La peggio Africa
Una donna si avvicina con discrezione a Roberto Berardi e gli porge la mano, mentre lui è seduto al tavolino del bar. “Guardi, volevo solo salutarla. Non la conoscevo di persona ma ci tenevo a dirle che ho sofferto tanto per lei in questi mesi”. E’ mattina presto ma l’umidità appiccicosa già avvolge tutto, non dà tregua e arriva fin sotto il porticato in corso della Repubblica, la strada più chic di Latina, quella del passeggio. Lui, il sopravvissuto alla prigionia africana, libero da meno di un mese, è un bell’uomo sulla cinquantina, alto e magro. I due anni e mezzo trascorsi in isolamento, costretto in una cella di un metro per tre nella minuscola Guinea Equatoriale sono stampati sulla pelle di Berardi. Ha il volto scavato, gli zigomi un po’ sporgenti e la pelle del volto, bruciata dal sole, mette ancora più in risalto i suoi occhi accesi. Sulle braccia, i segni delle torture che ha patito durante la detenzione si insinuano tra le linee di qualche tatuaggio. Riprende il filo del racconto e sporgendosi in avanti col busto, con gli occhi neri stretti in una smorfia rabbiosa, quasi a voler incatenare con lo sguardo l’interlocutore, dice che la sua storia “è quella del fallimento della diplomazia italiana e dell’assenza di istituzioni forti in questo paese senza valori, che non crede più in niente”.
Berardi è un imprenditore edile che circa vent’anni fa decise di “cogliere un’opportunità” e di lasciare l’agro pontino per fare affari in Africa. Costa d’Avorio e Camerun furono i suoi primi quartier generali. Poi, appunto, la Guinea Equatoriale, un rettangolino di terra incuneato nell’Africa francofona occidentale, nel Golfo di Guinea. In fondo è proprio da lì, vent’anni dopo il suo arrivo, che inizia davvero la storia di Berardi in Africa. “Prima della prigionia facevo tanti soldi, avevo tante soddisfazioni, in Costa d’Avorio incontrai una donna meravigliosa, Chantal. Mi separai da mia moglie e divenne la mia compagna. Certo, con la mia prima moglie resta comunque un amore profondissimo. Beh, ma in fondo, tutta la mia storia è fatta di donne, amore, di sentimenti”, ricorda Berardi con un sorriso a metà tra l’innocenza e la malizia. Da imprenditore occidentale trapiantato in Africa, frequentava i quartieri più agiati, i circoli più altolocati e dava del tu agli uomini del potere, strutturalmente corrotto, di quelle parti. “Eh, ma noi italiani ci adeguiamo in fretta”, scherza. “Per rendere l’idea, funzionava che di solito io li convocavo e loro si presentavano. E stiamo parlando di ministri, direttori di banche importanti. Avevo a che fare con persone influenti”. Ma Berardi, da romantico pioniere, non sarebbe rimasto in Africa se non fosse stato contagiato da un’attrazione profonda per quelle terre: “Fu un impatto stupendo. Bisogna sfatare l’idea che sono dei pezzenti. Anzi, portano la camicia stretta dove stanno. Sono i dittatori, sono loro che distruggono tutto in quelle terre meravigliose. Sono loro che distruggono società effervescenti. Quella è la terra dei grandi spazi mentali”. Fa una pausa e si guarda intorno. “In Italia è diverso, qui è un po’ come un carcere sociale, no? Quando arrivai lì, invece, l’impressione fu quella di avere davanti la terra dei pionieri, dove poter davvero ‘realizzare’ e rendermi partecipe di qualcosa di grande. In fondo, vedi, è questo il mal d’Africa”. Dalla pianura pontina della bonifica, dove le paludi malariche furono ridisegnate dall’uomo in terre produttive, la storia di Berardi si proietta in luoghi distanti ma per qualche verso simili, se non altro perché in entrambi l’uomo-pioniere ha rimodellato spazi selvaggi e primitivi in cerca della ricchezza, certo, ma anche di un posto nel mondo dove stare e dare un senso alla propria esistenza partendo da zero, costruendo, fabbricando, scoprendo. “Ma non ero mica un missionario. Andai lì per fare soldi”, puntualizza Berardi mentre si prepara a dischiudere un nuovo capitolo della sua storia.
“Nel 2006 lavoravo in Camerun. Un giorno ricevetti la visita di una delegazione della Guinea Equatoriale. Avevano visto come lavoravo e mi chiesero se fossi disponibile a realizzare infrastrutture anche nel loro paese. La proposta era di creare una multinazionale africana di lavori pubblici, la prima del genere nel continente. Per me fu come portare un bambino in un negozio di giocattoli”. Un’unica condizione: il figlio del presidente avrebbe fatto parte del consiglio d’amministrazione con una quota maggioritaria del 60 per cento. “Accettai subito”.
Dalla sua indipendenza nel 1969 a oggi, la storia della Guinea Equatoriale, meno di un milione di abitanti su una superficie di 28 mila chilometri quadrati, è scandita da colpi di stato, repressioni violente e diseguaglianze sociali. Il potere è spartito tra i componenti di un’unica famiglia, guidata dal patriarca Teodoro Obiang Nguema che mantiene la presidenza ininterrottamente dal 3 agosto 1979, giorno in cui spodestò con la forza lo zio, Francisco Macias Nguema. Teodoro ha investito tutto nei ricchi giacimenti di idrocarburi di cui godono prevalentemente lui e la sua cerchia ristretta, mentre il 60 per cento della popolazione vive con un dollaro al giorno. La violazione dei diritti umani, la repressione di qualunque forma di opposizione politica, anche con il ricorso sistematico all’assassinio, sono la consuetudine. Il paese è tenuto insieme dall’autoritarismo di un boss in giacca, cravatta e occhiali da sole, inserito da Forbes all’ottavo posto nella classifica dei dittatori più ricchi al mondo, con un patrimonio che si aggira intorno ai 600 milioni di dollari. Il figlio, Teodorin Obiang Nguema Mangue, ricopre la carica di vicepresidente. Più che per le sue doti di statista, Teodorin è noto per la sua sfrenata abilità nel dissipare il suo denaro, investito in una collezione di auto extra-lusso (per un totale di 10 milioni di dollari), in una villa imperiale a Malibù (valore, 30 milioni di dollari) e in un jet privato da 38 milioni di dollari. La punta di diamante delle collezioni sfacciatamente nauseanti del figlio del boss guineiano è senza dubbio la sua impareggiabile collezione di oggetti appartenuti a Michael Jackson, valutata circa 2 milioni di dollari. Negli anni in cui entra in affari con Berardi, Teodorin è anche il fidanzato di Janet Jackson, la sorella del cantante. “Ma è conosciuto anche per il suo carattere burbero. Quando era nervoso, aggrediva chiunque lo contraddicesse, anche fisicamente”.
All’inizio il rapporto tra i due procede senza problemi. “Certo, ero cosciente che fosse un dittatore. Se non sei appoggiato da qualcuno in alto in questi paesi non ci entri nemmeno, ci sono delle regole da rispettare. Si fidava di me, mi lasciava entrare nella sua villa anche quando lui non c’era”. Gli affari vanno bene con utili milionari. Poi, l’evento che cambia la vita di Berardi. Scopre casualmente che il conto aziendale è stato congelato dall’Interpol e che anche la Cia e la polizia francese stanno indagando su di lui e Teodorin per riciclaggio di denaro. Scopre anche che il figlio del dittatore ha aperto dei conti correnti paralleli intestati a lui, ma a firma di Teodorin, sui quali ha spostato quantità enormi di denaro (tra queste transazioni, anche un milione di dollari servito per acquistare un guanto bianco ricoperto di diamanti e indossato da Michael Jackson nel suo Bad Tour di fine anni Ottanta). A Berardi crolla tutto addosso. Collabora spontaneamente con gli inquirenti per chiarire che lui con quei soldi e quelle operazioni non ha nulla a che fare. Il procuratore americano, in breve tempo, decide di spostare il nome dell’imprenditore dall’elenco dei sospettati a quello delle vittime e dei testimoni. “Fu la mia condanna a morte”, dice Berardi, “in quel modo diventavo un problema grosso per Teodorin. Collaborando con gli inquirenti mettevo a repentaglio lui ma soprattutto l’intero sistema di potere del paese che in Guinea si basa sull’acquiescenza, sull’omertà di tutti gli uomini forti del potere politico ed economico”. Seguono giornate concitate. “Teodorin aveva scoperto che sapevo dei suoi affari, che voleva fregarmi. Nel consiglio d’amministrazione successivo mi minacciò davanti a tutti. ‘Ti faccio arrestare!’, urlò mentre stava per mettermi le mani addosso. Le sue guardie del corpo fecero irruzione nella sala ma poi Teodorin si calmò, non poteva uccidere un occidentale, davanti a testimoni all’interno del palazzo presidenziale”. Giusto il tempo di mettere in salvo la famiglia e di farla partire per l’Italia e Berardi è già nei sotterranei di un commissariato, torturato da agenti che gli chiedevano cosa sapesse dei soldi di Teodorin. Da un fermo di 72 ore, il massimo previsto dalla legge, si arriva a 40 giorni, al termine dei quali Berardi è trasferito al carcere di Bata, dopo un processo farsa a porte chiuse che non ha evidenziato alcuna sua responsabilità, rinchiuso in una cella d’isolamento, picchiato periodicamente e messo a pane e acqua. Per quasi mille giorni.
“Ciao papà!”. Un bambino corre incontro a Berardi, che nel frattempo ha appena salutato un altro paio di passanti davanti al bar di corso della Repubblica. Il piccolo tiene in mano a fatica un drone giocattolo. Insieme a lui si presentano anche la compagna, Chantal, e una ragazza poco più che ventenne, bella ed elegante. E’ Esperanza, “una Anita Garibaldi”, come la definisce Berardi. Lui le saluta e le invita ad accomodarsi al tavolo. Entrambe, insieme a sua madre e all’ex moglie, erano presenti all’aeroporto di Roma per accogliere il ritorno del pioniere, per cui tanto si erano date da fare. Le foto di quel giorno mostrano un quadro beato di un uomo circondato dai suoi angeli custodi. “E’ stata la battaglia delle donne”, ripete sorridente, prima di continuare il racconto.
[**Video_box_2**]“Insieme a me c’erano tantissime persone rinchiuse in prigione. La notte sentivo le loro urla mentre erano torturavate”, racconta Berardi. Le donne, ancora loro, “sono state loro a salvarmi. Esperanza, questa ragazza magnifica, ha rischiato la vita per aiutarmi. Anche lei era chiusa in quelle prigioni per altri motivi. Una volta liberata si è battuta per far conoscere la mia storia, per tenere i contatti con la mia famiglia in Italia. Mi procurò cibo, soldi per corrompere le guardie e permettermi di sopravvivere. E soprattutto un cellulare. Perché vedi – incalza – in tutta questa vicenda il punto non sono le torture che mi hanno inflitto. E’ l’abbandono delle istituzioni, del Vaticano, la connivenza del nostro paese con un regime scellerato che opprime il suo popolo”. Cerca un senso alle ferite che ancora porta sul suo corpo magro. “La Farnesina si è mossa male e in ritardo. Adesso ci sono altri cinque italiani rinchiusi in carcere in Guinea. Ma il nostro è un paese debole, che difende la cleptocrazia”. E poi c’è il Vaticano. Il nunzio apostolico di Yaoundé, mons. Piero Pioppo (già prelato dello Ior, ndr), non ha intercesso con nessuno perché voleva salvaguardare gli interessi che la Chiesa ha in gioco con il regime di Obiang, soprattutto soldi, tanti soldi”. “Un attivo disinteresse alla vicenda”, l’ha definita al Foglio il presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, che ha seguito da vicino l’intera vicenda, parlando del ruolo di mons. Pioppo. “Il Papa in realtà ha provato a farsi sentire col regime. Ma gli interessi in gioco erano più grandi di lui”, dice Berardi. A sollevare finalmente il suo caso, a sollecitare le istituzioni, sono stati invece quelli di CasaPound, con una manifestazione di protesta organizzata dai figli dell’imprenditore davanti l’ambasciata della Guinea Equatoriale a Roma. “Non sono fascista. Anzi, mi reputo profondamente socialista. Ma se gli unici ad avermi aiutato sono stati questi ragazzi, non posso che essergli grato”.
Al suo popolo in fermento, Obiang ha spacciato la scarcerazione dell’ex socio del figlio come dimostrazione che il patriarca-dittatore, all’occorrenza, sa anche essere magnanimo. Ma in Guinea Equatoriale la popolazione comincia a stancarsi della profonda ingiustizia del regime, della povertà, dei lussuosi capricci del dittatore. “In carcere gli altri detenuti mi hanno protetto, sono diventato un simbolo per loro. Ora che sono un uomo libero, un uomo occidentale che ha conosciuto a fondo la loro realtà, mi hanno investito della carica di portavoce del movimento dell’opposizione a Obiang. E’ quello che voglio fare adesso. Sto scrivendo un libro che racconterà tutto. Quelle persone sono come una bottiglia di Champagne pronta a esplodere e a far saltare il tappo del regime”. Alla ricerca di un senso alla sua ‘campagna d’Africa’, Berardi se ne sta lì, seduto a quel tavolino, sorridente e sereno, come un patriarca in cerca di affetto, circondato dalla sua nuova, strana e misteriosa famiglia. E riguardandoli un’ultima volta appare chiaro: in fondo a vincere sono state proprio loro, le donne del pioniere.
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