Un romanzo sui romanzi
Questa è la storia di un tempo che, almeno in America, non esiste più. Un tempo in cui gli uomini erano uomini, le donne erano donne e i libri erano libri. Con le coste incollate o cucite, magari a mano. Un tempo in cui quei libri avevano un profumo, il profumo della carta. Un tempo in cui i lettori non erano mai tantissimi, no. E grazie a dio non era richiesto che lo fossero, una massa. La rarità, la singolarità, la diversità facevano prima il valore e poi il prezzo di un libro. E prima ancora di una storia. E quei lettori erano fedeli e impegnati e coinvolti, fanatici del culto della stampa come forse ne esistono ancora nascosti in qualche sotterraneo. In una parola, devoti. Più o meno è questo che dice Jonathan Galassi all’inizio del suo primo romanzo, “Muse” (“La musa”, in italiano per Guanda). Jonathan Galassi – classe 1949, Seattle – è un nome che negli Stati Uniti è sinonimo stesso di editoria, presidente di Farrar, Straus & Giroux, una delle poche major americane del libro che hanno resistito all’avvento del digitale, poeta e traduttore, tra l’altro, di Leopardi e Montale, scopritore e domatore, contrattualmente parlando, di nomi come Jonathan Franzen, Michel Cunningham, Tom Wolfe, Scott Turow.
Questo signore, in fondo ancora relativamente giovane, quando si guarda intorno vede meravigliose e anche esilaranti rovine, che però fanno da pilastri all’editoria del XXI secolo: roba che riconosce, di cui sa dominare le fluttuazioni, ma con cui non sente alcuna empatia. Naturalmente ripetere tutto questo ai suoi fedelissimi e ai familiari e farlo intendere agli intervistatori più accorti non era sufficiente. Ecco perché si è impegnato a raccontare, in un roman à clé sull’editoria americana e dunque globale, la perdita dell’oggetto d’amore “libro” e soprattutto del soggetto d’amore “autore”. Paul Dukach, il protagonista de “La musa”, è uno dei giovani editor di Homer Stern, un sopravvissuto dell’editoria “tradizionale”, uno degli ultimi “editori gentleman” indipendenti (“a profession for gentlemen” veniva considerata l’editoria negli anni Cinquanta. I gentleman in questione erano, negli Usa, a partire dagli anni Venti del Novecento, Max Schuster della Simon & Schuster o Harold K. Guinzburg della Viking Press, tanto per fare un esempio. O Alfred Knopf. Chi aveva un autentico amore per i libri e aspirava a diventare un giorno un vero editore aveva in America, in quegli anni, un solo idolo: Alfred Knopf. E Galassi negli Usa è naturalmente pubblicato dalla casa editrice Knopf, sia come poeta che per “La musa”).
Paul Dukach, nel romanzo, fa ancora in tempo a vivere la coda di quella stagione meravigliosa, in cui l’editoria è un clan di privilegiati che sanno di esserlo, un mondo di happy few in vena di sganciare anticipi, che si ubriacano e straparlano a tarda sera sopra un contratto appena strappato a un autore potenziale rivelazione, ci fanno festini non dissimili da quelli che si farebbero con la conquista da una botta e via e si ritrovano la mattina dopo a gestire la ripulsa di fronte a una firma che vorrebbero non aver mai messo, ben consci, nel doposbronza, che quell’autore sarà un fiasco totale. Migliaia di editori da tutto il mondo piovono a Francoforte ogni ottobre per comprare e vendere autori, racconta Glassi nel romanzo, sì, ma soprattutto per mettersi in tasca una bella percentuale sui contratti, editori esperti in giochetti di prestigio come far scivolare abstract o pezzi di manoscritto nelle mani di editori di ogni paese, sollecitarli a leggerli in notturna e a presentare offerte preventive, gonfiate dalla tensione e dall’atmosfera carnascialesca della Fiera. Francoforte carnivora, rapace, appena mascherata da una raffinata patina europea: “La musa” descrive in modo esilarante e decadente uno degli ultimi grandi appuntamenti del mercato culturale, come solo chi lo conosce da quasi mezzo secolo può permettersi.
Galassi è stato uno dei primi a pensarci, il suo romanzo uno degli ultimi sui generis ad arrivare in Italia, ma la verità è questa: si moltiplicano le migliori menti di generazioni editoriali che in quel tempo, quando i libri erano libri e aprirli per sentire il profumo della carta era il preliminare più erotico alla lettura, c’erano. Erano lì a lottare per gente che non valeva niente agli occhi del mondo e che chiamavano scrittori, erano lì a fondare case editrici: luoghi dove si badava alla qualità più che a ogni altra cosa, dove si ospitavano i propri autori, in mancanza di meglio, a dormire negli uffici, dove a qualcuno di loro, sempre in mancanza di meglio, si offriva persino uno stipendio, per farli arrivare al secondo romanzo quando il primo non era nemmeno stato tirato. E oggi quelle migliori menti, non potendo mandare a farsi fottere un mercato che ancora devono cercare di controllare prima che contestare, sperano almeno attraverso i mémoire di infondere alle generazioni letterarie successive alla loro la nostalgia per qualcosa che non hanno mai sperimentato: l’epoca d’oro dell’editoria. Un’epoca in cui scoprire un Jonathan Franzen o un David Foster Wallace era possibile non perché si guardavano i tabulati di fatturato esordienti dell’anno prima combinati con i commenti postati dalle blogger sugli ultimi esordi nel self-publishing, ma perché mandavano, quel volto, quella frase, quell’incipit appena letti in bozza, un vago bagliore che poteva lontanamente ricordare quel tale, di nome J. D. Salinger, a cui avevano risposto al telefono, un giorno, da giovani. O quell’altro tale, di nome Albert Camus o Harold Pinter, con cui avevano stretto un contratto di traduzione per gli Stati Uniti malandrino ma leggendario.
Amazon ha sfondato per sempre, le casalinghe mettono online le loro fanzine e fanno un milione di copie, l’autopubblicazione dà un calcio nel sedere agli editor. E non è nemmeno questione di affermazione degli e-book, ma di volatilità della narrazione: alle storie si dà forma come all’acqua e le si inocula ovunque, il libro è rimasto solo uno dei possibili supporti. Non è il declino dell’editoria, ma il crollo dei contenuti a favore dei contenitori. Il lutto per un mondo scomparso è stato più cocente in America che in Europa: là tutto è già accaduto ed è già tempo di riflusso. E allora editor, agenti letterari, editori, persino correttori di bozze e segretarie nel frattempo divenute magari giornaliste, fanno quello che non avrebbero mai pensato di fare: pubblicano la propria storia perché è anche la storia dei libri e degli autori. E allora quei lettori fedeli fanatici, devoti, che ancora ci sono e che la domenica mattina si tolgono il pigiama, si vestono in modo accettabile, guidano o pedalano o camminano per raggiungere una libreria – che è un posto che si distingue facilmente da un centro commerciale o da un megastore perché dentro c’è una persona che si chiama libraio e ha letto i libri che vende – e che ci entrano ogni volta nell’illusione di trovare il capolavoro che gli salverà la vita, quei lettori decidono di comprare. Di comprare e leggere i libri scritti da questi editor, agenti letterari, editori, persino correttori di bozze e segretarie nel frattempo divenute magari giornaliste. E di trovarci il segreto. Anzi, i segreti di quel tempo che non esiste più.
Amiamo le storie perché siamo narrazione, fin dall’infanzia. Ma più di tutte amiamo le storie di grandezza e mito, le storie di eroi e archetipi: la porta del tempo si chiude e quello da cui siamo chiusi fuori per sempre acquista splendore immortale. Come e perché Salinger è diventato Salinger e poi ha smesso di voler essere Salinger per i suoi lettori ma ha continuato a sentirsi Salinger per il suo agente e i suoi editori e che odore aveva la sua giacca e che tono aveva la sua voce quando urlava al telefono? C’è il mémoire “Un anno con Salinger” di Joanna Rakoff (Neri Pozza). Come diavolo fa Philip Roth a conquistarle tutte e ad amarle davvero, abusando delle sue storie d’amore per trasformarle in letteratura e di Halcion per trasformare la vita vera in un rollercoaster di allucinazioni, attacchi di panico, tendenze suicide, ricoveri psichiatrici? C’è il mémoire biografico “Roth scatenato” di Claudia Roth Pierpoint (Einaudi). E che marca di sigarette fumava Beckett. E come fumava, Beckett, se fumava? E che cosa pensava, mentre fumava? No, perché c’è appunto una foto di Richard Seaver, che tutti chiamavano Dick, che fuma insieme a Samuel Beckett. La pubblicò la New York Review of Books nel 2009 per accompagnare il coccodrillo di James Salter su Seaver. Nella foto siamo a metà anni Settanta: Beckett indossa un dolcevita spesso di lana grezza e grigia, lo sguardo nascosto dagli occhiali da sole. I due sono in strada, la fotografa è Jeannette, moglie di Dick per più di mezzo secolo. E tutti quei lettori devoti vorrebbero essere al posto di Dick Seaver, ora che sanno chi è perché hanno appena posato sulla sabbia “La dolce luce del crepuscolo” (Feltrinelli), comprato all’ultimo Salone del Libro di Torino insieme alla pila di libri che hanno portato in vacanza.
Richard Seaver – classe 1926, Watertown, Connecticut, scomparso nel 2009 – era un altro di questi giganti di un tempo che non esiste più. Tanto che il sottotitolo del suo mémoire postumo è, manco a dirlo, “Parigi-New York. L’età d’oro dell’editoria”. Seaver ha fatto attraversare l’oceano a Eugene Ionesco, Marguerite Duras, Henry Miller, William Burroughs, Harold Pinter, Hubert Selby Jr. Seaver era uno cui poteva capitare di presentare il proprio portafoglio autori mettendo sull’avviso i futuri partner a proposito della complessità caratteriale di Samuel Beckett, dell’omosessualità di Jean Genet, dell’alcolismo di Brendan Behan. O del fanatismo per il ping pong di Henry Miller: avevano dovuto installare appositamente per lui un tavolo da ping pong negli uffici della casa editrice. E le compagne di Miller dovevano averlo altroché, quel tal requisito, “saper tenere in mano la racchetta”.
Seaver aveva scritto questo incompiuto di ricordi – che la moglie Jeannette ha curato e dato alle stampe nel 2012 guarda caso con Jonathan Galassi – solo per se stesso, la sera tardi e nei fine settimana, su una vecchia Royal Standard (Galassi invece ci ha messo solo un mese per finire “La musa”, quattro o cinque ore al giorno per un luglio intero. Poi lo ha chiuso in un caveau e non lo ha più toccato per un anno, in modo da poterlo autocriticare nel modo corretto. Parliamo del romanzo d’esordio di uno dei più grandi editori del mondo, in fondo). Seaver era l’uomo che faceva ridere Samuel Beckett più di ogni altro e che alla prima del rilancio di “Aspettando Godot” all’Odéon lo ascoltò dire del suo capolavoro: “E’ terribile” e decise di portarlo subito a farsi qualche bicchierino di whisky irlandese. Fu quello che scattò la foto “Exit to Brooklyn” che poi venne usata per la copertina del romanzo di Hubert Selby Jr. nel 1964 e fu il primo a convincersi che il rischio di un processo per oscenità pur di pubblicarlo, “Ultima fermata a Brooklyn”, andava affrontato a ogni costo. E ha avuto il coraggio di raccontare, nelle pagine de “La dolce luce del crepuscolo” che aveva immaginato di scrivere solo per se stesso, di quella volta che andò in rue Saint-Benoît a conoscere Marguerite Duras, si sedette nel suo soggiorno con lei, circondato da foto dell’Indocina, e la trovò trombona ed egoriferita, occupata soltanto ad alimentare il suo mito di engagée in un inglese farraginoso e incomprensibile.
E poi ci sono le donne, come Claudia Roth Pierpoint e Joann Rakoff, che si cibano e poi scrivono di un solo autore, purché sia mitologico, grandioso, irripetibile come l’epoca che rappresenta. La Roth Pierpoint (nessuna parentela, sia chiaro) scrive di Philip Roth: lo conosce nel 2002 a una festa, ma lui non se ne ricorda. Due anni dopo, lui le scrive per commentare un suo articolo sul New Yorker. Lei risponde. Lui replica. Finiscono in un caffè di New York e lui si fida di lei. Si incontrano per otto anni e lui non solo le racconta come sono nati i suoi capolavori, ma le fa ficcare il naso tra i suoi file in Connecticut. Il risultato è "Roth scatenato. Uno scrittore e i suoi libri". Dentro, tra pesanti descrizioni fanatiche di torturate genesi di capolavori, c’è anche di che soddisfare i devoti: il flirt con Jackie Kennedy (nel 1964 finirono insieme su una limo guidata dai servizi segreti, lui salì da lei nonostante Lee Oswald e Cuba e “fu come baciare un manifesto”); quello con la Consuela de “L’animale morente” (non era cubana, non aveva un cancro, ma era intorno ai 25 anni, più di un metro e 80 e lo ingelosì come nessun’altra); quello con il suo psichiatra, da cui fu brutalmente tradito (pubblicò un articolo di “intimità rothiane rivelate” a sua insaputa, omise il nome, ma di fatto lo denudò pubblicamente) e il flirt più lungo di tutti, quello con l’Halcion, determinante nella sua vita quanto l’analisi.
A Joanna Rakoff il compito forse più arduo di tutti: nel romanzo autobiografico “Un anno con Salinger” tenta di congiungere nuovo e vecchio mondo editoriale. Mette a confronto i suoi anni di gioventù trascorsi nell’agenzia editoriale che aveva come Unico Grande Cliente l’autore del “Giovane Holden” con la nascita del mondo globalizzato e digitale. Lei usa a malapena il fax ed è costretta e digitare sulla macchina da scrivere per rispondere agli ammiratori di Salinger (centinaia, migliaia di lettere che l’autore non lesse mai: lei avrebbe dovuto usare una formula standard ma alla fine personalizzò tutto quanto e costruì con quei lettori devoti un rapporto segreto e speciale) e siamo a metà anni Novanta, a New York.
[**Video_box_2**]Eppure, in quelle stanze dell’Agenzia descritte dalla Rakoff, si possono con serenità specchiare oggi proprio quei devoti fanatici dell’epoca d’oro della letteratura: si respira il profumo della carta, carta a quintali. I dorsi dei volumi sono gli stessi che lei vedeva in casa da bambina, le rilegature pesanti, riconoscibili, tradizionali, gli editor immancabilmente snob e di buongusto, antipatici e scostanti e misteriosi. Gli autori sono ancora capaci di alimentare, con il loro antimarketing, la Sindrome Holden: “Uno scrittore è qualcuno che quando hai appena finito di leggere il suo libro senti tuo amico e che vorresti chiamare al telefono tutte le volte che vuoi”. Internet in questo mémoire sembra lontano secoli. Emozionano, senza retorica, le due scarne paginette in cui l’autrice descrive la prima volta in cui sentì la voce di Salinger, sordo e scorbutico, lontano, incomprensibile e strambo. New York può ancora essere silenziosa e solitaria dopo una gran nevicata. I libri appartengono ancora, per pochissimo, a quel tempo che non esiste più.
Il Foglio sportivo - in corpore sano