Un Dio sulla fascia
“La vita è un lungo cammino di speranze e di illusioni, di lotte contro fantasmi e di angeli che ti guidano. Poi il risveglio e ti sembra di non esserti mai allontanato. Un attimo di sgomento, ora sono qui nel mio dolce quartiere, mi guardo intorno, qualcosa è cambiato, il fiume che non c’è più, qualche ruga, molti capelli bianchi, amici che non vedo, la tristezza mi pervade, il mio pensiero corre lontano, ma che sia stato solo un lungo sogno?”. (Gianfranco Zigoni, testo tratto da “Dio Zigo pensaci tu”, Biblioteca dell’Immagine)
Nell’immaginario collettivo dell’Italia pallonara, che negli anni Settanta seguiva il dipanarsi del sacro campionato sulla popolare trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”, più che ogni altro gol, dribbling, rovesciata o meraviglia balistica resta impresso un fotogramma di quel primo febbraio 1976: Gianfranco Zigoni, l’idolo di Verona e dei butei della curva gialloblù, seduto in panchina con addosso una pelliccia e un cappello da cow-boy. Quel giorno al Bentegodi arrivava la Fiorentina di Carletto Mazzone, e Zigo, come tutti lo chiamavano, era sceso dal pullman che accompagnava la squadra allo stadio con una voglia matta di giocare. Situazione che si era verificata poche altre volte durante l’anno, perché lui, l’indomabile Zigo, il tombeur de femmes più chiacchierato di Verona, preferiva la vita fuori da quel rettangolo erboso, così stretto e soffocante per il suo incontenibile, straripante bisogno di libertà. La domenica precedente era stato fuori per squalifica, una delle tante giornate di sospensione inflittegli da quelle “giacchette nere”, gli arbitri, che il suo spirito ribelle mal sopportava tanto quanto i “noiosissimi allenamenti”. Il Verona aveva vinto comunque e così, Ferruccio Valcareggi, all’epoca allenatore della squadra scaligera, decise di riproporre quella formazione vincente, senza il suo diamante. Poco prima del calcio d’inizio, zio Uccio, come Zigo lo chiamava affettuosamente, gli si avvicinò e senza troppi giri di parole gli comunicò la scelta : “Zigo, oggi non giochi”. Un fulmine inaspettato, uno schiaffo più doloroso dei fallacci che subiva in campo ogni domenica da avversari che non avevano altre soluzioni per arginare il suo talento sconfinato. Rimase attonito Zigo quando sentì quelle parole. Non voleva crederci. Poi prese fiato e tuonò: “Come, non fai giocare il giocatore più forte del mondo? Stai scherzando, spero!”. No il Valca non stava affatto scherzando, ma nemmeno Zigo scherzò poco dopo, quando annunciò ai suoi compagni di squadra che per fargliela pagare sarebbe entrato in campo con la pelliccia che una delle sue amanti veronesi gli aveva regalato e il cappello da cow-boy che si era portato con sé da New York, quando era in tournée con la Juventus. Gli undici titolari uscirono dal tunnel degli spogliatoi, seguiti da Valcareggi, che non si era accorto dell’ultima trovata della sua ingovernabile ala sinistra. Passarono soltanto pochi secondi e sbucò Zigo, avvolto nel suo manto ferino, con aria spavalda e la sua chioma riottosa arginata da un cappello à la John Wayne. Dalla curva dell’Hellas si levò un boato. Zigo con passo solenne, ieratico, si avviò verso la panchina dove si accomodò sfrontatamente, prima di rivolgere uno sguardo di sfida a tutto lo stadio. Gli scatti erano tutti per lui, i tifosi veronesi erano in sollucchero per la loro rockstar, e Zigo era già il migliore in campo, ancor prima che la partita cominciasse. Per la prima volta nella storia del calcio, la gente sugli spalti tenne gli occhi incollati sulla panchina per tutti i novanta minuti, fregandosene di quello che stava accadendo sul rettangolo di gioco.
La cifra dell’imprevedibile genialità di Zigo, del suo estro senza eguali, del suo essere intimamente anticonformista e refrattario a ogni regola imposta contro la sua volontà, è certamente rintracciabile in quest’episodio. Un episodio che lo ha definitivamente allontanato dai comuni mortali del calcio, per lanciarlo nel pantheon delle divinità pagane della palla rotonda. Il processo di divinizzazione si era naturalmente già concretizzato sul campo, a suon di prodezze e gol spettacolari, serpentine e assist favolosi, giocate da capogiro e finte che mandavano gli avversari al manicomio e le tifoserie in visibilio. E non è un caso che a Verona, nella sua adorata Verona, dove sfoggiò al meglio le doti calcistiche che madre natura gli aveva concesso, sia per tutti ancora oggi il venerato “Dio Zigo” (“Dio Zigo pensaci tu” è anche il titolo dell’esilarante biografia, scritta a quattro mani con un altro grande poeta del calcio che il nord-est ha sfornato, Ezio Vendrame). Quella vampata di calore che irruppe in un Bentegodi infreddolito, quell’incursione da divo hollywoodiano in una Verona che sognava e sperava ogni domenica che Zigo-gol avesse la luna giusta, fu però soltanto il punto esclamativo di una vita, calcistica e no, straripante di storie, aneddoti, incontri incredibili e amori esagerati. Una vita che ha avuto come protagonisti donne bellissime e preti eroici, divi e disgraziati, principi e contadini, intellettuali e vitelloni, allenatori dittatori e compagni di squadra misericordiosi, una vita da trascinatore di folle, da romantico del pallone, da eroe e antieroe popolare, da sudamericano, per passione e follia, nato in Veneto per sbaglio o forse per dono di Dio, una vita, soprattutto, da uomo libero, eternamente insubordinato. Tutto, d’altronde, era già chiaro nell’origine del suo nome: Gianfranco, derivante dall’ebraico Yohanan, che significa “dono del signore”, e dal germanico Franc, che significa “libero”.
[**Video_box_2**]Oggi, a quasi trent’anni dall’abbandono del calcio come professione, Zigo indossa gli scarpini soltanto per partite di beneficenza, specialmente se i destinatari degli incassi sono i bambini, ma continua a scaldare i cuori dei nostalgici del suo mancino micidiale e delle sue avventure mondane in veste di narratore. Durante la stagione balneare, Zigo lo fa nella splendida Caorle, deliziando con la sua innata ironia un pubblico composito di giovani e meno giovani, nonni e bambini, pescatori e bagnini, curiosi e ammiratrici, e anche qualche turista, affascinato dai suoi modi fuori dal comune. Il Foglio lo ha incontrato proprio lì, in quel lembo di terra accarezzato dal mare Adriatico e popolato da gente pittoresca, stravagante e genuina, proprio come lui. La storia di Gianfranco Zigoni inizia nel Veneto profondo, rurale, umile, religioso, a Oderzo in provincia di Treviso, nel quartiere popolare Marconi, “nel Bronx”, come era chiamato, “dove noi bambini eravamo degli emarginati, dunque ci sembrava inevitabile che per espiare la colpa di essere figli della miseria avremmo dovuto commettere qualche ingiustizia”, e “dove da sempre è rimasto il mio cuore”. Vi era nato nel novembre del 1944, “tremavo sul lettino per i bombardamenti”, ricorda Zigo, e lì nei primi anni della sua vita ne combinava di tutti i colori assieme agli altri figli del Bronx opitergino. Spedizioni per rubare le uova alle suore e le galline ai contadini, “perché la vita era grama in periferia”, in attesa del momento più bello dell’anno per “quelli del Marconi”: l’estate e il Grest, durante il quale venivano organizzate gare di ogni disciplina. “Sulla carta – racconta Zigo – i più forti erano quelli del centro e il prete tifava per loro perché non mancavano mai alla Santa Messa. Ma purtroppo per lui alla fine vincemmo tutto noi”. La sfida più sentita era naturalmente quella calcistica. E guarda caso, un anno, in finale, si scontrarono “quelli del Marconi” e “quelli del centro”. Zigo, prima del fischio d’inizio, si rivolse ai suoi compagni ordinando: “Tutti in difesa e la palla a sempre me”. La partita, va da sé, la vinse Zigo da solo, ma venne anche espulso per le proteste veementi contro l’arbitro di quella gara, Nane Vendrame, che poi divenne un suo grande amico ma che quella volta gli annullò un gol regolare: “Da quel giorno ho iniziato a detestare gli arbitri”. Nel Bronx, nel suo amato Bronx, erano nati anche Armando Buso “il più grande pittore veneto in bianco e nero del Novecento”, e la celebre presentatrice Gabriella Farinon, il “viso d’angelo” della televisione italiana, che però, racconta Zigo, “si è sempre vergognata delle sue origini al contrario di Armando Buso”, e “purtroppo per lei, non capendo i valori del quartiere, da queste parti non è più tornata”. Da adolescente Zigo giocò nella squadra dell’oratorio, il Patronato Turroni, fino a quando non passò da quelle parti Bepi Rocco, detto il Crèp, che all’epoca reclutava giovani per la Juve. Bastarono pochi istanti per capire che quel ragazzo lì, che palleggiava scalzo davanti al portone di casa con la grazia di un ballerino, meritava di fare strada. E così decise di mandarlo al Pordenone per un provino, prima di lanciare la profezia: “Gianfranco, un giorno giocherai nella Juve”. Arrivò a Torino ad appena diciassette anni, nella Juve del suo grande idolo Omar Sivori, “ma ero triste perché avevo lasciato il quartiere e gli amici”, e in più era un grande tifoso del Toro. Eppure si verificò un episodio emblematico in quei prime tre anni alla Juve (vi ritornò dal 1966 al 1970 dopo una parentesi al Genoa), che Zigo ricorda sempre con piacere: Real Madrid-Juventus, amichevole a Torino, finisce tre a uno per gli spagnoli, ma Zigo fa una partita da urlo, e nel secondo tempo prima prende un palo clamoroso, poi segna. Il Real era quello di Di Stefano, Puskas, Gento, Santamaria, ed è proprio quest’ultimo che a fine partita si avvicina a Luis Del Sol per una curiosità: “Chi è quel ragazzo con la maglia numero 9?”, chiede il grande difensore centrale argentino. “Si chiama Zigoni”, risponde Del Sol. “Porcos ****”, replica Santamaria, “è più forte di Pelé”. Da quel momento, un po’ per gioco, un po’ perché i colpi di genio à la Pelé ce li aveva veramente, si autoproclamò il “Pelé Bianco”, anche se per Zigo i più grandi di sempre sono stati Maradona e Sivori: “Messi e Ronaldo non sono nulla rispetto a loro”. E quando gli chiedi un nome per l’Italia, Zigo non ha dubbi: “Meroni, il grande Gigi Meroni, la ‘farfalla’ del glorioso Toro, che ci ha lasciato troppo presto (morì a 24 anni travolto da un’auto, ndr)”. E che, come Zigo, era un ribelle, un creativo, un avanguardista, che per le strade di Torino si dice andasse in giro con una gallina al guinzaglio, vestito sempre con una pelliccia e gli occhiali da sole, come una vera rockstar. Ma Zigo aveva anche un altro mito, che a calcio non aveva mai giocato, ma come lui amava il popolo, e il popolo ricambiava: Ernesto Guevara de la Serna, il Che. “In quell’uomo che lottava per la povera gente e per combattere in ogni parte del mondo l’ingiustizia io mi identificavo”. E accanto al Che, anche Gesù Cristo: “Sarebbero andati d’accordo. Gesù è venuto sulla terra per dirci che gli uomini sono tutti uguali. Io, Gesù Cristo e il Che: siamo il trio perfetto”. Alla Juve, nonostante lo scudetto e i grandi ricordi come la semifinale di Coppa dei Campioni contro il Benfica di Eusebio, non fu mai totalmente a suo agio. Disciplina tattica e comportamentale, rigore, intransigenza e inflessibilità: parole che non esistevano nel vocabolario di Zigo. Figurarsi poi, quando nel 1964 arrivò il sergente di ferro Heriberto Herrera: “Era un dittatore, mi faceva sempre correre. Ora che se n’è andato spero di non doverlo incontrare in cielo quando sarà il mio turno, perché quello è capace di farmi correre anche lassù”. Pur non dimenticando la sua parentesi genovese così come i due anni giocati con la maglia del Brescia di Gigi Simoni, gli anni più entusiasmanti per la carriera di Zigo furono quelli trascorsi nelle fila della Roma (1970-1972) e del Verona (1972-1978): “Quando nell’estate del 1972 la Roma mi vendette al Verona ero triste. Ma non sapevo ancora che avrei trovato un altro paradiso”. La capitale, per Zigo, è un fiume di ricordi: la città stessa, “un’esplosione di bellezza”, l’attico sulla Cassia, dove portava le sue conquiste per dimenticare il mondo, l’incontro con Laura Antonelli, “bellissima, la conobbi in una sartoria, dove andava anche Alain Delon, mi mostrò una mutandina di raso rosso che si stava comprando e mi chiese con uno splendido sorriso se mi piaceva” – la grande amicizia con Franco Citti e il povero Alessandro Momo, le ceste di birra e i quintali di Marlboro rosse per passare il tempo nel ritiro a Fiuggi mentre il “Mago” Herrera andava a trovare di nascosto la sua Fiora Gandolfi, i pizzicotti di Franco Scaratti quando non aveva voglia di giocare, e naturalmente la mitica curva Sud. Per Verona fu lo stesso: la curva dei butei che cantava a squarciagola Zigo-gol, il rapporto di amore e odio con il presidente Garonzi, le porsche sfasciate, la Fatal Verona, gli spari ai lampioni con la sua inseparabile Colt 45, le notti infinite, il derby col Vicenza, quando dopo settanta minuti di letargo segnò un gol pazzesco e subito dopo decise di uscire dal campo, le estati a Jesolo, dove conobbe Pier Paolo Pasolini, i “ritiri spirituali” in cascina, come lui li chiamava, con il sacro uovo sodo, il sacro panino col salame e il sacro raboso, fino alla crisi mistica che lo condusse a vivere per un anno in parrocchia da don Augusto – uno dei tanti preti che aveva segnato la sua vita – e diede l’assist all’Arena di Verona per un titolo che ancora oggi riecheggia nelle strade della città scaligera, “Zigoni: dal Dom Perignon all’acqua santa”. Alvise Tommaseo Ponzetta scrive bene nella prefazione di “Dio Zigo pensaci tu”, che il grande Zigo, “pur diversissimo nel carattere, potrebbe essere paragonato, per certi versi, a Primo Carnera, il gigante buono di Sequals”, perché “a entrambi il denaro e il successo, che pur avevano meritatamente conquistato, interessavano relativamente; quello che contava erano gli amici e l’amore per la loro terra, dove alla fine sono sempre tornati”. Vorresti che il flusso dei racconti che sgorga dalla bocca di Zigo non si fermmasse mai. Poi lo guardi e non hai dubbi che quella frase che ama ripetere per descrivere il suo grande amico Ezio Vendrame vale anche per lui: troppo grande per essere di questa terra.
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