Il pendolo cinese
Alla solenne parata di giovedì 3 settembre sulla piazza Tiananmen per ricordare la “Vittoria contro il fascismo”, non ci saranno i principali leader occidentali. Eppure, senza “l’alleato dimenticato” come lo chiama Rana Mitter, docente a Oxford e autore di un recente libro (“The Forgotten Ally: China’s World War II, 1937-1945”), senza quei 18 milioni di morti, senza la resistenza anti giapponese di Chiang Kai Shek da un lato e di Mao Zedong dall’altro, nessuno sa come sarebbe finita la Seconda guerra mondiale in Asia. Certo, c’è l’imbarazzo delle democrazie di fronte alla repressione della primavera 1989, anche se il ricordo del tragico evento non ha impedito alle cancellerie liberali di celebrare, con le Olimpiadi del 2008, il nuovo ruolo della Cina tra i grandi del mondo, proprio là dove l’avevano collocata gli americani e gli inglesi ammettendola nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite tra i cinque paesi vincitori, gli unici con potere di veto.
Conflitto e cooperazione, memoria e oblio, interessi e ideali, il rapporto tra l’occidente e la Cina è sempre stato un moto pendolare, dalle due guerre dell’oppio alla crisi finanziaria odierna. Lusingata poi derisa, umiliata poi esaltata, sognata dai maoisti occidentali poi corteggiata dai conservatori americani, temuta come la Fabbrica Mondiale e la potenza egemone del XXI secolo, poi ridotta a un grande bluff, a una tigre di carta, la Cina è rimasta un gigantesco enigma. E lo dimostrano proprio le prime, imbarazzanti e goffe missioni britanniche per aprire le porte della Città proibita.
Conoscendo la tradizione secondo la quale il Figlio del Cielo andava onorato con doni dal valore simbolico, Lord Macartney inviato da Giorgio III nel 1793, aveva portato con sé un chirurgo, un medico, un meccanico, un esperto di metallurgia, un orologiaio e un fabbricante di strumenti matematici nonché cinque musicisti tedeschi. I suoi doni comprendevano pezzi d’artiglieria, un carro, porcellane inglesi, orologi da polso costellati di diamanti, e ritratti del re e della regina dipinti da Joshua Reynolds. Insomma tutte le prove di che cosa avrebbe potuto ottenere di buono e di bello la Cina dall’amicizia con la Gran Bretagna.
Per raggiungere Jehol, la capitale estiva a nord-est di Pechino dove soggiornava la corte, la delegazione viene imbarcata su vascelli cinesi recanti cartelli per ricordare a tutti che “gli ambasciatori britannici rendono onore all’imperatore Qianlong”. E proprio su come onorarlo sorge il primo grave intoppo. I dignitari cominciano a chiedersi se il barbaro deve prostrarsi secondo l’usanza orientale chinando la testa per tre volte fino al suolo o genuflettersi una volta su un ginocchio come in Occidente. Ovviamente decidono per la prima soluzione. Lord Macartney rifiuta e a questo punto il viaggio si arresta. La discussione va avanti per diverse settimane durante le quali gli ospiti vengono tenuti sotto controllo con tutta la cortesia possibile. Alla fine prevale la genuflessione, ma dopo un mese e mezzo ancora non c’è ombra di udienza imperiale.
Una mattina, ancor prima dell’alba, il Lord viene condotto in una magnifica tenda per aspettare il Figlio del Cielo che, quando il sole è già alto, appare su una sontuosa portantina. Comincia una cerimonia solenne, lenta e silenziosa, con lo scambio dei regali; Qianlong dona dei piatti della propria collezione e infine offre con le proprie mani vino caldo agli ospiti. Il giorno dopo, compleanno dell’imperatore, Macartney è ammesso nel palco celeste durante uno spettacolo teatrale. L’ambasciatore spera di poter cominciare una discussione sugli obiettivi veri del suo viaggio, le relazioni diplomatiche e commerciali, ma si vede portare un piccolo libro dipinto a mano dallo stesso imperatore, da consegnare al re come pegno di amicizia. Gli dicono che la scatola apparteneva alla famiglia regnante da ottocento anni, anche se la dinastia Qing aveva preso il potere “soltanto” nel 1644. E l’incontro finisce qui.
Nei giorni seguenti Macartney prova a contattare il primo mandarino; tutto inutile. Ai primi di ottobre gli comunicano con apprensione che, avvicinandosi i rigori dell’inverno, la corte, preoccupata della salute degli onorevoli ospiti, pensa sia il momento di lasciarli partire. L’ambasciatore, a questo punto, perde le staffe e rifiuta di muoversi prima di essere ricevuto in udienza formale. Il 3 ottobre un dignitario sveglia il Lord, gli chiede di indossare la divisa da cerimonia e di seguirlo per ricevere risposta alla sua petizione. Dopo un’attesa di diverse ore, viene accompagnato su una lunga scalinata in cima alla quale si erge il trono imperiale. Ma deposto sulla sedia ricoperta di magnifica seta, non c’è Qianlogng, bensì una sua lettera indirizzata a Giorgio III.
“Tu o re, vivi oltre i confini dei mari nondimeno, spinto dal tuo umile desiderio di compartecipare ai benefici della nostra civiltà hai inviato una missione con i tuoi doni commemorativi… Oggetti strani e costosi non mi interessano. Se ho ordinato di accettare i tributi da te inviati è solo in considerazione dello spirito con i quali li hai spediti. Come il tuo ambasciatore può constatare, noi possediamo ogni cosa”. Quanto alla richiesta di una sede diplomatica non fa parte delle tradizioni. Del resto, aggiunge l’imperatore, “l’Europa è fatta di tante nazioni, dovremmo dunque ospitarle tutte?”. Non solo. “Supponendo che io invii un ambasciatore a risiedere nel tuo paese, come potresti trovargli una sistemazione adeguata?”.
Qianlong aveva usato tutte le sottigliezze e i simbolismi della sua cultura e anche una buona dose di ironia personale. Ben più diretto sarà nel 1816 il suo successore Jiaoqing con il nuovo inviato britannico, Lord Amherst. L’editto imperiale consegnatogli dai mandarini dice chiaro e tondo a Giorgio III: “La Corte Celeste non stima preziosi gli oggetti venuti da lontano, e tutte le cose curiose e ingegnose del tuo regno non si può considerare che abbiano un grande valore. In avvenire, non ci sarà alcun bisogno di inviare degli ambasciatori per venire così lontano, prendendosi l’inutile briga di viaggiare per mare e per terra”.
Fulgido esempio di resistenza al colonialismo? Piuttosto il clamoroso abbaglio di una dinastia conservatrice, nata da feudatari della Manciuria e guerrieri mongoli, che impose a tutti il codino in segno di sottomissione. Chissà come si sarebbero comportati i Ming, protagonisti del rinascimento cinese dopo l’era dei Kahn. Forse avrebbero usato la stessa astuzia nipponica di Mutsuhito, l’imperatore Miji (il “governo illuminato”), innestando lo spirito occidentale nella tradizione orientale.
La vendita dell’oppio fu il pretesto dei due conflitti che hanno segnato il declino cinese, anche se non ne va sottovalutata l’importanza: in una lettera alla regina Vittoria, nel 1839, Lin Ze-xu, commissario imperiale per la distruzione della droga, spiega i principi morali e le ragioni pratiche che impediscono di rendere legale il papavero sonnifero nell’impero cinese. La vera posta in gioco, però, si chiamava libertà degli scambi, apertura dei confini, una nuova concezione delle relazioni internazionali basate sui commerci tra i quattro angoli del globo, tutto ciò che l’Impero di Mezzo, collocato nell’esatta metà del mondo quadrato e inscritto nel cerchio del cielo, non poteva accettare. Bisogna scavare, dunque, nella storia e nella cultura, come spiega lo storico David Landes. Tuttavia il rifiuto di aprirsi e accettare la sfida ha fatto perdere almeno un secolo alla Cina. E la nuova fase inaugurata da Deng Xiaoping, scrive Henry Kissinger, può essere letta come “un tentativo di recuperare il tempo perduto”.
E’ una interpretazione dell’evo moderno (così viene definito dagli storici cinesi il periodo che va dalla prima guerra dell’oppio nel 1840 fino all’ascesa al potere di Mao nel 1949) diversa da quella dei vecchi e nuovi nazionalisti i quali rappresentano la Cina come un continuum millenario spezzato dai “barbari rossi” (gli inglesi). In realtà, di altri barbari ne sono passati un bel po’, basti ricordare la dinastia Yuan fondata da Kublai, nipote di Gengis Kahn. E’ vero però che ogni invasore finiva per essere assorbito e normalizzato. Il comunismo stesso è una ideologia occidentale, però Mao lo ha imbevuto della cultura contadina cinese. E i successori di Deng hanno riesumato Confucio per giustificare un forte potere centrale. Adesso, invece, per la prima volta, si tratta di trasformare gli influssi esterni in una nuova sincretica civiltà.
La grande esibizione delle Olimpiadi ha coinciso con il rilancio di una corrente che ha attraversato la Cina moderna ispirando movimenti potenti e pericolosi (si pensi soltanto alla rivolta del Boxer nel 1900). Due saggi, pubblicati nel 2009 e nel 2010 (“Il sogno cinese” e “La Cina è infelice”) scritto l’uno da un ex colonnello, Liu Mingfu, professore all’Università della Difesa e l’altro da un gruppo di politologi, hanno avuto una eco molto vasta; veri bestseller, presentano il rapporto con gli Stati Uniti al pari di una sfida per l’egemonia mondiale. Scrive uno degli autori, Song Xiaojun: “L’America non è una tigre di carta, come diceva Mao, bensì un vecchio cetriolo dipinto di verde”.
Eppure, tra Cina e occidente, lontani ma costretti a stare vicini, le cose sono andate sempre meglio quando è prevalsa l’alleanza, magari obtorto collo. Secondo Kissinger, la stessa guerra di Corea è figlia dell’incomprensione sul ruolo di Mao. Stalin diede il via libera a Kim Il-sung per l’invasione del sud contro la prudenza, se non l’aperta contrarietà, di Pechino, allo scopo di spingere il nuovo regime cinese a intervenire accentuando così la sua dipendenza militare da Mosca. Quanto agli Stati Uniti, furono presi alla sprovvista e costretti a intervenire nel 1950 non per vincere, ma per pareggiare. Il successivo scontro in Vietnam si concluse con una umiliante sconfitta americana.
L’obiettivo staliniano era evitare che Mao si trasformasse nel Tito asiatico, spina nel fianco dell’Unione sovietica. Nel breve periodo ci è riuscito, ma dopo la sua morte, venuto a mancare il carisma del grande despota, il gruppo dirigente cinese s’è allontanato dall’Urss. E’ cominciato un primo ménage à trois che dopo un altro decennio (i cicli politici cinesi durano quasi sempre tanto) porterà alla relazione speciale con Washington.
Certo, Kissinger resta filo-cinese, del resto è stato lui il tessitore della diplomazia del ping pong e della grande alleanza. Lo ha fatto in funzione innanzitutto anti russa, ma non solo. L’incontro tra Richard Nixon e Mao, a Pechino nel 1972, ha gettato le basi della grande trasformazione lanciata sei anni dopo da Deng Xiaoping. E la “special relationship” ha posto le premesse per la globalizzazione: gli immensi capitali della diaspora vengono sdoganati per essere investiti nella madre patria e i debiti degli americani sono finanziati dal risparmio dei cinesi. Quando questo scambio è entrato in crisi, nel 2008, la crescita della Cina ha compensato la recessione degli Stati Uniti e dell’Europa. Adesso è giunto il momento di un nuovo rapporto.
Il vecchio dottor Stranamore è l’unico a mantenere un approccio lucido fuori dagli isterismi sinofobi e dagli entusiasmi sinofili che hanno permeato (entrambi) il senso comune. Fino a poco fa Federico Rampini, già corrispondente della Repubblica a Pechino, non ha esitato a raccontare una “Cina vincitrice” che si trova “in una posizione simile a quella dell’America all’inizio del Novecento: è la potenza in ascesa, è la grande esportatrice ed è il banchiere delle altre nazioni”. Sulla stessa linea Martin Jacques, una delle firme più note della sinistra inglese. Nel suo bestseller “Quando la Cina domina il mondo”, sostiene senza pudori: “E’ cominciato il nuovo ordine mondiale cinese” che rimpiazza il vecchio ordine americano il cui declino è ormai evidente, anzi inevitabile. “Benvenuti nel futuro”, così conclude il libro.
[**Video_box_2**]Adesso il pendolo cinese cambia di nuovo verso. Rampini si esibisce sul “1929 cinese”. Il Wall Street Journal scrive che l’economia del dragone “è una scatola nera”: le cifre ufficiali, non solo sono gonfiate ad arte, ma molto spesso vengono costruite con metodi approssimativi. Ciò falsa la crescita del prodotto interno lordo (quella effettiva sarebbe addirittura la metà, non oltre il 3,5 per cento), l’inflazione (che sarebbe persino doppia) o il debito pubblico (che arriverebbe al 280 per cento del pil). E l’Economist questa settimana titola in copertina “La grande caduta della Cina”.
Il fatto è che si stanno indebolendo gli elementi base del boom asiatico. Lawrence Lau, eminente economista cinese che ha insegnato sia a Hong Kong sia a Stanford in California, fin dagli anni 90 ha dimostrato che il “miracolo” non ha nulla di miracoloso, è frutto di un uso massiccio della manodopera a buon mercato, con in più le vaste aree offerte in concessione dai comuni per favorire l’urbanizzazione e il torrenziale afflusso di liquidità. Lavoro, terra, capitale, i fattori chiave dell’ “accumulazione primitiva” come la chiamano i marxisti. Tanta abbondanza sta finendo, quindi va cambiato il modello di sivluppo. Lo ha riconosciuto lo stesso presidente Xi Jinping e ne ha fatto la ragion d’essere del proprio potere. Ma “il nuovo Mao”, come viene chiamato, s’illude di poter gestire la transizione all’“èra dell’armonia” mantenendo un tasso di crescita compatibile con il consenso sociale e politico (secondo le stime ufficiali tra il 6 e il 7 per cento).
Una recente analisi del Quotidiano del popolo, organo del Partito comunista, punta il dito contro la “reazione alle riforme” ad opera dei colossi di stato che hanno schiacciato l’economia privata. Xi al contrario vuol favorire l’accesso al credito e ai capitali delle piccole aziende e degli imprenditori, per costruire una crescita più solida ed equilibrata. La svalutazione dello yuan fa parte di questa strategia. Le “turbolenze finanziarie di breve periodo”, dunque, vanno inquadrate nella lotta tra i riformisti guidati da Xi e i vecchi mandarini? O è una lettura dietrologica, specchio di una feroce lotta politica al vertice? Ancora una volta, è difficile capire e sarà ancor più difficile capirsi, nonostante gli sforzi di Kissinger. Gli interessi di fondo sono complementari, è vero, ma una Comunità del Pacifico parallela e convergente con la Comunità dell’Atlantico è un sogno kantiano che poco s’addice all’inguaribile alfiere della realpolitik che ha fatto di Metternich il suo profeta.
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