con Giancarlo Giammetti, ecco Saint Laurent con Pierre Bergé, ecco Armani con Sergio Galeotti: nella fattispecie, qui, Maria-Miuccia incontra Patrizio Bertelli. Aggettivi più usati: roccioso, vulcanico, ruvido, maniacale, ossessivo. Tutti lo temono, molti lo detestano, girano le leggende (alcune confermate) delle più truci. I fari delle macchine parcheggiate male sotto gli uffici Prada spaccati con mazze da golf. La leggenda dello specchio ingrassante, un classico della Casa, confermata anche dal protagonista: uno specchio di una nuova boutique del marchio Miu Miu frantumato perché “ingrassa le clienti”. (”Gli piace avere questa fama” ha detto Maria-Miuccia al Wall Street Journal. Altrimenti si comporterebbe in maniera diversa”). Infine la storia della borsa, non la Borsa maiuscola di Hong Kong dove Prada si è quotata dopo tanti tira e molla, ma quella minuscola, proprio una borsa o borsone (pare non fosse tanto piccola, forse una tote bag, come dicono gli esperti), e questa borsa che non soddisfaceva requisiti bertelliani di qualità (lui esamina cerniere e cuciture e tagli del pellame) pare sia volata da una finestra, e di là finita di sotto in testa a una sciura ugualmente vulcanica, e insensibile alle lusinghe della Moda, che invece che scappare, dopo le tumefazioni, con il modello forse a tiratura limitata, è andata in questura e ha fatto denuncia.

 

La fiaba di Maria-Miuccia vorrebbe che col Bruto si incontrino al Mipel, la fiera della pelletteria di Milano, nel ’77. Con Maria-Miuccia che finalmente sgama in uno stand un produttore toscano di pelli che le copia le borse da anni, si trovano vicendevolmente odiosi, e dunque è l’inizio perfetto di una grande storia d’amore. In realtà il Bruto viene sì da Arezzo, ma è nipote e bisnipote di avvocati, ha una nonna contessa, e si è messo a fare dei cinturoni da jeans con marchio “Sir Robert” non per bisogno ma per spirito imprenditoriale intermediatore. Il Bruto aveva fondato la sua startup “I pellettieri d’Italia”, a 25 anni ha già 60 operai. E’ orfano di padre, la mamma è maestra, è mancino. Ha la passione per la satira, apre testatine in cui sfotte i personaggi locali, si chiamano Il pungiglione, Il bombarda, Pettegolaglia. Vota Psiup. “Controlla tutto, se avesse un filo di tette farebbe anche la modella”, dice una sciura milanese per far la spiritosa e citare Biagi che parlava del Cav. (spiritosa sì, ma “per carità non mi citi”, terrorizzata).

 

Il Bruto convince Maria-Miuccia a fare molte cose: a fare le scarpe (1983), a fare le collezioni donna (1988) e quella uomo (1993), forse anche a sposarsi; si sposano in municipio ad Arezzo, il giorno di San Valentino 1987, dopo otto anni di convivenza passati per lo più in un conventone-factory in Toscana. Viaggio di nozze a San Pietroburgo, praticamente chiusi all’Hermitage – i due sono collezionisti veri, non stilisti frou-frou che cercano nell’arte contemporanea un modo di legittimazione culturale, questo anche fa la differenza.

 

Si chiamano vicendevolmente “Il Bertelli” e “la Miuccia”. “Litigano come animali” secondo Germano Celant. Lui cucina, lei no. Generano due figli. Per qualche ragione misteriosa della genetica delle classi affluenti sfuggita a Veblen e Darwin, producono rampolli esteticamente avvantaggiati. L’esposizione alle vitamine e a denari – lo si è sempre sospettato – influisce sulla materia in modo non ancora sufficientemente chiaro, ma i Bertelli di ultima generazione, forse un giorno Bertelli-Prada e poi solo e definitivamente Prada, sono bellocci; si chiamano Lorenzo (27 anni, laurea in Filosofia con Massimo Cacciari, l’abate Parini delle alte borghesie milanesi; rallysta, ogni tanto fa degli incidenti, è nato lo stesso giorno di sua madre, il 10 maggio, sta in consiglio di amministrazione). E Giulio: 25 anni, studi di Architettura, segue invece la passione paterna per la vela, soprattutto pare abbia una passione ricambiata per una delle fanciulle più incantevoli d’Italia, cioè Palma Bucarelli, figlia di Angelo, nipote dell’omonima signora dell’arte romana.

 

“Io sono una santa. Ci sono più cose belle che brutte nel nostro rapporto. Non mi annoio mai e ci rispettiamo” dice Maria-Miuccia. Lui: “Io sono più istintivo. Il nostro rapporto è molto solido”. Se si è molto fortunati, nella casa di Porta Romana (è rimasta sempre quella, le radici borghesi vengono mantenute) si può assistere a dei rarissimi “Miuccia show”, scrive Paracchini: se lei è in palla, può gorgheggiare qualche aria della “Tosca”. Nella casa, disegnata da uno dei padri della grafica milanese, Italo Lupi, artefice anche del marchio Miu Miu, e del marchio del Poldi Pezzoli con le dame del Pollaiolo simil- Maria Elena Boschi di profilo, c’è una grande veranda che dà su un cortile interno; molti libri d’arte; addirittura un angolo tv (la tv la guardano ma non ci vanno assolutamente mai, son troppo astuti). Una cucina tutta d’acciaio dove Bertelli si esprime. La casa è stata fotografata su Abitare, rigorosamente senza i padroni, e senza alcuna dicitura che la ricollegasse a loro. A volte in questa casa si possono trovare le migliori società civili dell’area C: attorno a un tavolo tondo da otto, può capitare di trovare Lina Sotis, amica di famiglia, insieme a Michele Salvati, a Eva Cantarella. La coppia è moderna ma legata ad alcuni riti come il risotto, il panettone di Marchesi, pasticceria rilevata l’anno scorso. Ma Maria-Miuccia ama anche i panini del bar Quadronno, vicino casa, o di Sissi, pasticceria famosa per dei croissant che scuotono i creativi milanesi.

 

Pare che attorno al tavolo da otto sia sorta e tramontata l’idea di Maria-Miuccia sindaco. Si era nel 2006 e bisognava rispondere alla candidatura di Letizia Moratti, e i commensali entusiasti la incitavano, e lei che ha un animo politico oltre che poetico aveva detto finalmente sì. Salvo che poi Renato Mannheimer, amico allora molto in voga, aveva fatto un sondaggio riservatissimo da cui risultava che il brand di culto globale non attecchiva al Giambellino né a Molino Dorino quanto il nome milanesissimo e calcistico della sciura Moratti. Pare che Maria-Miuccia fosse pronta a gettarsi comunque nell’agone, ma il bruto realista Bertelli non fosse disposto a subire una sconfitta, oltre che a spendere un sacco di soldi (poi la sinistra candidò il prefetto Bruno Ferrante e perse lo stesso, senza brand globali né locali. Oggi Miuccia sindaco è ancora il sogno di molti milanesi da pasticceria e non solo).

 

Intanto la Maria-Miuccia l’egemonia su Milano l’ha comunque stabilita con l’arte. Per capire il potere culturale della signora bastava vedere il senso di spaesatezza di molte dame del “sistema dell’arte romano” all’inaugurazione della Fondazione Prada a Milano, nella primavera scorsa: non salutate da nessuno, tantomeno da Maria-Miuccia. Che non è una grande salutatrice, questo va detto. Non saluta quasi mai, non i vicini di barca, che rimangono sempre malissimo, e c’è tutta una popolazione affluente ospite o proprietaria di barche traumatizzata: “siamo lì, in rada a Valencia o qualche altro porto non sfigato, con una barca non proprio da poveracci, un Benetti da 40 metri, accanto c’è la barca Prada, lei è lì, non è che si sia vestiti male, non è che è proprio una compagnia di quarta, le si fa ciao ciao con la mano, ma lei proprio niente, sembra che le manchino le diottrie, non vede, non saluta mai, in nessun caso, assolutamente”. Neanche il pubblico alla fine delle sfilate: mette fuori solo il naso o mezza faccia. In una intervista a Guia Soncini su Repubblica ha detto che è per un misterioso complesso, qui si pensa che sia piuttosto per una sorta di legge non scritta: più è alto il tasso di figaggine dello stilista, meno compare alla fine (del resto basta andare ad AltaRoma, la sagra della moda romana, a vedere una sfilata di stiliste del Gra, con doppio abito da sposa, che vengon fuori e si fanno tutta la passerella e mandano tanti baciotti a tutti).

 

Ma tornando all’arte: già negli anni Novanta Gillo Dorfles loda questa commistione tra il capitale e la cultura paragonandolo a dinastie e marchi celebri come Olivetti e Brionvega. Però nessun marchio della moda è riuscito a diventare così legato a quello dell’arte contemporanea. Di sicuro, come si è detto, c’è un gusto per il collezionismo vero, l’arte non come status symbol di chi ce l’ha fatta, ma come naturale continuazione magari con più liquidità di collezioni già di famiglia. Riempire le case di cose belle, come si è sempre fatto, e con un gusto ben definito, non preso dalle riviste e dagli arredatori. A un certo punto, le case diventano troppo piccole, si creano musei. Con un sovrappiù di senso di colpa un po’ cattocomunista. “Mi sono sempre sentita in colpa perché fare vestiti era il peggio che poteva fare una ragazza impegnata negli anni Sessanta”, ha detto Maria-Miuccia, laureata in Scienze politiche in Statale con una tesi su “Il Partito comunista italiano e la scuola”. Ecco dunque non solo le mega-mostre, culminate ora nella Fondazione, ma anche un’estetica da signorina Tettamanzi da liceo milanese e cognizione dell’orrore: il mocassino punitivo con la calzetta, la gonna a pieghe piatte, il maglioncino spinoso.

 

Scherzi? Trovate? La signorina va comunque tanto al cinema. La collezione autunno-inverno 2015, con orchestrina live e cantante tedesca, si ispira apertamente a Rainer Werner Fassbinder e al suo “Lacrime amare di Petra von Kant”; c’è un maglioncino giallo a V uguale a quello indossato nel film del 1972. La storia racconta le vicende di Petra von Kant, famosa stilista degli anni Trenta caduta in una forte depressione dovuta a un passato turbolento, e della sua apparentemente muta governante Marlene, vittima della stilista che la maltratta. La vita di Petra viene sconvolta dall’incontro con Karen, giovane attrice di cui la protagonista si innamora perdutamente. Inizia così un classico rovescio della medaglia: Petra diventa vittima e Karen carnefice, arrivando ad abbandonarla per un uomo e ribaltando così quella dialettica serva-padrona che aveva mosso i personaggi sino a quel momento della storia. Una volta infatti rimasta sola e aver cercato di stabilire un rapporto più umano con la governante, Marlene abbandona casa von Kant e con lei Petra. Sensi di colpa a Porta Romana, sado-maso germanici e un maglioncino a V uguale a quello del film. E’ chiaro che, rispetto ad altri brand, i cosiddetti addetti ai lavori sbroccano: non sarà mica una velata critica alla Merkel, le chiedono, e lei: “Non sono un politico ma una stilista” anche se “ovviamente quel clima culturale era più critico di quello che vedo oggi e in fatto di potere ci sarebbe molto di cui discutere”.


La collezione Prada autunno-inverno 2015, con orchestrina live e cantante tedesca, si ispira apertamente al film “Le lacrime amare di Petra von Kant” di Rainer Werner Fassbinder


“Non resta che constatare quanto l’intelligenza caparbia e ostinata di questa creativa riesca oggi a far macinare fatturati e cultura, abiti con un pensiero e show con una profondità di riflessione”, scrive Simone Marchetti su Repubblica. Nessuno però riesce a spiegare il fenomeno. Essere molto avanti. Non mettersi d’accordo su tendenze ma mantenere un vantaggio competitivo spiazzante e farsi copiare nella collezione successiva dagli altri, che inseguono sempre. Essere femminista imponendo una liceale racchia globale ambitissima in cui immedesimarsi. Funziona tantissimo. La scarsità di fonti intelligibili costringe a teorizzare, forse prendendo cantonate, la dimensione epica pradesca. Forse si è in piena sindrome Maria. Non Maria Bianchi, ma Maria De Filippi, i cui primati così schiaccianti, insieme all’alone misterioso, alcuni attribuiscono anche alla inferiorità dei concorrenti. C’è anche un legame aeronautico tra le due: il Learjet con carlinga grigia tipo tomaia di scarpa Prada Sport, tutto argento con banda rossa, di proprietà Bertelli-Prada, viene spesso imprestato-noleggiato a De Filippi e al suo staff per Milano-Roma riservati (lo stesso Learjet una volta fu fotografato in pista a Sankt Moritz, dove la coppia possiede una casa, e le immagini erano curiose, con Miuccia che pareva calpestare dei collaboratori stesi a terra, e si trattò poi di uno scherzo, però l’immaginario pradesco rischia di creare cortocircuiti tra Feste dell’Unità e jet set letterali. Comunque in Engadina i Bertelli-Prada ci andavano già prima di fare il botto).

 

Tornando alla sindrome-Maria, anche Miuccia ha un nucleo molto stretto di consiglieri, una specie di setta, quasi che le due Marie fossero avidi personaggi in cerca di consapevole eterodirezione. Ecco allora, nel caso di Miuccia, una corte di consiglieri, un think tank mobile che ispira, coagula, solidifica il pensiero pradesco. Con un primo livello operativo, composto da due signore,Verde Visconti, nata Caracciolo di Castagneto, dunque discendente delle migliori araldiche tra gattopardi e Villar Perosa, donna immagine, pr e aristo-musa. E poi, soprattutto, Manuela Pavesi, recentemente scomparsa, “portabandiera di fragranze culturali, di cortocircuiti estetici, di passioni e ossessioni che pochi ormai coltivano e quindi sembrano essere un bagaglio d’altri tempi”, come scrive Vogue di cui era stata redattrice (con il lessico per cui poi ci si lamenta che la moda la si lascia alle disgraziate). Le due erano quasi gemelle, spesso vestite uguali, ha scritto il New York Times (continuando il gioco delle due Marie, la Visconti potrebbe essere la leggendaria ufficia-stampa Betti Soldati, mentre la Pavesi è chiaramente Sabina Gregoretti, alter ego di De Filippi).

 

Tra gli autori di Miuccia ci sono poi primari artisti e archistar che si occupano dell’altro ramo della ditta, quello dell’influenza culturale. Qui, soprattutto Germano Celant, direttore della Fondazione Prada, e Rem Koolhass edificatore dell’operazione cultural-architettonica pradesca; un po’ più giù, artisti provvisoriamente adottati, come Francesco Vezzoli, bresciano post-viscontiano. Tutti contribuiscono alla città ideale pradesca: e “dal Prado a Prada” del resto è il sottotitolo di un saggio di Graeme Evans sull’International Journal of Urban and Regional Research, pubblicazione di urbanistica in cui si teorizza il passaggio da una città “classica” a una città-evento, città-festival che conta sul museo d’arte contemporanea per darsi un tocco internazionale e cosmopolita.

 

[**Video_box_2**]Ecco dunque questa colossale Fondazione a Milano, diciannovemila metri quadrati che riassumono la visione pradesca: affidata al massimo urbanista globale, con un piano chiaro, né mammozzone di archistar (ormai canone di tutti gli stilisti appena un po’ arrivati) né archeologia industriale, roba tutta già passata di moda in cui però ancora sguazzano i concorrenti, come nelle passerelle.

 

Anche qua, probabilmente, concorrenti non all’altezza. Dunque ecco questa turris non eburnea ma aurea, tutta rivestita in (vera) foglia d’oro, sentinella e vedetta lombarda verso la Bassa, verso le pianure delle campagne napoleoniche che portarono alla Cispadana; ecco altri grandi edifici rivestiti in aluminium foam, schiumona ferrosa che pare una über-pietra pomice per piedoni callosi di giganti; e poi però anche aggraziate modeste architetture di ringhiera milanesi, e depositi e uffici e tinelli e termosifoni di ghisa: e la moda, e gli abitucci, son naturalmente banditi.

 

Nel frattempo i concorrenti, pubblici e privati, annaspano: A Milano, in sfortunata contemporanea, ecco l’apertura degli Armani Silos, con gran dispendio archivistico e vetrinistico e utilizzo di archistar decotte (Tadao Ando) ed esposizioni con musichetta da ascensore di sottofondo di intere primavere-estati e autunni-inverni, e tutti gli accessori, e il risultato finale che sembra di essere alla Rinascente di Brescia. Confronti impossibili: un cinemino all’ultimo piano con poltroncine da regista e paretine traslucide con un’estetica molto anni ottanta da Armani Hotel, con legni scuro e “greige” e il solito “Tè nel deserto” con protagonisti sfoderati by Armani; filmino autocelebrativo su sfilate che paiono da un’idea di Stefano Accorsi, un altro filmino di sciure acchittate che corrono in una Cremona deserta e piena di incomunicabilità coi vestiti metafisici della Casa. E al piano terra, ecco il bookshop con tanti ricordini targati Giorgio Armani da portare a casa.

 

Mentre nell’epicentro Prada, ecco un colossale cinema tutto di schiume d’alluminio ad apertura da traghetto, come padiglioni di Expo, e dentro rassegne su ispirazioni di ispirazioni: un filmino su Polanski e i film che lo colpirono, e poi una rassegna con tutti questi film. Del resto il cinema, oltre all’arte, è una passione di Maria-Miuccia. Ha scritto Fabiana Giacomotti su questo giornale che al funerale della Pavesi, nella camera ardente, c’erano le immagini di “Belle de jour” trasmesse “in loop”. E Buñuel, insieme a Godard e Fassbinder, è pure una passione della Maria-Miuccia. Lacrime amare di Prada von Kant? Forse Maria-Miuccia è la borghesia italiana al cineforum.

 

Però qui, in questa città-fondazione, ecco soprattutto questa mostra sui classici archeologici, sberleffo crudele a tutte le parrucchiere e vetriniste che in questi anni si sono inseguite tra Art Basel e Biennali mettendo su Facebook e Grindr le foto tra sgabelli volanti di Ai Weiwei. Una mostra definitiva e “alta” sull’arte classica nella sua riproducibilità, tra qui e Venezia, tra classici “xl” e “xs” e portatili, altra sede della Fondazione (e lì, “mostra bellissima”, ha scritto Alberto Arbasino, un critico non proprio facile al superlativo). Intanto, anche i primari concorrenti sono in affanno, e se la fondazione Vuitton a Parigi costruisce con gran dispendio un ecomostro sberluccicante di Frank Gehry, questo sì “serial classic” novecentesco che ha anche già stufato, a Milano le maestranze della capogruppo Lvmh vengono a mangiare al bar di Prada che fa più figo; qui, al bar Luce, riproduzione un po’ stucchevole di “a typical milanese bar” disegnato dal regista Wes Anderson, con biliardini che richiamano bar anni Cinquanta e soffitti tappezzati che citano la Galleria Vittorio Emanuele, dove tutto è partito. Qui, tra flipper con musiche di Mina e Rita Pavone e entusiasmi generali anche esagerati per amari Buton e Vermouth Luxardo e Biancosarti, la sciura Maria del circolo Karl Marx si affaccia talvolta a prendere una tisana, la si è vista. Sorrideva, anche. Ma non si riesce proprio a capire cosa pensa.

 

La prima puntata di “Dinastie” (dedicata ai Boeri) è stata pubblicata il 27 giugno, la seconda (Maurizio Zanella) il 4 luglio.

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