Carta delle mie brame
L’addio è lungo, anzi lunghissimo. La morte è stata annunciata da oltre un decennio, per l’esattezza fin dall’inizio di questo secolo quando negli Stati Uniti gli introiti e i guadagni dei giornali di carta hanno cominciato a rotolare sul piano inclinato. A quel punto alti lai si levarono dall’altra sponda dell’Atlantico raggiungendo la Vecchia Europa. E tutti i guru si misero a cantare: om… om… Clay Shirky esperto americano di media e comunicazione, paladino di internet, è uno dei più decisi nel recitare il solito mantra: “I giornali di carta sono finiti”. Esattamente un anno fa, nell’agosto 2014, uno dei suoi vaticini è stato pubblicato dal Post che piace a 198 mila amici su Facebook e diffonde “gli articoli, le rassegne, i blog, le foto tutto quello che arriva dal mondo della rete”, come scrive di sé.
Eppure, proprio un anno prima Jeff Bezos, il patron di Amazon, il visionario delle vendite via web, quello che ha compiuto la più grande rivoluzione commerciale dopo l’arrivo dei supermercati, aveva comperato il Washington Post. “Vuole chiudere la stampa e far uscire il giornale solo in edizione digitale”, annunciarono i geek (termine inglese che deriva dal germanico geck, sciocco, ma indica un eccentrico con una idea fissa in testa e viene utilizzato per quelli che in Italia vengono chiamati smanettoni). A smentirli è stato lo stesso Bezos con le parole e, fino a questo momento, con i fatti. Il quotidiano del Watergate era rimasto indietro, viveva della sua fama passata, il suo sito internet era una pallida copia rispetto a quello del New York Times o del Wall Street Journal, dunque doveva ringiovanirsi e aggiornarsi, ma certo non gettare le rotative nel cestino.
Nel frattempo, due tycoon hanno cominciato a disputarsi il New York Times: uno è Carlos Slim, messicano, il re dei telefoni nell’America Latina, tra gli uomini più ricchi del mondo. Dal 2009 azionista di minoranza, è diventato nel gennaio scorso il socio numero uno con una quota che sfiora il 17 per cento. Gli eredi degli Ochs-Sulzberger mantengono il controllo sulle scelte editoriali e sulle strategie, però sono a corto di liquidi. Slim giura di non volersi intromettere. Certo, la bibbia del giornalismo liberal in mano a un oligarca messicano sembra quasi uno scherzo della storia. Più consustanziale sarebbe Michael Bloomberg, tornato alla guida del suo gruppo di informazione finanziaria nato con gli schermi dei computer e poi esteso alla televisione. Il suo sogno, rimasto nel cassetto finché ha guidato New York come sindaco, è di controllare il quotidiano della Grande Mela completando così lo spettro dell’informazione con il più prestigioso dei giornali in carta stampata. Per ora aspetta e osserva con occhio rapace, perché, al contrario di Slim, un parvenu del Terzo mondo, non si accontenta del blasone, vuole lo scettro del comando.
Anche l’oracolo di Omaha alias Warren Buffett si è rimesso in pista; lui che aveva già salvato il Washington Post quando la famiglia Graham era con l’acqua alla gola, ha speso 344 milioni di dollari addirittura per 28 giornali locali. John Henry un finanziere proprietario dei Red Sox, la mitica squadra di baseball, ha acquistato il Boston Globe dal New York Times. Non ha una grande tiratura, 400 mila copie, ma, fondato nel 1872, fa pur sempre parte dell’Ivy League dei giornali, la crème de la crème si direbbe in Europa dove l’editore inglese Pearson che vuole concentrarsi nell’editoria scolastica, ha venduto il Financial Times al gruppo giapponese Nikkei (1,3 miliardi di fatturato, 4 milioni di copie stampate di vari giornali, e in più il marchio dell’indice azionario di Tokio). Non solo, intende cedere anche la metà dell’Economist in suo possesso dal 1928. Si fanno avanti per prime le grandi famiglie del capitalismo inglese ed europeo: Cadbury (grandi cioccolatai), Schroder (alta finanza), Rothschild (non hanno bisogno di presentazioni) e gli eredi Agnelli. Jacky Elkann che in Italia possiede la Stampa e controlla il Corriere della Sera, ha una quota di minoranza e siede nel consiglio di amministrazione, ma ora vuole aumentare la sua presenza e intende giocare un ruolo di primo piano. L’editoria, del resto, è la sua passione; piazzata la Fiat negli States, vorrebbe che diventasse anche la sua principale cura.
“Saranno i miliardari a salvare i giornali?”, si chiede Lawrence Delivingne della rete televisiva Cnbc. Forse li acquistano perché oggi valgono poco, ma pensano comunque che c’è un succo da estrarre. Possibile che tutti questi magnati d’antan prendano un granchio solo per farsi belli? Oddio, la miopia non manca certo nella haute finance. Ma a meno di non peccare per stolta superbia, val la pena chiedersi come mai questo rinnovato interesse per una industria considerata ormai obsoleta.
Il primo tratto in comune dei giornali contesi è che sono marchi eccellenti per reputazione, affidabilità, qualità dei contenuti e della forma. Fanno informazione di tipo tradizionale, classica se vogliamo. Poco gossip, pochi nudi, poco sesso, molta politica, economia, guerre, questioni sociali, cultura. Articoli lunghi, ben documentati, grandi paginate di inchieste, racconti e analisi sofisticate sui luoghi più impensati. In altre parole tutto quello che viene ritenuto fuori moda dai teorici della informazione web, sintetica, chiacchierata, piena di insulti, popolare e popolana, rock, anzi rap, soprattutto interattiva (per carità, mai perdere l’interattività). Dunque, i futurologi hanno letto male il volo degli uccelli? Perché l’aristocrazia del capitale si contende qualcosa che più o meno tutti gli altri considerano spazzatura? Prima di rispondere, diamo un’occhiata agli oggetti del desiderio.
Che cos’è l’Economist? Rupert Pennant-Rea direttore dal 1986 al 1993 e poi vice governatore della Banca d’Inghilterra, una volta diede una risposta degna di Oscar Wilde: “E’ un giornale da guardare il venerdì dove i lettori, in genere con redditi più alti e con menti superiori alla media, ma con tempo inferiore, possono mettere alla prova le loro opinioni contro le nostre”. Sì, c’è molta puzza sotto il naso in questa definizione, ma anche molta verità. Il settimanale venne fondato nel 1843 da un uomo d’affari in lotta contro i privilegi della chiesa d’Inghilterra e le leggi protezionistiche sul grano, una battaglia che ha segnato la stessa rivoluzione industriale. James Wilson, quacchero, figlio di un industriale tessile, era convinto che il libero commercio e il mercato avrebbero portato benessere non solo nelle isole britanniche, ma nel mondo intero.
Ancor oggi, è questa la bussola dell’Economist: allora vendeva poche migliaia di copie, adesso è a quasi un milione e mezzo, ma non ha cambiato marchio di fabbrica. Chi vi scrive può avere tutte le opinioni che vuole su qualsiasi faccenda, ma non sarà mai né protezionista né statalista. La stessa abitudine di non firmare gli articoli, non è un vezzo né soltanto il segno, come disse uno dei direttori, che conta più quel che si scrive di chi lo scrive; no, c’è dietro l’idea che il giornale è frutto di una comunità intellettuale che condivide le lenti con le quali leggere il mondo. Quella lettura, tradotta in un linguaggio elegante, piano e mai tecnico, viene posta sulla libera arena delle idee. Scrissero senza firma Luigi Einaudi e Kim Philby (corrispondente-spia naturalmente da Mosca), Walter Bagehot (che ne divenne il direttore più importante intellettualmente dal 1860 al 1877) e Herbert Henry Asquith poi primo ministro britannico (1908-1916).
L’Economist prende partito e si schiera: ha sostenuto Reagan e la Thatcher ma anche Harold Wilson e Bill Clinton. Ha approvato la guerra in Vietnam e criticato quella in Iraq. Un po’ a destra, un po’ a sinistra, non per amor di mediazione (al contrario, è sempre radicale nelle sue posizioni) né per cerchiobottismo, ma perché convinto che la ragione non stia solo da una parte. L’indipendenza di giudizio e l’autonomia nelle scelte non vengono concepite in modo ingenuo. Piuttosto sono i comportamenti obbligati di chi vuole essere autorevole, sapendo quel che dice e a chi indirizzare il messaggio. Chi compera e legge l’Economist non condivide necessariamente il suo milieu culturale. Chi lo possiede non può snaturarlo. Chissà se ne sono consapevoli i nuovi pretendenti così come lo fu la Pearson quando ne prese il controllo mantenendo un filtro tra la proprietà e la gestione con una fondazione alla quale spetta la nomina del direttore.
Il Financial Times, nato nel 1888 come foglio di informazione finanziaria, è cresciuto solo dal 1945 dopo la fusione con l’arcirivale Financial News (allora uscì con ben sei pagine). In realtà si deve proprio all’editore Pearson il salto oltre le isole britanniche, con particolare attenzione agli Stati Uniti (oggi circa la metà delle copie e più di metà degli incassi vengono dagli States, come anche per l’Economist), all’Asia, all’Europa continentale. Corrispondenti in giro per il mondo, informazione su larga scala, battaglie politiche e culturali. La globalizzazione diventa la bandiera del Ft fin dagli anni Ottanta grazie alla penna vagabonda di Martin Wolf. Allora la testata comincia a praticare, con grande disponibilità di mezzi investigativi, il giornalismo d’inchiesta per scavare nei fatti e nelle malefatte di magnati della finanza e dell’industria, “senza paura e senza favore” come recita il motto un po’ enfatico del gruppo. I bersagli sono gli uomini d’affari che non rispettano le regole, anche quando si tratta di grandi famiglie come i Guinness che comprarono azioni illegalmente durante la battaglia finanziaria per il controllo delle distillerie nel 1987. O come Robert Maxwell, il magnate della stampa laburista annegato accanto al suo yacht nelle isole Canarie nel 1991. Allora vennero fuori gli imbrogli dell’ex immigrato dalla Cecoslovacchia diventato con la Pergamon Press uno dei più battaglieri e influenti editori britannici.
La grande crisi del 2008 ha messo alla frusta i giornali economici. Non si può dire che abbiano capito quel che stava accadendo prima e meglio dei poveri economisti sbertucciati persino dalla regina Elisabetta. L’Economist è diventato una palestra di idee, analisi controcorrente, accurate ricostruzioni. Chi vuol fare la storia dei sette anni di vacche magre non ha che da attingere all’archivio del settimanale. Il Financial Times ha subito molto gli umori della City, soprattutto in tema di euro (sul quale resta scettico). Ma su un punto non ha mai ceduto, con testardaggine britannica: la crisi non è colpa della globalizzazione. Il fatto di finire in mani giapponesi lo dimostra al di là di tutte le assicurazioni di prammatica su identità e indipendenza. Se la stampa nipponica è abituata a chiudere un occhio sui Godzilla dell’industria, come notava malizioso il Wall Street Journal di Rupert Murdoch, il direttore del FT Lionel Barber giura che il suo giornale non farà sconti, finché lui resterà al timone preso in mano dieci anni fa (un avvicendamento, dunque, è nelle cose).
E gli europei? Seguono, come sempre. Il più attivo è il colosso tedesco Springer che aveva aperto un negoziato con la Pearson. Certo, il prezzo del Financial Times è altissimo: 1,3 miliardi di dollari. Si pensi che Bezos ha acquistato il Washington Post per soli 250 milioni. La circolazione è indubbiamente più ampia (oltre due milioni di copie per il quotidiano britannico), ma molti sostengono che sia stato strapagato. Nikkei voleva uscire dall’arcipelago del Sol Levante.
[**Video_box_2**]Springer è il più grande editore europeo per diffusione (possiede tra l’altro la Bild e Die Welt), lo scorso hanno aveva già provato a comperare Forbes e gli è andata male. E’ appena fallito anche il tentativo di acquisire ProSieben Sat.1 il maggiore gruppo televisivo privato in Germania. Comunque, si rifarà c’è da scommetterlo. Con Bertelsmann è il gruppo più solido nell’Europa continentale ed entrambi stanno da tempo muovendosi ben oltre il Reno e l’Elba. Meno forti sembrano i giornali francesi. Le Monde, l’unico con un brand e un respiro internazionale è stato salvato da tre finanzieri, Pierre Bergé (ex compagno di Yves Saint Laurent), Xavier Niel e Mathieu Pigasse della banca Lazard, lo stesso che fa da consigliere al governo di Atene. Ha perso smalto se non prestigio, e prima di espandersi dovrà ancora consolidarsi. In Italia l’unico marchio davvero riconosciuto all’estero è il Corriere della Sera. Si dice che Elkann vorrebbe farne una bandiera globale, ma resta con la testa e con i piedi al di qua delle Alpi.
Nella stessa Italia comincia a farsi strada il modello misto: i big del web vogliono la carta i big della carta il web. Conta la diffusione sul mercato, non siamo ai tempi del vecchio Giovanni Agnelli al quale non interessava quanto vendeva la Stampa, l’importante è che ogni mattina stesse sulla scrivania del capo del governo. Ma è vero che il giornalismo di qualità agisce soprattutto sulla classe dirigente. C’è una élite che conta e decide, l’importante è interagire con le sue opinioni, le sue scelte, le sue visioni del mondo. E internet non ha questa funzione.
La televisione resta il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza. Se non sei sullo schermo non sei nessuno e viceversa. Siamo sicuri che il web la soppianterà in futuro? Riuscirà a titillare la vanità, arma letale della tv? Finora la rete s’è allargata a macchia d’olio macinando ogni cosa in modo indifferenziato. I suoi fan politici ritengono che sia il marchio della democrazia diffusa e diretta. I suoi nuovi padroni vogliono che raggiunga masse sempre più vaste di utenti-consumatori-acquirenti. Adesso è un caffè globale dove ci si scambia di tutto, dai pettegolezzi al sesso, ma dove non si costruisce nulla. Strumento formidabile per diffondere idee e messaggi anche subliminali, ma non la palestra dove si formano le idee e si confezionano i messaggi. Quel luogo resta il giornale di qualità, pubblicato su carta, trasmesso via web e, magari, con una interfaccia televisiva diretta o mediata. Naturalmente, con tutte le differenze del caso, perché il mezzo non è neutro e plasma il messaggio, come sostengono i maestri della massmediologia. Tuttavia, oggi è così. Del doman non v’è certezza.
Il Foglio sportivo - in corpore sano