L'autunno del re
Tutti quelli che hanno pianto per la morte di Mufasa” è il nome di un popolarissimo gruppo che spopola su Facebook italiano. Ma anche su Answers c’è un gruppo “Avevate pianto quando è morto Mufasa ne ’Il re leone’?”. Insomma, come ci sono state una generazione che ha combattuto nelle trincee della Grande guerra, una generazione che è cresciuta con la Grande depressione ed è finita nella Seconda guerra mondiale, una generazione che ha fatto il Sessantotto, così c’è anche una generazione che è cresciuta commuovendosi per la sorte del Re Leone, che è poi anche quella arrivata alla maturità assieme alle reti sociali. C’è da stupirsi se poi sono gli stessi che si sono scatenati per la morte di quel nuovo Mufasa corrispondente al nome di Cecil, il leone dalla criniera nera dello Zimbabwe?
Gli ingredienti ci sono tutti, compresa la scansione a puntate da feuilleton. Prima il 13enne leone dominante, ucciso a tradimento. Poi i figli a rischio di soppressione da parte di un fosco rivale. Dopo ancora la notizia che il fratello Jericho si è invece preso amorevolmente cura degli orfani. Ahimè, viene comunicato che anche Jericho è stato assassinato. Contrordine: Jericho è vivo, è un altro leone che è stato ucciso. C’è pure uno Scar: quel dentista, Walter Palmer, che ha avuto il coraggio di farsi fotografare accanto al cadavere di Cecil, prima di scuoiarlo e tagliargli la testa. Insomma: Scar e Isis allo stesso tempo. Né mancano le iene: il cacciatore professionale Theo Bronkhorst e l’agricoltore Honesto Ndlovu, che in cambio di 55.000 dollari con l’inganno di una preda attaccata a un veicolo hanno attratto il leone fuori dal parco nazionale di Hwange nelle terre dello stesso Ndlovu, dove ha potuto essere ucciso in teoria legalmente. Ferito da Palmer con una balestra, dopo 40 ore di agonia è stato finito con una pistola. C’è da stupirsi se la petizione “Giustizia per Cecil”, “il leone più bello della regione”, su Change.org abbia raggiunto di botto il milione di firme? Con la scoperta del trucco e per la pressione internazionale il governo dello Zimbabwe si è mosso, ha incriminato i due complici, e chiede ora l’estradizione di Palmer. “E’ un crimine atroce”, dice il ministro del Turismo Walter Mzembi. Anche il Servizio di pesca e vita selvatica americano ha aperto un’investigazione: tecnicamente la legge degli Stati Uniti non è competente per un’uccisione illegale fatta nello Zimbabwe, ma le autorità americane dicono di condividere l’interesse nella protezione delle specie in pericolo. E poi c’è il dubbio che la morte del leone sia collegata a una rete illegale di traffico di animali.
Proprietario di un consultorio in Minnesota all’insegna dello slogan “un grande sorriso dice tutto” (ora letteralmente sepolto dietro a una valanga di leoni peluche e cartelli di protesta), il 55enne Palmer ha cercato di giustificarsi con una lettera “ai miei stimati pazienti”. “Ho contattato varie guide professionali e ho ottenuto tutti i permessi necessari”, ha spiegato”. “A mia conoscenza, tutto in questo viaggio è stato legale e gestito in modo appropriato. Non avevo idea che il leone da me cacciato fosse conosciuto, il favorito del luogo, che avesse un collare e che fosse parte di uno studio, fino alla fine della caccia”. Era quel collare con Gps attraverso il quale Cecil era monitorato dall’Università di Oxford. “Mi sono basato sull’esperienza delle mie guide professionali locali per assicurarmi che fosse una caccia legale”.
Insomma, Scar scarica sulle iene: ma a sua volta Bronkhorst, che rischia 15 anni di carcere, su consiglio del suo avvocato aveva già girato alla polizia la testa tagliata, conservata per trasformarla in trofeo. “Non sono stato contattato dalle autorità nello Zimbabwe o negli Stati Uniti per questa situazione, ma sono pronto a collaborare di fronte a qualunque richiesta”. Attenzione al vocabolario: collaborare, non finire in galera. Comunque, “una volta ancora, deploro molto che il mio esercizio di un’attività che adoro e la pratica responsabile e legale abbiano portato all’abbattimento di questo leone. Non era mai stata mia intenzione”. “Gli assassini hanno cercato di distruggere l’etichetta Gps che Cecil aveva, segnale che quello che stavano facendo era qualcosa di immorale”, risponde la petizione. “Negli ultimi decenni abbiamo perso più dell’80-90 per cento della popolazione di leoni a livello mondiale in seguito alla perdita del loro habitat, a malattie, ai cacciatori di frodo di trofei, e al commercio illegale di pelli esotiche. I leoni assassinati finiscono per la maggior parte come trofei negli Stati Uniti”. Primo effetto della mobilitazione: Delta, United e American Airlines hanno annunciato che non imbarcheranno più a bordo trofei di caccia grossa. Psicodramma nazionale, come per espiare l’immagine di Cecil è stata poi proiettata sulla facciata sud dell’Empire State Building, assieme ad altri animali in pericolo. Solo che c’era dietro anche il business: la promozione di un nuovo documentario di Discovery Channel, che andrà in onda a dicembre. Conservazionismo a parte, d’altronde, Cecil era una risorsa turistica preziosa anche nello Zimbabwe. Il fanatismo animalista può pure suscitare antipatia, ma in effetti sparare a una bestia che attraeva frotte di visitatori non sotto questo punto di vista tanto diverso che prendere a rasoiate la “Gioconda” o a martellate la “Pietà” di Michelangelo.
Lo stesso popolo della rete che si è sdegnato con il dentista ammazza-leoni, però, se l’è presa anche con Mia Farrow, che per manifestare a sua volta la propria disapprovazione aveva pubblicato l’indirizzo di Palmer. Anche nell’epoca di Internet gli Stati Uniti non sono l’Italia, e nel paese che ha creato il concetto moderno di privacy lo sputtanamento on line di una persona per cui vige comunque la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva ha suscitato ira e dissenso. “Stiamo sperando che questo tizio muoia? In prigione sì, ma perché vogliamo mandargli la folla a casa?”, è stata una delle risposte al tweet dell’attrice. E ancora: “Odio ciò che ha fatto, ma pubblicare il suo indirizzo non è il modo giusto di fare”. La Farrow ha dunque subito rimosso il post incriminato da Twitter; però l’ha lasciato su Facebook.
Insomma: c’è un minimo di ambiguità, nella vicenda. Secondo la Bbc, la stessa opinione pubblica dello Zimbabwe è perplessa per il modo in cui il caso Cecil ha riportato all’attenzione mondiale un paese in cui l’interminabile regime autoritario di Robert Mugabe e il disastro economico che ha provocato non fanno ormai da tempo più notizia. Non è mancato addirittura chi ha brontolato per il fatto che la bestia si chiamasse come Cecil Rhodes: il grande ideologo e stratega del colonialismo inglese, cui la Rhodesia del nord e la Rhodesia del sud erano state intitolate prima che gli indipendentisti le ribattezzassero Zambia e Zimbabwe. “Come se il leone più famoso dell’Eritrea venisse chiamato Benito”, è stato un commento. Ma non è in fondo la stessa ambiguità del leone? Un animale che, nelle sue condizioni normali, se uno qualunque dei disperati per Mufasa o Cecil andasse ad accarezzarlo, probabilmente non perderebbe l’occasione di farselo finire dritto nella pancia.
Trentacinquemila sono i leoni selvatici che ancora vivono in Africa, contro gli almeno 200.000 di un secolo fa. Una volta ve n’erano in tutti i continenti, eccetto l’Australia. E ancora in tempi storici si trovavano attorno al Mediterraneo, come ci ricordano la pelle di leone di cui si vestiva in Grecia Ercole e il cranio di leone con in bocca un favo di api ritrovato in Palestina da Sansone secondo il Libro dei Giudici. Ma in America furono sterminati dai primi proto-amerindi arrivati attraverso lo Stretto di Bering, in Italia e nei Balcani non oltrepassarono il Secondo secolo, nel Caucaso scomparvero prima dell’anno Mille, in Palestina si estinsero al tempo delle Crociate, gli ultimi leoni di nord Africa e medio oriente furono uccisi all’inizio del XX secolo, l’ultimo dell’Iran nel 1942, e al di fuori dell’Africa di selvatici ormai sopravvivono solo i 411 (dato del 2010) della Foresta di Gir, nello stato indiano del Gujarat. Quasi un terzo di questi leoni, attorno ai 12.000, vivono nell’Africa australe. Ma gli stessi governi che li proteggono e ricavano soldi dal turismo non disdegnano di fare altri soldi con la vendita dei permessi per cacciare ai ricconi: 665 “trofei” di leone sono esportati dall’Africa ogni anno, e 49 nel 2013 dallo Zimbabwe, che vi destina il 17 per cento della propria superficie e ne ricava lo 0,29 per cento del pil.
Zimbabwe a parte, il leone fa parte dell’immagine dell’Africa profonda, anche se in realtà la sua presenza è significativa solo in sette paesi: lo stesso Zimbabwe, appunto; il Sudafrica; il Mozambico; il Botswana; la Tanzania; il Kenya; l’Etiopia. “Leoni di Teranga” sono chiamati i giocatori della nazionale di calcio del Senegal, “Leoni indomabili” quelli del Camerun, “Vecchio leone” è il presidente del Niger Mahmadou Issoufou: tutti paesi dove però la presenza di leoni veri è invece oggi trascurabile. D’altronde anche lo Sri Lanka ha come emblema il leone che secondo la leggenda avrebbe procreato i singalesi accoppiandosi con una principessa, “leoni” si sono autodefiniti i nazionalisti singalesi in contrapposizione alle “tigri” tamil nella guerra civile, e la stessa radice “sing-” significa leone nelle lingue del subcontinente indiano. Eppure, nello Sri Lanka di leoni non ce ne sono mai stati. E neanche di leoni ce ne sono mai stati nel territorio di Singapore, il cui nome significa “Città del leone”.
[**Video_box_2**]In Africa le aree di convivenza con gli esseri umani sono teatro di tensioni continue: in realtà, solo alcuni leoni anziani ormai incapaci di prendere altre prede sono antropofagi; ma comunque già basterebbero gli attacchi al bestiame a rendere i felini non propriamente popolari. “Mbube”, la famosa canzone sudafricana che Pete Seeger ascoltandola da un disco rese foneticamente con quel “Wimoweh” che fu una hit mondiale, è sì dedicata a un leone: ma da parte di un cacciatore, che lo cerca per farne bistecche. Fatto significativo: nel folklore africano in realtà il re degli animali non è il leone, ma l’elefante. Il leone è invece un simbolo positivo in Europa, dove come si è detto di selvatici non ce ne sono più da quasi duemila anni. Curiosamente questa popolarità deriva dal Cristianesimo, che malgrado l’immagine dei martiri dati in pasto ai leoni nel Colosseo ha fatto della belva una prefigurazione di Cristo: dal leone alato dell’evangelista san Marco al leone Aslan delle “Cronache di Narnia”. Anch’esso foriero di copiosi pianti cinematografici, sia pure poi attenutati dalla resurrezione. Il leone era stato d’altronde anche nell’ebraismo l’emblema di quella tribù di Giuda cui Gesù apparteneva, sebbene poi nell’Antico Testamento ci siano anche gli spaventosi leoni di Ezechiele e del Libro dei Salmi.
La vicenda è stata ricostruita da Michel Pastoreau: il francese che è considerato il massimo storico in materia di simbologie e colori. Secondo lui, rispetto all’aquila dell’antica Roma e all’orso della tradizione germanica il leone diventa il “re degli animali” attorno al XII secolo, e a tale proposito è altamente simbolico il conflitto che nella Germania settentrionale tra 1140 e 1170 contrappone il duca di Sassonia Enrico il Leone al margravio di Brandeburgo Alberto l’Orso. Vince il Leone, d’altronde quasi coevo di Riccardo Cuor di Leone. E “d’ora in poi nessun rappresentante dinastico tedesco verrà più chiamato l’orso”. Anzi, dal XII secolo nelle opere letterarie il cavaliere cristiano ha sempre uno scudo con un leone, mentre pagani e saraceni portano un drago o un leopardo. Pastoreau ipotizza che questo “improvviso irrompere di leoni e di cavalieri con le insegne del leone” più che a un’influenza diretta delle crociate sia dovuto a un massiccio flusso di oggetti artistici importanti dall’oriente, su cui il leone era rappresentato di frequente.
Attenzione però a quel leopardo pagano! In realtà, ci spiega Pastoreau, “da un punto di vista araldico, il leopardo non è nient’altro che un leone raffigurato con la testa sempre di fronte e il corpo generalmente orizzontale e di profilo. E’ la rappresentazione di fronte a offrire un senso peggiorativo: per l’uomo medievale, infatti, ogni animale visto di fronte è un animale pericoloso”. Insomma, il leopardo araldico non è che il dottor Hyde malvagio e feroce che c’è in ogni leone, in modo da lasciare la denominazione alla componente Jeckyll di coraggio e nobiltà. C’è però nell’araldica medievale un altro sottinteso ideologico, che risale al momento in cui il partito ghibellino cerca di rivendicare l’aquila imperiale, e i guelfi vi contrappongono allora il leone. Ancora oggi, guardare l’animale che c’è nell’emblema di un comune o di una regione può farci capire subito qual era la fazione in cui quella comunità era schierata ai tempi di Dante. Il leone che Ottone IV di Borgogna sostituì sul suo scudo all’aquila quando si ribellò all’Impero è oggi non solo quello della Franca Contea ma anche della Peugeot, la cui sede si trova appunto in quella regione. L’aquila imperiale sarebbe stata invece rivendicata da una pletora di aspiranti eredi di Roma: dalla Russia zarista a Napoleone passando per l’Austria-Ungheria e il Secondo Reich, fino all’Italia fascista e alla Germania nazista. In conclusione, forse il leone è meglio. Forse.
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